Capitolo 12

1555, Stackpole.

In compagnia di Oliver de Rivière è tutto relativo: il luogo, il tempo, soprattutto la qualità del vino - annacquato, perlomeno a detta di Louis Holland. Ma non è questo il punto, perché ciò che conta è la generosa visuale offerta dal decoltè poco casto della cameriera.

Il tipo di donna che piace a lui, si dice. Formosa, disponibile, servizievole... E solleva un sopracciglio, smette di osservarla. Le labbra posate sul boccale pulito alla bene e meglio, i polpastrelli che picchiettano il tavolo della taverna. Sulla lingua, il sapore acidulo dell'ultima vendemmia.

Oliver sembra esaltato. Batte il boccale ormai vuoto sul legno tarlato e, con la punta delle dita, lo sospinge verso la cameriera. Non le rivolge una sola parola, ma aspetta di vederselo riempire e, nel frattempo, punta l'indice destro contro Louis. «Vi siete incantato?» lo pungola e ghigna, ritira il boccale, gorgheggia. Un piccolo rivolo rosato gli scivola dalle labbra, che subito si affretta a leccare. «O state ancora pensando agli occhi della Flea

Louis grugnisce, storce le labbra. Le mani giunte attorno al boccale e lo sguardo fisso su quello alticcio di Oliver. Sembra voler dire qualcosa, ma non lo fa. Non formula neppure un pensiero, perché subito si sente pungere da un'ennesima insinuazione:

«No, non potete essere così interessato al suo sguardo... Ad attrarvi, magari, è qualcosa di più nascosto, qualcosa di più segreto.»

«Oliver!» lo ammonisce. Un'occhiata gelida, forse anche minacciosa, e infine la sua risata squillante. Ho sbagliato, non avrei dovuto parlargli di Elliot, si dice. Poi sbuffa, indurisce i muscoli del viso, gli sente biascicare qualcosa come:

«Suvvia, state forse negando di ambire al suo frutto proibito?»

«Vi sembra il posto adatto?»

Oliver batte le palpebre con fare confuso e si guarda attorno senza farne mistero. Quasi si sbilancia dalla panca di legno per fare capolino oltre le proprie spalle. «Cos'ha che non va?» domanda divertito, canzonatorio, mentre incalza: «Credete che ci sia un posto migliore per parlare delle vostre perversioni, mon ami

«Le mie perversioni?» echeggia a bassa voce. Un sibilo che non presagisce nulla di buono, che fa sogghignare Oliver e che allontana la cameriera in un batter d'occhio. Diavolo, che sto dicendo? si chiede. Prova l'impulso di tagliarsi la lingua e serra i denti in una morsa fastidiosa. Al borgo si parla delle sparizioni, la gente ha paura perfino di chi serve ai tavoli... Non devo dare corda al parlottare di Oliver!

«Non sono stato abbastanza vago, forse?» iIndaga, notando il suo cipiglio irritato.

«Non abbastanza» conferma. «E siete stato voi, se non vado errando, a proibirmi di parlarne.» Torna a bere dal proprio boccale, ma, d'un tratto, grugnisce e lo sbatte sul tavolo in un moto di frustrazione. «Altro vino!» grida, sollevando il braccio per richiamare l'attenzione della cameriera.

Oliver non può fare a meno di lasciarsi scappare una risatina. «State bevendo più di me, mon ami...»

«Impossibile» lo liquida. «Per superare la vostra ingordigia non basterebbe quella di un intero esercito.»

«Quanto siete lapidario» borbotta. Muove appena una mano, si finge noncurante e scola il proprio boccale. Allunga lo sguardo verso la cameriera e coglie l'occasione per sbirciare un'ennesima volta nella sua scollatura. «A ogni modo...» riprende. «Nessuno conosce il sesso di un insetto.»

«Ma di cosa state parlando?» Louis corruga le sopracciglia, segue lo sguardo fisso di Oliver sull'andatura svelta della cameriera. Infine posa il gomito sul tavolo e si sorregge il mento con aria assorta.

«Se ne hanno davvero uno, dico...» continua l'interpellato. Poi si ferma, sorride, torna a guardare Louis con fare ammiccante. «Ne hanno uno, mon ami?» chiede sardonico. «È così che si riproducono tra loro? Fottendosi a vicenda?» Gli vede spalancare le bocca, perciò continua a sproloquiare: «Sì, secondo me è possibile. Ma non credo che facciano caso a certe sciocchezze - una scorsa più dura, una più molle... Non hanno sesso, sono tutti uguali!» Allora si ferma, sorride alla cameriera e si lascia servire altro vino.

Dal canto suo, Louis attende. Quando la vede sgattaiolare via con la brocca in mano, infine, cerca di dire qualcosa: «Siete...» E non trova le parole giuste, perciò storce le labbra e sospira.

«Una creatura magnifica? Un amico perfetto?» consiglia Oliver con un cipiglio ben poco modesto. «Ditemi, vi ascolto.»

«Siete ubriaco» conclude con un'alzata di spalle. «State bevendo troppo, finirete col non riuscire a reggervi in piedi.»

«E cosa mi consigliate di fare?» lo provoca. Un ghigno ebbro, le guance colorate. «A quale altro piacere potrei dedicarmi quest'oggi?»

Louis distoglie lo sguardo e serra la mandibola. «Il cibo, magari» fa a mezza bocca. «Immagino che non abbiate neppure pranzato...»

«Non abbastanza» grugnisce Oliver. Le labbra contratte in una smorfia di disgusto e la nausea che inizia a fare su e giù lungo l'esofago. «O forse è anche troppo» commenta tra sé e sé.

«Allora provate a bere un po' d'acqua» azzarda, non mancando di sollevare un sopracciglio. Cerca di sfilargli il boccale da sotto il naso, ma non ci riesce. «Anche vostro padre mi darebbe ragione: ingurgitare tanto vino non fa bene alla salute e non è neppure rispettabile.»

«Mio padre non è qui» sbotta laconico, lasciandosi andare a una generosa sorsata. «Senza contare che questo vino è già annacquato di suo: non c'è bisogno di altra acqua.» Si terge ancora le labbra e guarda Louis di sottecchi. Cinico, mellifluo, accenna un ghigno e lo sprona con un: «Ma non eravamo venuti qui per divertirci?» E lo vede scuotere la testa, lo sente sospirare. «Il mio compito è quello di farvi rinsavire, no? Allora vedete di riprendervi alla svelta, mon ami, o sarò costretto a farvi bere con la forza!»

E Louis si stringe nelle spalle, accenna un sorriso, che subito accompagna da una risata gutturale di Oliver. «Va bene» dice. «Ma tenete per voi le maniere forti...» Lo vede bere ancora e ancora, infine cede e, con lo stomaco che gracida, butta giù un boccale dietro l'altro. Non una brocca, neppure due o tre, forse quattro. Perde il conto e scivola nei discorsi senza senso di Oliver de Rivière, proprio come quand'erano giovani ragazzini.

Lo guardo di Danielle è preoccupato, apprensivo, perfino meticoloso. Dapprima si punta su quello del figlio, poi lo squadra da capo a piedi. Osserva il colletto chiaro della camicia, il farsetto ricamato a mano. E trattiene il respiro, corruga le sopracciglia, storce le labbra in una smorfia indefinita. Non riesce a capacitarsi che sia proprio lui, che abbia addosso degl'indumenti tanto costosi.

«Pensavo che ti fosse successo qualcosa di brutto» sbotta all'improvviso. Le dita sbiancate, le mani giunte in grembo e gli occhi umidi di lacrime. «Ma vedo che stai benissimo, invece.» Si umetta le labbra, scuote la testa, allunga una mano verso il mantello di Elliot e subito le ritrae per paura d'insozzarlo. «Dopo quello che è successo, dopo il funerale di Delphina...» mugola. Trattiene un rantolo si preoccupazione, infine sbuffa frustrata. «Potevi farti vivo, potevi avvisare!» Il tono basso, irritato. Una nota di rimprovero che non manca di raggiungere le orecchie di Elliot.

«Mi dispiace, ho avuto molto da fare e non sono potuto venire al borgo fin quando la Marchesa Deanna non mi ha lasciato del tempo libero...» mente. Nello stesso momento, si sente gelare il sangue nelle vene. China appena lo sguardo, serra le labbra. Sa che Danielle ha il potere di leggergli dentro, perciò si nega il più possibile e balbetta qualche domanda: «Cos'è successo? Quale funerale?»

«Non lo sai?» Più che incredula, Danielle sembra delusa. Storce il naso in una smorfia di disapprovazione e continua a fissare suo figlio in viso. «Non sai di Delphina?» Gli vede scuotere il capo, perciò si mordicchia le labbra e tace, sospira. La voce tremante, un brivido che le percorre la schiena. Dice: «Devi essere stato molto impegnato, Elliot.»

«Molto» mente ancora.

A intervenire, tuttavia, è Jonathan. Il tono alto, spazientito, sillaba un: «Quanto ti pagano?»

«Come?» Elliot balbetta, batte perfino le palpebre. Dalla sua posizione sulla panca della cucina, si volta a guardarlo. Lo vede fermo, ritto, con la schiena posata sul montante malandato della stanza adiacente.

«Non si lavora per la gloria!» schiocca acidamente. Poi, per quanto gli è possibile, solleva il mento e mostra una certa stizza. Gli occhi ridotti a due fessure, dice: «Non abbandonerai i campi per un vestito smesso.»

«No.» Un'ennesima bugia, un tentennamento visibile che subito si affretta a nascondere con un sorriso tirato. «Affatto, ma credo che del compenso si occuperà la Marchesa...»

«Quando?» Jonathan non ammette repliche, lo pungola con lo sguardo e non smette di far stridere i denti tra una parola e l'altra.

«Questo non lo so» ammette. E si umetta le labbra, distoglie lo sguardo, vede Tristen schioccare la lingua sul palato e incrociare le braccia al petto con aria di sfida.

«Le fortune capitano sempre agli sprovveduti» sibila lui.

Le fortune, eh? echeggia mentalmente Elliot. Si trattiene dal ridergli in faccia e serra la mandibola. Deglutisce a vuoto, indugia con gli occhi sul legno del tavolo, infine guarda Danielle. «La Marchesa Deanna è una brava persona, madre...» inizia a dire. «Vi assicuro che potrò darvi presto notizie al riguardo del salario.»

«Presto?» incalza Jonathan. Le vene gonfie del collo, il volto quasi paonazzo. Si scosta dal montante della porta e frena Tristen, che pare voglia acciuffare il fratello minore per il collo. «Non è un gioco, Elliot» sibila. «Fai in modo di farti pagare, e alla svelta!» grugnisce, storce il naso, solleva una mano per indicare Danielle. «Ci servono i soldi; tua madre sta male.»

Già, il cavadenti itinerante, si ricorda Elliot. Ma come potrei pagarlo? Il Marchese non mi permetterà di avere un salario. E, all'improvviso, si sente uno stupido, un valletto solo di nome ma non di fatto. Non si lavora per la gloria, si ripete. Ma sotto minaccia? Si lavora sotto minaccia? Vorrebbe chiederlo proprio a Jonathan, tuttavia si trattiene dal farlo e annuisce a stento. «Lo so» borbotta.

«Non è così grave» interviene Danielle. E lo fa a bassa voce, lo fa soltanto per proteggere Elliot. Abbozza perfino un sorriso, ma subito se ne pente, perché il dolore alle gengive è tale da indurla a serrare e palpebre. Ha le guance gonfie e gli occhi arrossati. Non riesce a parlare dinanzi all'ennesima sfuriata di Jonathan, che inizia con un:

«Non è così grave? Scherzi?» Trattiene una risata amara, infastidita. La pugnala con lo sguardo, batte un pugno sul tavolo della cucina per farla sussultare assieme a Elliot. «Deve portare dei soldi a casa, ecco cosa! Ed è importante, dannazione!» La sente mugolare, la vede annuire appena, poi continua: «Sei in queste condizioni da più di un anno, Danielle. Dobbiamo farti vedere da qualcuno, dobbiamo risolvere il problema...» Affina la voce, lo sguardo, addirittura le insinuazioni. E subito torna a ruggire, a scattare. Si allontana con un ringhio frustrato ed esclama: «Ti lamenti in continuazione, non mi fai dormire la notte!»

Elliot serra i denti. Guarda Danielle in viso e ha come l'impressione che questa possa mettersi a piangere da un momento all'altro. «Ho capito» scandisce di getto. «E ho detto che penserò io ai soldi...» Deglutisce, si ferma. In uno scatto, si solleva in piedi e fulmina Jonathan. «Perciò basta» sillaba. Lo vede sul punto di esplodere, quant'è vero che Danielle sgrana gli occhi e socchiude le labbra per aggiungere qualcosa che non riesce a dire. Così, prima ancora che la situazione possa sfuggirgli di mano, si allontana di qualche passo dalla panca di legno e allarga le braccia per farsi vedere bene. «Ho un lavoro, no?»

«Sì, è vero, hai un lavoro» ringhia. «Ma...»

Elliot lo interrompe. Solleva un indice e accenna un sorriso, dicendo: «Si è fatto tardi, adesso devo tornare a palazzo.» Sente grugnire Jonathan, ma non ci fa caso.

Ed è Danielle a spronarlo con un: «Allora vai, su! Cosa stai aspettando?»

Le si avvicina alla svelta per stamparle un leggero bacio sulla guancia meno dolorante, infine accenna con il capo in direzione di Jonathan, Tristen e Reggie. «A presto» soffia. Non attende una risposta, anzi: sgattaiola via dall'entrata della cucina. Alle sue spalle, commenti sarcastici e borbottii irritati. Poi il cigolare dei cardini, il vociare del borgo, lo scalpiccio di un paio di muli. Devo andare da Padre Aubyn, si ricorda all'improvviso. E i suoni si attutiscono, l'aria fresca gli gela le guance accaldate. Devo sbrigarmi, altrimenti Madame Deanna si sveglierà da sola e... Scuote la testa, frena i pensieri e continua a camminare. Il passo svelto, la punta delle scarpe eleganti che fruscia contro l'erba alta della collina. Cerca di delineare un'idea, un piano d'azione, ma immagina solo lo sconcerto di Aubyn e, per un attimo, tentenna. Deglutisce, si blocca. Le sopracciglia aggrottate, lo stomaco stretto in una morsa strana, angustiante. «Che diamine ti prende, Elliot?» La voce ridotta a un soffio, un suono che si perde nell'aria. Guarda i fiori gialli, le nubi, la chiesetta rupestre sulla cima della collina, e non riesce a muovere un passo. Si sente come ancorato al terreno. Se gli raccontassi tutto, mi farà fuggire, si dice. Così trattiene il fiato, annaspa, immagina un mondo privo di Danielle, un mondo che non conosce. Sente un brivido lungo la schiena, poi un nitrito. Ed è come un déjà-vu, come un risveglio immediato. La voce di Louis Holland che lo chiama con disprezzo, che ringhia:

«Flea!»

Impallidisce e s'immobilizza. Ha come l'impressione che l'intero universo si sia appena fermato per lui. L'angoscia che pompa forte nelle vene, la ferita sulla tempia che ricomincia a pulsare per chissà quale, assurdo motivo. Non è possibile! si dice. Non trova neppure il coraggio di voltarsi, mentre il galoppo di Efesto si fa vicino.

«Che Diavolo ci fai qui?» domanda Louis. La voce alta, il tono imponente. Ancora un'imprecazione, lo sguardo cupo, l'irritazione in ogni sua più piccola cellula. «Ti avevo proibito di uscire, di abbandonare il palazzo...» sibila. E finalmente lo raggiunge, gli gira attorno. Lo guarda dall'alto, lo fissa con sguardo inquisitorio. Segue l'andamento dei passi di Efesto e lo vede perfino chinare il capo in segno di resa. «Dov'è Bruce?» chiede, arricciando il naso. Ma non si aspetta una risposta, la conosce già. Controlla Alene, razza d'idiota.

«Non ne ho idea, Sir» soffia, balbetta, quasi dubita di aver parlato davvero. Gli occhi fissi sull'erba, che gli solletica le caviglie, che batte sulle calze scure. E deglutisce a vuoto, si morde le labbra. Ricorda di aver cercato una via d'uscita secondaria attraverso le cucine del palazzo, di non aver neppure intravisto il famigerato Bruce. Perciò serra i denti e sente l'aria mancargli nel petto.

«E così hai pensato di farmi fesso!» esplode sarcastico, alticcio, sull'orlo dell'esasperazione. Poco gl'interessa se Elliot sia uscito per una propria mancanza o per chissà quale scherzo del destino, poco gl'interessa di essere parte integrante della sua scappatella al borgo. Tira le briglie di Efesto, lo fa puntare dinanzi a Elliot e continua: «Cosa ti è saltato in testa? Come ti è venuto in mente di disobbedirmi?»

«Non volevo disobbedire a nessuno, Sir» lo contraddice in un borbottio. «E voi lo sapete bene: avete ascoltato la conversazione che ho avuto con vostra madre.»

«Fandonie!» sbotta, smontando da cavallo con un balzo. Lo punta dritto negli occhi. È frustrato, irritato, e non riesce a capacitarsi del fatto che abbia ancora il coraggio di aprire bocca. Dovrebbe soltanto chinare la testa e scusarsi, dannazione!

«Sapete quanto me che è stata vostra madre a chiedermi di visitare il borgo» riformula. L'aria che gli brucia nei polmoni e la testa su di giri. A stento riesce a mantenere lo sguardo fisso su quello di Louis senza distoglierlo.

«Al Diavolo mia madre, Flea!» sputa rabbioso. Muove un passo nella sua direzione e lo vede retrocedere. «Devi rispondere ai miei ordini, solo ai miei.»

Vorrebbe gridare: Non sono una dannatissima pulce! Ma non lo fa. Resta in silenzio, con gli occhi sgranati e le orecchie attente, mentre echeggia lo scalpiccio degli zoccoli di un secondo cavallo e una nuova voce che dice:

«Calmatevi, mon ami, calmatevi.»

Così batte le palpebre, distoglie lo sguardo da Louis per guardarsi attorno. Vede lo stallone chiaro e trattiene il fiato, si sente mancare. Corruga le sopracciglia per istinto, mentre balbetta un: «Chi siete?» Per sua fortuna, tuttavia, il suono è troppo fievole e non sovrasta quello degli zoccoli di Cupidòn.

Oliver de Rivière, dunque, continua a rivolgersi a Louis con un ghigno ebbro. Canticchia un: «Ve lo avevo detto, Sir Holland!» E accenna con il capo nella direzione dell'interpellato, trattiene le briglie di Cupidòn. Ridacchia, poi scuote la testa e la inclina nella direzione di Elliot. Lo guarda in silenzio, lo scruta. La nausea che sale prepotentemente, che per poco non lo sbilancia. È bello, si dice. E deglutisce un amaro boccone, serra i denti, batte le palpebre per schiarirsi la vista. Capelli chiari, forse castani. O biondi, magari? Color cenere, constata in un grugnito basso. E ghigna, lo vede tremare sul posto. Indossa perfino i vestiti di Louis! Uno strano moto di erotismo lo fa fremere sul posto, perciò serra le cosce attorno alla sella di Cupidòn e trattiene un'esclamazione divertita.

«Dove stavi andando?» domanda di getto Louis. Vede Elliot battere le palpebre, poi gli sente balbettare qualcosa come:

«Vostra madre mi ha detto...»

«Dove stavi andando?» ripete. Lo sguardo gelido, predatore e inflessibile. «So cosa ti ha detto di fare mia madre, ma questa non mi sembra casa tua, Flea.» Lo prende in contropiede e sa di non poter essere preso in giro nemmeno da ubriaco; perciò non attende oltre: gli si avvicina di un passo, lo afferra per una spalla. «Stavi andando in chiesa» dice convinto. La risata schietta di Oliver gli risuona nelle orecchie e lo innervosisce ancora di più dello sguardo lucido e spaventato di Elliot.

«Volevo solo salutare Padre Aubyn» si giustifica in un soffio. Poi sgrana gli occhi, sente le dita di Louis premere più forte e serra i denti, trema, retrocede fin quasi a sbattere contro un fianco di Cupidòn. «Avevo bisogno di confessarmi, Sir» riprova.

La voce bassa, quasi sibillina, indaga: «Confessare cosa?» Lo vede deglutire, cercare le parole adatte, e poi sussultare, impallidire, voltare la testa verso Oliver, il quale, appena smontato da cavallo, esclama:

«Suvvia, mon ami! È o non è colpa vostra?»

Elliot aggrotta le sopracciglia di rimando all'interpellato e si chiede: Ma di cosa sta parlando? Poi vacilla, si morde le labbra, spalanca gli occhi. È un libro aperto mentre constata l'ipotesi di avere dinanzi un complice di Barbablù.

«La Flea ha bisogno di confessare un peccato, abbiate un po' di rispetto!» lo canzona - e, se stia o meno prendendo in giro Louis, Elliot non saprebbe dirlo.

Lui sa tutto, si dice. Sente la gola secca e percepisce gli occhi di Oliver addosso - melliflui, subdoli, letteralmente disgustosi. Indurisce i muscoli del viso e s'impone il silenzio. Una sola espressione confusa, lo sconcerto dipinto sul volto. Ha come l'impressione che voglia trapassarlo da parte a parte con la spada, che gli pende dalla cintura, tuttavia nota dell'altro: eccitazione, forse, la stessa, confusa, reazione che lo ha smosso durante il bagno fatto a forza in camera di Louis.

«Qualcuno mi ha parlato di un bacio...» accenna. Si avvicina al viso di Elliot e ghigna, si umetta le labbra. «Mi hanno riferito bene, Flea?» Gli vede sgranare gli occhi, poi sollevarli alla svelta verso Louis. E sono le sue guance arrossate a catturarlo, a farlo infuriare nel profondo. Trattiene a stento un rantolo di rabbia e serra i denti.

«Non so con chi abbiate parlato, Sir, ma costui deve avervi riferito male.»

«Oh, mon Dieu!» esclama con una mano alle labbra, scuote perfino la testa. «Stai forse dando del bugiardo al mio amico, Flea? Punti il dito verso il tuo signore?» lo provoca e lo vede impallidire di botto, perciò continua: «Deve essere così imbarazzante per un moccioso come te...»

«Oliver!» Louis lo richiama con un ringhio basso, cerca di frenare il suo parlottare convulso e acido. Tuttavia non ci riesce, perché questi persevera e dice:

«Ti sei lasciato affascinare da lui, hai adorato quel bacio e hai desiderato confessarti per tutte le ore che hai passato sveglio la notte a ripensarci come una verginella...»

«Adesso basta» scandisce Louis. Allunga la mano verso il polso di Oliver e lo frena a un palmo dal naso di Elliot.

«Non si rompe mica» borbotta in un moto d'irritazione. «Basta toccarlo con delicatezza» insinua a voce più bassa, lanciando un'occhiata eloquente a Louis. E si ferma solo quando sente le sue dita serrarsi con più foga sul polsino della camicia. Lo guarda, sbuffa e grugnisce. A stento percepisce il respiro mozzato di Elliot, infine batte le palpebre e si volta verso di lui. Tuttavia non lo trova e spalanca gli occhi. «Per badare a me, mon ami, lo avete perso di vista» dice. Ridacchia, lo vede impallidire di rabbia. Le guance leggermente colorite dall'indignazione e gli occhi puntati sulle spalle di Elliot che, in fuga verso il bosco, continua a risalire la collina a perdifiato.

«Sapete essere davvero fastidioso, Oliver» lo ammonisce in un ringhio, scostandolo bruscamente per poi raggiungere Efesto.

«Oh, lo so!» Fa spallucce, incrocia perfino le braccia al petto e inclina la testa di lato. Lo guarda con aria assorta, quasi gelosa, ma non lo ferma ugualmente. Adoro rendergli la vita impossibile, si dice. Quando lo vede spronare Efesto, dunque, aggiunge: «Non preoccupatevi, mon ami... Andate pure a caccia!»

Un'ultima risatina, la cantilena di Oliver alle spalle. Infine il vento sul viso e i talloni che battono sull'addome di Efesto. A caccia? Si chiede Louis. Questa sarebbe una caccia? E chissà, magari avrebbe anche potuto esserlo! Ma non vuole pensarci, non vuole considerare l'ipotesi di essere davvero il lupo della Genesi.

Note:
Ciao, ragazzi! Mi avete chiesto in tantissimi di aggiornare Poison, e io ho risposto un po' a schifo a tutti voi, perché sono un'autrice di cacca. Ammetto che non è facilissimo rientrare nel mood giusto per continuare quest'opera e controllare al contempo che non ci siano troppi errori. La verità è che anche all'epoca in cui la iniziai sapevo bene che avrei dovuto concluderla in qualche modo, ma pur sapendolo non volevo farlo. Ora sono pronta: mi arrendo. Posso lasciare andare i bimbi.

Vi chiedo scusa.

Anche questa volta ho dovuto dividere un capitolo a metà. Mannaggia a me e a quando mi costringevo a crearli con la stessa consequenzialità della prima stesura!

Quanto mi mancava Oliver! Sono davvero contenta che siano tornati i capitoli dove c'è anche lui, lo ammetto. È una così grande fonte di cinismo...

Volete sapere di chi, invece, non ho sentito affatto la mancanza? Jonathan il manesco. È un uomo terribile, e quando l'ho creato sapevo che si trattava solo di un personaggio secondario. Perciò non mi dispiace affatto che compaia poco.

In tutto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto e, se così fosse, lasciate un commento o una stellina.

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