Capitolo 13

1555, Stackpole.

Sente la voce di padre Emmanuel nelle orecchie, la citazione che lo dipinge come un predatore nascosto fra le prede, e subito s'infervora. Trattiene le briglie, fa rallentare Efesto. Vede Elliot correre a perdifiato, mancare qualche passo, incespicare tra i fili d'erba. E sogghigna, senza rendersene conto, incarna il famigerato lupo.

«Flea!» lo chiama, alza la voce, percepisce il suo respiro ansante e la voglia di vivere farsi più prepotente, più accattivante. Mordicchia le proprie labbra e per poco non sbotta a ridere. La vista alterata, appannata. I margini di una realtà di campagna che ondeggiano nel vino, ancora il sangue nelle orecchie.

«Sir, per favore!» ansima. Non si volta, continua semplicemente a correre. Chissà come, ha l'impressione di non poter andare lontano - e ha ragione, perché perfino l'inconscio continua a ripeterglielo; gli dice: Sta giocando, sta cacciando! E sei tu la preda, sei tu! Le lacrime agli occhi e i denti che stridono appena quando tenta di deglutire a vuoto. Serra le palpebre, china la testa. Nelle orecchie, il rimbombo degli zoccoli di Efesto e il richiamo di Louis Holland:

«Fermati, Flea

«No!» esclama, si oppone. Il fiato corto, l'aria che brucia nei polmoni. Torna a guardare dinanzi a sé, poi inciampa, cade, ruzzola in terra e si sporca i vestiti, ma non viene raggiunto. Guarda alle proprie palle per un solo istante e intravede la sagoma di Efesto farsi più vicina, più scura. Allora ricomincia a correre. Il dolore al ginocchio sinistro, al gomito, perfino ai palmi sporchi di terra. «Vi prego, Sir...» annaspa.

E lui è ancora lì, ancora alle sue spalle. Lo guarda, sogghigna. Alza la voce e domanda: «Per cosa mi preghi?»

«Per tutto...» balbetta.

«Per tutto» echeggia sardonico. Sogghigna, lo vede incespicare di nuovo e frenare una seconda, rovinosa, caduta. «Per cosa?» insiste.

La voce di Elliot è spezzata dall'affanno, è un gemito basso che fa: «Non vi ho disobbedito intenzionalmente.» E poi si strozza, si blocca. I capelli mossi ondeggiano appena, si scompigliano tra i rami di un cespuglio.

Louis batte le palpebre e trattiene Efesto. Lo sguardo puntato su Elliot, sul suo scivolare di lato e capitolare giù come un barile. Lo vede ruzzolare lungo un piccolo burrone, così trattiene un suono seccato. «Se ti stessi cacciando saresti già morto» commenta tra sé e sé. Infine smonta da cavallo, si avvicina a un albero e lega Efesto in un moto d'irritazione. Gli dà una piccola pacca sul collo, poi gli carezza le crine scure e torna a puntare Elliot dall'alto della sua postazione. Dovrei raggiungerlo, no? si dice. Lo guarda con la coda dell'occhio e lo vede: è raggomitolato su un fianco. Così storce le labbra e sbuffa. Scivola lungo il burrone con una postura composta e, di certo, non incespica; punta bene le suole nel terreno erboso, sulle foglie rinsecchite, sui fiori di campo che vengono calpestati uno a uno.

Elliot ha il cuore in gola e le lacrime agli occhi. Non sa se Louis abbia o meno voglia di ucciderlo lì, seduta stante, ma ne ha come il presentimento. Sente il tintinnio metallico dell'elsa, poi i suoi passi farsi più vicini, e non prova a tirarsi in piedi, conscio che potrebbe solo barcollare. Rannicchiato come un riccio, in posizione fetale, si stringe un ginocchio escoriato. Gli occhi fissi sull'orizzonte, sul tramonto. Uno scenario tanto bello per un momento tanto brutto, si dice.

«Mi hai fatto penare per raggiungerti» borbotta. Ancora il ghigno stampato in faccia, poi l'espressine che cambia radicalmente al suono delle parole che seguono:

«Pensavo che vostra madre avesse avuto ragione nel parlarmi di voi... Ingenuamente, forse, credevo che dietro i vostri atteggiamenti assurdi si celasse un cuore ancora vivo, non di pietra.»

«Silenzio!»

«Ma ho sbagliato. Madame Deanna ha parlato con amore, non con obiettività, e le parole di vostro padre vi si addicono molto di più» soffia. Le dita sporche di sangue che si spostano, che carezzano i petali di un iris selvatico. Poi un brivido, la consapevolezza che si tinge di rosso sotto lo sguardo del sole morente. «Voi avete ucciso Delphina, voi siete Berbablù» dice. Un nodo in gola, la voce che si mozza proprio lì, dietro un macigno immaginario. «Avete portato via molti ragazzi e ragazze, li avete usati per soddisfare chissà quale assurdo capriccio... E se avete intenzione di liberarvi di me, Sir, fatelo adesso.» Sa che istigarlo è pericoloso, ma non riesce a trattenersi. «Uccidetemi, avanti, cosa state aspettando?» Vacilla appena, mentre dice: «Sono fermo, in terra, disarmato...» Ricorda il volto deluso di Danielle e si sente terribilmente in colpa per non aver sperato nella fuga di Delphina. Sei solo un egoista, Elliot. Egoista e vigliacco, sì. Un essere inutile. Abbassa di poco le palpebre, si concentra sull'indaco macchiato dell'iris vicino e sospira. Non un fiato lo raggiunge, solo la propria constatazione - l'ultima speranza: «Ricordate, però, che sono uscito dal vostro palazzo per ordine di vostra madre e che le avevo promesso dei fiori di campo.» Ingoia il rospo, si fa coraggio. Punta un gomito sul manto erboso e si puntella per voltarsi a guardare Louis con astio. «Abbiate almeno la compiacenza di essere voi a portarglieli...»

«Dei fiori di campo» cita. Non riesce a trattenere un suono divertito, mentre scuote la testa e arriccia il naso tra lo sdegno e l'ebbrezza. Chissà come, si spinge tanto in basso da posare entrambe le ginocchia in terra. E vede Elliot sgranare gli occhi, battere le palpebre, tremare come una foglia. Allunga una mano per avvicinarselo, lo sente strisciare sull'erba e quasi lo maledice. Digrigna i denti, irritato e ferito dalle parole appena udite, perciò scatta: lo afferra per una spalla, lo sente gemere e poi cadere in un tonfo. Lo guarda: ha gli occhi appannati dalle lacrime, arrossati, mentre lo fisa rabbioso e fiero. «Non dovresti fuggire da me, Flea...» sibila. Poi si avvicina, tenta di azzannargli le labbra. Gode del suo terrore per un solo istante ed è consapevole di essere un uomo terribilmente meschino; tuttavia non cede e, con le palpebre appena abbassate, socchiude le labbra. Vorrebbe aggiungere altro, ma non lo fa, e, nel dubbio, prova a baciarlo. Cavalca l'onda dei propri pensieri - o, come direbbe Oliver de Rivière, delle perversioni che gli affollano la mente. Un fremito, un morso. Ancora il proprio sangue e i denti di Elliot che si serrano, che si negano.

«E secondo quale logica?» lo rimbecca, mugola infastidito, sfuggendogli. Sente le sue dita sulla pelle, oltre lo squarcio della stoffa insanguinata, che gli batte sul ginocchio. Annaspa, colmo di rabbia. È spaesato, spaventato. Non può fare altro che sgranare gli occhi e osservare Louis Holland con l'aria di una preda messa alle strette. Lo sa, per questo si ammonisce mentalmente: Un po' di orgoglio non guasterebbe... Così solleva il mento, punta i gomiti sul terreno e cerca d'indietreggiare, prima di sentirsi spingere giù da un nuovo strattone.

«Non devi scappare» scandisce Louis. Allunga la mano oltre la stoffa lacera delle calze, supera i calzoni e raschia con le unghie l'escoriazione viva. Quando lo sente gemere di dolore, incalza: «Non devi azzardarti, Flea

«Lasciatemi» ringhia questi. «Lasciatemi immediatamente!» Allunga una mano per scostarselo di dosso, tuttavia finisce con le spalle sull'erba e si fa mancare un respiro. Lo sguardo fisso sul cielo appena tinto d'arancio, sui capelli scomposti e scuri di Louis che si avvicinano, che ondeggiano. Freme, s'irrigidisce. I denti serrati, i muscoli tesi.

«E se non volessi farlo?» Una domanda a fior di labbra.

Nelle narici, l'odore pungente del vino che Louis Holland ha ingurgitato nella taverna del borgo. Elliot storce il naso con stizza, in un moto di disgusto. «Siete ubriaco, santo cielo!» sbotta a gran voce. Poi vacilla, si aggrappa all'unica convinzione rimasta e si dice: Devo assecondarlo, devo chiedergli scusa e promettere che non uscirò più! Così la smetterà, sì. Anche Jonathan smette sempre quando gli do ragione! «Tornerò a palazzo con voi, Sir» balbetta. «Non andrò in chiesa, non andrò da nessuna parte, ma adesso lasciatemi andare!»

Louis grugnisce un: «Silenzio! Chiudi la bocca!» Non dice altro, non gli permette di rettificare, di tentare, di appigliarsi ad alcuna speranza - solo all'erba e ai fiori di campo, o al suo mantello. Lo bacia senza riserve, senza freni: passionale, deciso, affamato. S'insinua a forza nella sua bocca, lo lascia senza fiato e lo sente perfino singhiozzare, mugolare. E non incontra la resistenza dei denti, non questa volta. Se ne compiace, perciò gli slaccia il farsetto, gli solleva la camicia, lo sente rabbrividire. In un attimo ha di nuovo la stessa, assurda, visione di lui nella tinozza per i panni. E affonda nella sua bocca, lo fa annaspare, gli raschia le costole con le unghie fino a farlo gemere. Immagina la sua pelle chiara, i nei vicino al petto. Voglio vederli ancora, si dice.

«Per favore, Sir» balbetta. Le labbra di nuovo libere e quelle di Louis che gli scivolano sul collo. «Fermatevi... Ho detto che tornerò a palazzo.»

«Stai zitto» ringhia ancora.

«Non sto zitto!» esplode. Stringe le dita sull'erba e ne strappa qualche per poi battere un pugno chiuso sulla spalla di Louis. «Non sto zitto, no!» singhiozza. Le lacrime trattenute a stento, un solo rivolo salato lungo la tempia offesa. «Non potete farmi questo: è pura follia!»

Lui si scosta appena, lo fulmina. Ignora il colpo sulla spalla e quelli ripetuti che Elliot gli batte sul petto per allontanarlo. «Questa non è follia» scandisce. «Ma se ti piace credermi folle, fa' pure...» Digrigna i denti, lo afferra per i polsi e poi lo costringe ancora contro il suolo. Sente le sue ginocchia scalpitare, premere, farsi convulse. E il suono della stoffa che fruscia, i colpi dei tacchi bassi contro i propri stinchi. «Sei fastidioso» sputa. «Troppo fastidioso!» Con un gesto secco, lacera completamente le calze di Elliot.

Ma questi non resta inerme e, anzi, ringhia, si avventa su lui come per dargli una testata. Purtroppo lo manca, ma solo perché Louis lo ha intercettato. «Non sono fastidioso!» obietta. Si dibatte ancora e riesce a liberare una mano, a schiaffeggiarlo.

Una seconda sfida, un secondo colpo che Louis fatica a digerire. Così restringe lo sguardo e ringhia a sua volta. «Piccolo Diavolo» lo apostrofa.

«Non osate toccarmi!» Di nuovo la fierezza, l'ostinazione. Lo sguardo lucido di Elliot che punta quello lacustre di Louis Holland, poi le sue parole: «Non vi avvicinate, Sir...»

L'interpellato ghigna, scuote la testa. Lo guarda: occhi sgranati dal terrore, singhiozzi che lo scuotono da capo a piedi e guance arrossate, paonazze - eccitate, forse, o indignate, spaventate. Non gl'importa saperlo, perché subito lo provoca con un: «Altrimenti?» E torna ad armeggiare con i suoi calzoni, cerca di sfilarglieli nonostante questi continui a dibattersi.

«No!» grida, poi si arrende. Abbassa le palpebre, singhiozza apertamente. «No, Sir...» soffia. Assieme al tono, perfino la voglia di ribellarsi pare morirgli dentro. Qualcosa s'incrina, scivola dalle sue guance assieme alle lacrime che non riesce più a trattenere.

«Dovresti dire di sì, invece» lo corregge, infilandogli una mano tra le cosce. E ghigna sul suo collo, gli lecca il lobo dell'orecchio, lo sente tremare al primo tocco e poi al secondo. Non è poi così diverso dagli altri esseri umani, si dice. È solo orgoglioso, dannatamente orgoglioso! Cerca di guardarlo negli occhi mentre socchiude le labbra in un moto di compiacimento. Lo sente crescere e irrigidirsi sotto le dita. Ma poi si ferma, frena ogni fermento. I denti serrati e la bile che torna a ribollirgli nello stomaco. Non mi sta guardando, constata. Vede gli occhi di Elliot fissi sul cielo, sulle nuvole. Perché? «Guardami.» Un ordine sillabato a un passo dalle sue labbra. Di nuovo il suo sguardo fisso, vacuo e assente. Vede le ciglia muoversi appena, tremare per abbandonare un'ennesima lacrima. «Ti ho detto di guardarmi, Flea!» Si scosta, ma lo trova fermo, impietrito.

All'improvviso, un soffio: «Aveva ragione vostro padre.» E ancora il silenzio, lo sguardo lontano da quello turbato e sconcertato di Louis. Poi altre parole, una spiegazione: «Non oso guardare chi non merita rispetto.»

«E chi merita rispetto?» chiede di getto. Una provocazione, forse, o forse ancora l'istinto. «Io sono il tuo signore!» E non appena lo dice, ricorda le parole di Oliver: il Signore è il mio Dio, avete un rivale in amore!

«Il rispetto che devo a voi, Marchese di Stackpole, è solo dettato da un titolo nobiliare» replica, per l'appunto, l'interpellato. Lo sguardo ancora distante, il respiro corto e la testa su di giri. «Ma dovete sapere che non siete neppure in grado di rispettate il nome che portate, Sir Holland. Ne fate un vanto e pretendete dal popolo ciò che non vi spetta...» Fa una piccola pausa, resta in silenzio per qualche secondo. Fortunatamente non viene interrotto, perciò continua: «Incassate le tasse, lucrate sulle vigne, ma lasciate morire la gente di fame nelle stesse terre, che dite di possedere.»

Non può dirmi una cosa simile senza restare impunito, si ammonisce Louis. Gli occhi sgranati, furenti. Fa scattare la mano verso l'elsa, ma si ferma nell'eco dello schiaffo che, immortale negli anni, gli ricorda ancora il giorno in cui suo padre è morto. E rabbrividisce, gli sente dire:

«Non so proprio chi meriti rispetto a questo mondo, ma di sicuro questo qualcuno non siete voi...» mormora. Poi, di colpo, si sente colpire da Louis. Spalanca gli occhi, offeso a sua volta da uno schiaffo, un manrovescio per la precisione.

«Parli di cose che non ti riguardano, che non ti competono, dannazione!» grugnisce. Si alza in piedi e lo fissa. Lo vede muoversi lentamente, tremando e cercando di rivestirsi. Non smette di osservarlo, di fulminarlo, di farlo raggelare.

«Parlo di cose che conosco e che vivo sulla mia pelle» obietta. S'infila la camicia nei calzoni e li calza bene all'altezza della cintura. Freme sul posto, si sente come morire, mentre le parole continuano a uscirgli di bocca senza poter essere controllate: «Parlo di cose che voi non volete ascoltare e che vostra madre apprezza.»

Ancora mia madre! Louis restringe lo sguardo, lo vede chiudere il farsetto a fatica e zoppicare sul ginocchio ferito, insanguinato, mentre cerca una postura composta per infilarsi una delle scarpe che gli è scivolata nella colluttazione. «T'importa così tanto di mia madre, Flea?» Un sussurro ebbro, una risatina cinica e sotto i baffi.

«Importa più a me che a voi» ci tiene a sottolineare. «M'importa di lei quanto m'importa della mia.»

«Se tua madre è tanto importante quanto la mia, allora è bene che si riguardi dalla lingua biforcuta di suo figlio.» Gli vede aggrottare le sopracciglia e subito ghigna, si sistema meglio il mantello.

«Cosa intendete dire?»

«Nulla di più di ciò che ho detto» taglia corto.

«Mi state minacciando?» insiste, e, nello stesso momento, le campane della chiesa di Padre Aubyn, iniziano a rintoccare le sei del pomeriggio. È solo il secondo dong, quando Elliot chiede: «Minacciate me o mia madre?»

«Minaccio te e tutto ciò a cui tieni, Flea.» Un attimo di silenzio, poi il terzo rintocco, e ancora il quarto. L'eco delle parole di Louis lo fanno ghignare con soddisfazione nel pallore infuocato del tramonto.

«Anche vostra madre?»

Al sesto rintocco, Louis annuisce e ripete: «Tutto ciò a cui tieni.»

«Siete un mostro» si lascia sfuggire. Un'eco che rimbomba nelle proprie orecchie e che torna indietro nei giorni per unirsi a quello della Marchesa Alene. «Se sapete togliere tutto alle persone che amate, Sir, non dubito che possiate togliere a me ciò che non voglio darvi...»

«E cosa non vuoi darmi?» soffia. Muove un passo nella sua direzione, lo vede barcollare e retrocedere appena, furibondo. Odio i suoi occhi, li odio! torna a dirsi. «Cosa?» Lo raggiunge e, adirato, lo afferra per entrambe le spalle. «Il tuo corpo, Flea? Il tuo rispetto? Oppure i tuoi pensieri?» sibila. «Forse sono proprio questi... Perché ti atteggi a figlio, non a valletto. E cerchi l'affetto di una seconda madre in un posto dove non ti è dovuto niente!» Ed ecco la gelosia, la verità mormorata da Oliver poco dopo il suo arrivo. Louis inspira a fondo. Le narici allargate dall'indignazione e la furia che gli scorre nelle vene.

Elliot scuote la testa. Non riformula, non incalza, non mette il dito nella piaga. La gelosia di Louis Holland è talmente evidente da sembrare quasi ridicola. È per questo che la isola dal mondo? È per questo che è solo lui a farle visita? Si chiede. Ma conosce la risposta, perciò non fa altro che sospirare. «Prendete tutto senza chiedere niente, lo avete sempre fatto, no? Ma la mia vita, Sir... Questa vita che è tanto importante quanto quella delle persone che avete ucciso, non vi appartiene.»

Lui sembra pensarci: lo sguardo stranito, il volto cereo. Consapevole, colpevole e terribilmente dispiaciuto - perlomeno a detta di Elliot. «Se fosse davvero come dici, se avessi preso tutto, adesso non staresti così...»

«Così come?» lo interrompe. Le sopracciglia aggrottate e lo sguardo fermo, deciso. «Vestito, dite?» lo provoca in un ringhio frustrato.

La voce improvvisamente bassa, diversa. «Illeso» lo corregge.

«Illeso è una parola grossa, Sir» sputa, mostrando la guancia arrossata dal colpo ricevuto poco prima e barcollando sulla gamba non ferita.

«Illeso, sì» ripete con più convinzione. «Perché avrei potuto prenderti seduta stante - qui, su questo prato.»

«Prendermi?» Echeggia. «Volete abbassarvi a tanto? Non vi basta più vostra moglie?»

Una provocazione che fa digrignare i denti a Louis, che gli riecheggia nelle orecchie e che lo spinge e premere di più sulle sue spalle. Così lo fa cadere in basso, lo segue, lo guarda da vicino. Nuovamente in ginocchio sull'erba alta della collina, lo fissa negli occhi e non risponde.

«Lasciatemi!» È Elliot a ordinare, è Elliot a pretendere: ringhia, se lo scrolla di dosso solo per sentirsi afferrare il viso con entrambe le mani accaldate.

«No, non mi basta più...» mormora l'interpellato. Lo dice piano, sulle sue labbra, facendogli sgranare gli occhi. Ma non lo bacia, si sposta sullo zigomo arrossato e lo sfiora appena. Il sapore salato, le lacrime di Elliot sulla punta della lingua. «Non mi basta e non mi basterà, Flea, perché non è te.»

«Il vino vi fa sragionare» borbotta questi. «Guardatevi: mi saltate in dosso come una belva, volete...» E si blocca, si umetta le labbra, le serra. Non dice altro, poi trattiene il fiato e riesce a sputare la verità: «Volete possedermi, cielo! Avete una tale smania di avere ogni cosa che sembrate più cieco di vostra madre.»

E Louis non replica, dice soltanto: «Questa notte verrò da te.»

«Questa notte?» balbetta. Sente le mani di Louis abbandonarlo all'improvviso e il suo fiato acidulo scostarsi di botto. Lo vede di nuovo in piedi, lo segue con lo sguardo. «Cosa significa?» Alza la voce, poi si tira in piedi a fatica e cerca una risposta che non arriva. Osserva le sue spalle, mentre risale il piccolo burrone, facendo ben attenzione a dove mette i piedi. E lo vede salire in sella a Efesto, partire veloce verso il palazzo di Stackpole. Trattiene il fiato, boccheggia. Per un attimo si guarda attorno con fare spaesato. Volevo davvero che mi baciasse? si domanda. Perché non l'ho allontanato? Serra gli occhi, confuso e agitato, mentre un brivido gli percorre la schiena. Così si stringe nelle spalle e reprime un singhiozzo. Le membra appena mosse dal singulto, la mente offuscata. Tra i tanti pensieri, Deanna. «Devo sbrigarmi...» biascica. Si guarda attorno, cerca i fiori gialli e gli iris color indaco. «Farò tardi, la Marchesa Deanna mi aspetta...» La voce rotta, il tono basso. Parla tra sé e sé, sembra quasi uno spettro. Prova dei sentimenti contrastanti, non è in sé. «La Marchesa Deanna ha un abito blu» mormora. E pensa a Delphina, singhiozza, cerca i fiori tra le lacrime. Un mazzo piccolo, modesto, di pensieri contorti e sensi di colpa. Lui è un assassino, è un mostro, si dice. Allora perché non riesco a dimenticare le sue labbra? Perché continuo a voler tornare a palazzo? Guarda nella direzione della chiesetta di Padre Aubyn, tentenna. Perché sto tornando lì e non sto scappando?

Note:

Caspita, siamo davvero arrivati al tredicesimo? Spero che siate riusciti a seguirmi fin qui, ragazzi, perché l'avventura è davvero lunga!

Che ne pensate della situazione che si è creata? Lo so, quando la scrissi nella prima versione avevo in mente una sorta di "Sindrome di Stoccolma". Chissà se sono riuscita a mantenere lo stesso filone anche nella riscrittura. Non è proprio uno schiaffone e bam, tutto insieme come la prima volta del 2014, ma dilazionata. Spero si noti. Elliot ha un carattere diverso dalla prima stesura, è lievemente meno cliché, eppure non è il mio preferito. E visto che devo ancora mettere un punto fermo a tutto questo... mi auguro che ci sia un finale con i fiocchi (non guardatemi come se avessi parlato di angst, io non ho mai detto che amo l'angst, nossignori)!

Che ci crediate o no, il mio bubino di Poison&Wine deve ancora arrivare. E lui si che è in da kokoro dal anni!

Se il capitolo vi è piaciuto, lasciate un commento o una stellina, mi raccomando!

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