Capitolo 1
1555, Stackpole.
Non è ancora mattina, ma gli abitanti del borgo sono già svegli e si affrettano a caricare le proprie merci sui carretti diretti al mercato. Fra i tanti c'è Jonathan, un uomo dagli occhi cerchiati di rosso e l'alito impastato di vino. Ha ancora sonno, Danielle lo sa, ma continua a sollevare i sacchi di grano macinato a qualche metro dalla porta di casa. I capelli scomposti, brizzolati, e il collo taurino, che si arrossa ogni qualvolta grugnisce qualche direttiva a Tristen, il primogenito.
«Maledizione!» sbotta d'un tratto. «Dov'è Elliot?» Lascia cadere il sacco che ha tra le braccia e punta lo sguardo su Danielle.
A rispondere, tuttavia, è Tristen. «Sta dormendo» dice. Un borbottio irritato, poi uno sbuffo esasperato e ancora un sacco sul carretto.
Jonathan solleva gli occhi al cielo, fa ingigantire le vene gonfie del collo e trattiene un ringhio. Infine solleva la voce e si rivolge direttamente a Danielle: «Va' subito a svegliarlo!»
Lei non risponde, annuisce e basta. Serra le dita sulla stoffa logora della gonna, la solleva appena - giusto per non inciamparci - e s'incammina a grandi falcate lungo la cucina. «Elliot!» Non ottiene risposta, così sospira e si dà per vinta; sa di doverlo tirare fuori a forza dalle lenzuola. «Che scansafatiche...» Scuote la testa e schiocca la lingua con disappunto, dopodiché afferra la maniglia della porta scardinata e, con fatica, la sprona verso l'alto. La spinge in avanti con una spallata e si lascia sfuggire un gemito basso. Poi sente gracchiare il legno sul pavimento e, infine, il mugolio assonnato di suo figlio:
«Che c'è?»
Danielle storce le labbra in una strana smorfia di dolcezza e rassegnazione. Lo vede raggomitolarsi sotto le coperte, tuttavia non demorde. «Alzati» dice. «Tuo padre è fuori, sta caricando il carretto con Tristen e Reggie...»
«Ma non è ancora mattina» protesta Elliot, nascondendo la testa sotto le lenzuola e facendo sospirare Danielle.
«Che razza di diavoletto...» borbotta tra sé e sé. Poi alza la voce e continua: «Ti conviene fare come ti dico se non vuoi prendere legnate!»
Elliot sbuffa, poi sposta lenzuola e coperte con una sequela sgraziata di calci. «Va bene» dice. Sente già il mal di testa farsi strada nelle tempie, ma scende ugualmente dallo scomodo giaciglio di paglia e si strofina distrattamente una palpebra chiusa. «Vado, vado...»
«Sfaticato» lo apostrofa Danielle.
«Non è giusto lavorare prima del canto del gallo» obbietta, lasciandosi andare a uno sbadiglio. «E la colazione?» chiede.
«Quale colazione?» Danielle incrocia le braccia al petto e solleva un sopracciglio.
«Non importa...» Prende un bel respiro, si avvicina a Danielle e le stampa un bacio sulla guancia. «Buongiorno» mormora.
«Buongiorno» risponde lei, quasi esasperata. «Adesso vai, altrimenti...»
«Altrimenti papà mi riempie di legnate, sì» conclude in uno sbuffo. Esce dalla porta e lascia Danielle a occuparsi della stanza; ma, prima ancora di abbandonare la cucina, si ferma accanto al tavolo con il pane e ne ruba un pezzetto. È ancora con la bocca piena, quando Tristen lo fulmina con un:
«Dove diavolo eri finito?»
Deglutisce a fatica e aggrotta subito le sopracciglia. «Calmati, Tristen. Vuoi forse morire di crepacuore prima di papà?» schiocca.
E basta questo per fargli salire il sangue al cervello. «Razza di...» Nemmeno termina la frase, che subito incrocia lo sguardo severo di Reggie. «Spostati!» ringhia. Solleva il mento e mostra a Reggie le stesse vene gonfie di Jonathan.
«Non è il momento di fare a botte» obbietta questi.
Elliot sorride quasi sfacciatamente, dopodiché si guarda attorno e strappa un secondo morso dal pezzo di pane che ha trafugato in cucina. «Ha ragione Reggie, dobbiamo sbrigarci ad andare al mercato» borbotta, lasciando cadere una valanga di briciole e facendo schioccare la lingua a Tristen.
«Andiamo, avanti!» s'intromette Jonathan.
Tristen lancia un'occhiata in direzione del carretto e scuote la testa. Dice: «Sì!» E non aggiunge altro, prende semplicemente posto accanto a Reggie. Lo sguardo affilato, stanco e irritato. Continua a fissare Elliot e si trattiene a stento dallo sputargli addosso - lui e la sua sfacciataggine!
Il carretto sussulta. Jonathan sprona il mulo verso il mercato e finalmente cala il silenzio.
Padre Emmanuel si umetta le labbra. Gli occhi fissi sulle pagine della Genesi e l'eco della propria voce nelle orecchie. Un piccolo ghigno mal trattenuto gli si dipinge fugacemente sul volto, mentre lo sguardo silenzioso di Louis Holland, Marchese di Stackpole, fa più baccano di quanto dovrebbe. E lui se lo sente addosso, quasi non riesce a resistergli: vorrebbe dedicargli tutta la sua attenzione, vorrebbe scrutarlo e sondarlo. Stenta a mantenere una postura rigida, inflessibile, tuttavia ci riesce. Reprime una risatina, deglutisce e cita:
«Il sole spuntava sulla terra e Lot era arrivato a Zoar, quand'ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sòdoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco proveniente dal Signore.» Prende una pausa, un respiro, anche un po' di convinzione in più. Poi continua: «Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo.» E solleva lo sguardo, finge d'incontrare quello del Marchese per puro caso. «Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale...» Una nuova pausa, la giusta drammaticità che precede la conclusione. «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.» Osserva i fedeli, il cordone umano che è pronto a ricevere l'eucaristia dalle sue stesse mani. Lentamente attende, meccanicamente esegue. Poi lo incontra. Offre il Corpo del Signore alle fauci del lupo e sorride. Sa già che il Marchese di Stackpole è pronto a peccare dopo aver recitato l'Anima Cristi.
«Così sia...» mormora. Muove appena le labbra e tiene lo sguardo basso. Ignora completamente la soddisfazione di Padre Emmanuel, china di poco il capo e infine si ritira. Raggiunto l'esterno dalla piccola chiesa di campagna, allora, sale in groppa a Efesto. «Il fucile» dice. Non chiede, pretende. E allunga un braccio in direzione di Bruce, attende senza muovere un muscolo.
«Così sia» soffia Padre Emmanuel, osservandolo dal fondo della navata.
Elliot è seduto sul muretto della chiesa del borgo. Le gambe ciondoloni e le scarpe inzaccherate, sporche di fango, che quasi toccano terra. Sospira e arriccia il naso con una punta di fastidio. Ricorda ancora le urla di Tristen appena sceso dal carretto e il fastidioso ritmo serrato per scaricare i sacchi di grano al mercato.
«Non è certo colpa mia se siamo arrivati in ritardo» borbotta. Si mordicchia l'interno delle guance e restringe lo sguardo. «E non ho la lingua biforcuta!» aggiunge. Poi sbuffa, si stende sul muretto e posa le mani dietro la nuca. «Se solo quel ronzino fosse più veloce, magari...» commenta sottotono. Storce le labbra in una smorfia di rammarico, dopodiché si concentra sul cielo mattutino e inizia a catalogare le nuvole di passaggio secondo forme astratte che, perlomeno a suo dire, somigliano a questo o quell'animale. Ridacchia con fare infantile, poi si ferma di colpo e solo per via della voce cupa di Padre Aubyn:
«Non ci vedo nulla di strano.»
Elliot batte le palpebre e tende le orecchie. Resta in silenzio, divertito dall'inclinazione ironica di Aubyn. Ho sempre detto che è soltanto un uomo travestito da prete, si dice.
«Vi dico che è un mostro, invece!»
Aubyn non ribatte, sospira. Elliot, d'altro canto, cerca d'intravedere i due con la coda dell'occhio. E ci riesce, sì: punta nella direzione dell'ulivo, si umetta le labbra e poi le morde per imporsi il silenzio. Quella donna è una nobile! constata. La osserva bene e non può fare a meno di notare la preziosa stoffa cui è composto il mantello bordato di pelliccia. Cosa ci fa al borgo?
E lei continua: «Tutte le settimane si sveglia di buonora e si affretta a raggiungere la chiesetta sulla cima della collina...» Solleva il braccio e indica chissà dove; Elliot non riesce a spingersi tanto in là con lo sguardo. «Presenzia alla messa del popolo e lo fa con indosso i panni da caccia...» La sua voce trema, tentenna, poi trova un nuovo picco e prosegue: «Imbraccia il fucile, monta a cavallo e torna alla tenuta per dare ordine di liberare i cani, Padre.»
«Perdonatemi, ma continuo a non capire» ammette Aubyn.
Elliot si mordicchia ancora l'interno delle guance, quasi vorrebbe scendere dal muretto per avvicinarsi e ascoltare più da vicino. Non farlo! Un ammonimento mentale, un obbligo, e diventa una statua di sale - un tutt'uno con il muretto.
E la nobildonna insiste: «Subito dopo l'eucaristia, Padre... È una cosa diabolica, vi dico!»
«Sono capricci, passatempi da nobile» minimizza Aubyn, facendo un segno di scongiuro.
Elliot aggrotta le sopracciglia con fare confuso. Non credo che il termine "diabolico" sia adatto per un nobile, che va a caccia. Ed è quasi in procinto di rotolare giù dal muretto per filare via di nascosto quando sente il resto:
«Capricci, dite? Passatempi? Avreste ragione, forse, se non portasse con sé la povera gente del borgo.» Allora si ferma, fissa Aubyn negli occhi e serra le labbra. Attende in silenzio, spera in un cenno d'assenso da parte del prete e infine sospira. Continua sua sponte: «Correggetemi se sbaglio, Padre... Ma non credete anche voi che i popolani stiano diminuendo?»
Elliot perde un battito, perché le parole della nobildonna riecheggiano di quelle apprensive di Danielle. Non sta mentendo, si dice. E deglutisce, gela sul posto, pensa alle raccomandazioni di sua madre. La brezza settembrina gli sferza sul profilo, eppure non se ne accorge - dopotutto sta già rabbrividendo.
«In che senso?» Aubyn pare cadere dalle nuvole.
Parla di Barbablù, non è ovvio? si chiede Elliot. Infine serra i denti, lo fa per non aprire bocca, per non cedere alla tentazione di scendere dal muretto. L'intero borgo dice che Barbablù porterà via tutti i giovani prima o poi.
«Sorride ogni volta che organizza una battuta di caccia» spiega la nobildonna con fare laconico. «Louis parla delle creature di Dio con divertimento e sadismo pari soltanto a quello di un despota.» E sembra un fiume in piena, perché non si ferma, anzi! La sua voce trema, ma non incespica. «Cervi. I cervi sono i più impervi, i più sfuggenti, quelli cocciuti e pericolosi. Poi ci sono i conigli: il manto chiaro, l'aspetto dolce... E le volpi, certo, ci sono anche le volpi! Loro sono furbe e fulve, si nascondono e tentano la fuga.» Pare che stia citando un discorso, perché d'un tratto cambia tono e trattiene un singhiozzo. «Non sono animali, Padre, ma persone!»
«Persone?» echeggia Aubyn. Lo sguardo sconcertato e le labbra tese, contorte in una smorfia di orrore.
«Uomini e donne come me e come voi.» Annuisce, conferma. Il mantello le scivola appena lungo la capigliatura intrecciata di perle e si ferma a metà della chioma bionda.
«Questo è assurdo» commenta Aubyn, scongiurando la blasfemia appena udita con ripetuti segni della croce. «Nessun figlio di Dio sarebbe mai capace di un simile abominio!»
La voce della nobildonna si leva di nuovo e con fare insistente: «Giuro che è la verità, Padre Aubyn.» Muove un passo nella direzione del suo interlocutore e questi retrocede per riflesso. Allora lei si ferma, deglutisce e resta immobile. Una mano stretta vicino al petto, vicino al cuore, e si sente straziare l'anima. Dice: «Lo giuro sulla mia vita e su quella dei miei figli... Chiamo Dio a testimoniare per me, non sto mentendo!»
«Vostro marito non sarebbe mai capace di arrivare a tanto, Marchesa» balbetta Aubyn.
Elliot annaspa e sgrana gli occhi. Marchesa? Sussulta inconsciamente e perde l'equilibrio. Tenta di ancorarsi al muretto, ma non ci riesce e, suo malgrado, cade. Si morde la lingua, a stento trattiene un gemito di dolore nell'urto con il terreno battuto del perimetro esterno alla chiesa.
La nobildonna si volta di scatto. Gli occhi spalancati, spaventati, e le guance bagnate di lacrime. «Cosa è stato?» domanda.
Aubyn prova ad accennare un sorriso. «Un gatto, Marchesa... Un gatto.»
Lei sospira, guarda Aubyn negli occhi e balbetta un: «Capisco.» Poi scuote il capo e si umetta le labbra. «Con permesso» mormora. China lo sguardo, si porta via le lacrime con il dorso della mano pallida e s'indirizza verso il calesse, che attende poco fuori il cancello.
Elliot rimane fermo, immobile, schiacciato letteralmente contro il suolo. Si sente rigido come una statua, paralizzato dal terrore. E sobbalza nel sentirsi chiamare da Aubyn:
«Alzati da terra, furfante!»
«Buongiorno, Padre» soffia. Punta le mani in terra e si solleva con un po' di fatica. Massaggiandosi un fianco, allora, sposta lo sguardo verso sinistra. Infine, occhi negli occhi con lui, si rallegra del fatto che a separarli ci sia il famigerato muretto.
«Buongiorno.» Non dice altro, si limita a fissarlo con aria severa.
Deve essersi accorto che ero qui, mentre parlava con la Marchesa, si dice. Perciò cerca di accennare un sorriso, di dissimulare la colpa.
«Devi dirmi qualcosa?» indaga.
«No, affatto.» Scuote la testa per dare maggiore vigore alla propria tesi. «Ero di passaggio e...» Si ferma un attimo, indeciso su cosa dire. Cerca una scusa plausibile, infine si arrende all'idea di usare la carta della propria goffaggine: «Volevo salire sul muretto come al solito, Padre, ma le scarpe me lo hanno impedito.»
«Un segno divino, figliolo!» Aubyn sorride e posa le mani sul muretto incriminato. «Ti ho sempre detto di non farlo, mi sembra...»
«Lo so, Padre, ma è stato più forte di me!» taglia corto, cercando di virare l'argomento principale su ben altri fronti: «Vedete, non dormo bene ultimamente...»
«Il Demonio ti tormenta con i suoi incubi?» Aubyn solleva un sopracciglio con aria preoccupata e vede Elliot scuotere violentemente il capo. «Ne sei sicuro?»
Si porta una mano al viso e borbotta un: «Oh, santo cielo...» Poi si morde le labbra, spera che Aubyn non lo additi come indemoniato per delle parole fuori luogo. «Certo che ne sono sicuro» dice. «Il letto è scomodo e la compagnia anche, ecco tutto. Reggie e Tristen russano di continuo - prima o poi andrò a dormire assieme alle mucche!» Sente ridere Aubyn e sospira con fare rassegnato. Non posso farmi prendere in giro da un prete, dannazione! Scuote la testa, storce le labbra in un'espressione amara e aggiunge: «Mia madre non sta molto bene, tra l'altro...»
Aubyn smette di ridere. Sgrana gli occhi e socchiude le labbra con preoccupazione. «Danielle sta poco bene?» domanda incredulo.
Elliot annuisce, seppur con un po' di stizza. «Nulla di grave, davvero...» minimizza. «Ha un mal di denti continuo che non la fa dormire bene e che la rende scostante di giorno.»
«Capisco...»
«Come mai avete quell'aria assorta, Padre?»
L'interpellato corruga appena le sopracciglia e solleva un dito per ammonire la curiosità di Elliot. «Impertinente, ecco cosa sei!» lo apostrofa, muovendo l'indice con cipiglio contrito.
«E perché mai sarei impertinente?» Elliot alza la voce, quasi trascende in una tonalità stridula e batte più volte le palpebre. No, non dirmi che...
«Da quanto sei qui?» Aubyn lo vede deglutire, tentennare. Subito capisce la situazione e restringe lo sguardo con fare indagatore. «Bada bene a non raccontare bugie, furfante...»
«Io non racconto bugie!» Distoglie lo sguardo, fissando in direzione del bosco. E incrocia perfino le braccia al petto, cosa che subito fa intervenire Aubyn con un:
«Guardami negli occhi e rispondi, allora.»
«Sono appena arrivato...» borbotta. Troppo vago, troppo evasivo. Sente il grugnito dubbioso di Aubyn e ritenta con un: «Da qualche minuto.» Lo guarda con la coda dell'occhio e gli vede sollevare le folte sopracciglia. «Non molto.»
«Il tempo sufficiente per farti gli affari altrui, monello.»
«No, non era mia intenzione spiare nessuno...» si affretta a dire. E si blocca subito, perché incespica in una frase per metà vera e per metà falsa.
Aubyn si sporge nella sua direzione, supera appena il muretto e gli dà una schicchera sul naso. Lo sente mugolare e lo vede retrocedere di un passo. «Lo hai fatto, invece» grugnisce.
«Solo perché ero qui sul muretto e...»
«Lo sapevo!» sbotta. «Sei salito ancora sul muretto, furfante!» E batte un palmo sul famoso muretto. «Quante volte devo dirti di non farlo, eh? Questo è suolo sacro, non devi profanarlo con la tua pigrizia o ne verremo contagiati tutti.»
«Che esagerazione...» Una mano dinanzi al viso per nascondere l'imbarazzo, la testa china e i timpani molto più vicini del previsto a un'implosione.
«Non è affatto un'esagerazione!» Aubyn non fa che sollevare il tono di voce e agitare l'indice. Dice: «Monello, villano, che non sei altro! La casa del Signore non è certo il posto giusto per fare un pisolino... E per giunta dietro un ulivo! Ah, quale assurdità è mai questa!» All'improvviso si sprona in avanti, cerca di afferrare Elliot per il farsetto e lo vede sgusciare via con la velocità di una lepre. «Dove credi di andare?» Lo fissa con aria severa, con le sopracciglia corrugate e le labbra tese. «Torna subito qui! Fai il giro delle mura ed entra in chiesa a confessarti!»
«Spiacente, Padre, ma vado di fretta» mormora Elliot. Sorride quasi sfacciatamente e si sistema il berretto sul capo. «Mi aspettano al mercato... Sapete, non ho proprio voglia di farmi bastonare.»
«Non ci sei mai al mercato, fannullone! Non dire altre bugie e vieni subito qui!»
«Certo che sono al mercato» mente. A stento trattiene una risata. Più guarda Aubyn e più prova l'impulso di continuare a raccontare frottole per farlo imbestialire. «Tutte le mattine mi sveglio prima del canto del gallo per aiutare mio padre a caricare i sacchi di grano sul carretto.»
«Tua madre non è della stessa opinione, ragazzino!»
Elliot grugnisce, storce le labbra in un'espressione irritata. «Mia madre deve essersi confusa con Tristen» borbotta. Solleva una mano in segno di saluto, dopodiché si allontana alla svelta verso il bosco - l'idea di passare davanti al cancello della chiesa per raggiungere il borgo non lo alletta affatto.
«Furfante! Vedrai cosa succederà la prossima volta che metterai piede qui, vedrai!»
Per un attimo, sentendo l'eco lontano di Aubyn, Elliot ha come l'impressione che possa essere raggiunto. Sarebbe orribile, si dice. Deglutisce a vuoto, serra i denti e accelera il passo. Inizia a correre senza quasi rendersene conto e si ferma soltanto quando rischia di cadere dopo essere inciampato in una radice. Ha il fiato corto e la testa su di giri. Gli sembra di sentire ancora l'eco di Aubyn, ma sa di essere abbastanza lontano per dirsi completamente disperso. Allora si lascia scappare una risatina divertita. «Non ci penso proprio a tornare indietro!» E ride ancora, muove qualche passo nella foresta con aria assorta, complice. «Se mia madre sapesse che sono qui... Oh, le prenderebbe un colpo!» Solleva gli occhi chiari verso le fronde delle conifere e poi li serra nel riverbero di luce accecante. Dall'alto piovono raggi di sole, pagliuzze dorate, che gli carezzano la pelle del viso. E sono tra i capelli, sulle labbra dischiuse, sul naso piccolo e all'insù, perfino sulle ciglia socchiuse e sulle gote arrossate. Lo fanno assomigliare a un angelo nullafacente e menefreghista. Ma non è forse questo ciò che è? Lui, il figlio di Jonathan il manesco, è l'intoccabile gioiello di Danielle e il furfante che scappa dalle preghiere assegnate da Padre Aubyn e dagl'incarichi affidati da Reggie e Tristen.
Cervi. I cervi sono i più impervi, i più sfuggenti, quelli cocciuti e pericolosi. Poi ci sono i conigli: il manto chiaro, l'aspetto dolce... E le volpi, certo, ci sono anche le volpi! Loro sono furbe e fulve, si nascondono e tentano la fuga.
Le parole della Marchesa gli echeggiano nella testa e frenano la sua risata cristallina. Rabbrividisce, trema sul posto e sente le gambe farsi molli. Allora deglutisce, si avvicina al tronco di un albero e cerca di sorreggersi. «Barbablù è il Marchese di Stackpole» mormora. Si morde le labbra e si guarda attorno con il cuore in gola. Poi sobbalza. Sente il boato di uno sparo e spalanca gli occhi. «Non è possibile...» biascica. Prova ad aggrapparsi alla corteccia, ma la sente appena - sotto le unghie, sotto i polpastrelli - e poi percepisce solo il calore delle proprie dita intorpidite. Scivola verso il basso, cade e rimbalza su una radice sporgente. Ha le labbra incollate e non riesce nemmeno a mugolare di dolore. Fissa i pantaloni sporchi di fango e chissà come si dice: Questa volta le legnate me le darà mia madre. Scatta in piedi, percepisce il rombare del proprio sangue nelle orecchie e quasi ha l'impressione che potrebbe svenire da un momento all'altro. Devo tornare indietro! Si volta e inizia a correre. Non sa nemmeno dove sta andando, ma corre. Poi si ferma. Un fruscio nelle orecchie, il cuore che balza veloce nel petto e lo annienta sul posto. Immobile, con gli occhi sgranati, guarda dritto dinanzi a sé. «Cosa...» Muove appena le labbra e osserva quella che, perlomeno a suo dire, è una ninfa dei boschi.
Nuda, spaesata, con un piccolo sonaglio attaccato al collo, fugge. Guarda a destra, poi a sinistra. Anche lei ha il fiato corto, anche lei ha paura. Le labbra spalancate in una muta richiesta d'aiuto e i capelli chiari, rossicci, che le coprono appena i seni acerbi. «Aiuto» dice. Pare non avere voce, ma forse non vuole fare rumore – almeno così si dice Elliot. Sembra un cerbiatto, con gli occhi grandi e castani, con la pelle sporca di terriccio e le ginocchia escoriate.
«Delphina...» mormora.
Lei si guarda attorno, forse riconosce la voce di Elliot. Non proferisce parola, singhiozza soltanto. E continua a guardarsi attorno fin quando non sente il rumore incalzante degli zoccoli di un cavallo. Allora si nasconde come possibile, cerca di diventare un tutt'uno con il cespuglio più vicino. A testa china, prega. Muove appena le labbra, trema e prega.
Elliot la chiama ancora: «Delphina.» Tiene la voce bassa, mentre dice: «Vieni qui, presto.» E la vede tentennare; così è lui ad avvicinarsi, a nascondersi dietro lo stesso cespuglio di Delphina. «Cosa ci fai qui?» domanda.
Lei scuote la testa. Gli occhi sgranati e la voce arrochita. «Elliot, scappa...» dice.
L'interpellato si morde le labbra e distoglie lo sguardo. «Sei gelida» mormora. «Ti ammalerai...» Si toglie il farsetto e glielo posa sulle spalle.
«Scappa» insiste Delphina.
«Non ti lascio qui» obbietta. «Scappiamo tutti e due, d'accordo?» Una domanda retorica, una di quelle a cui non si può rispondere con un semplice No. La vede annuire con fare dubbioso, così le porta le mani dietro al collo e mormora un: «Tranquilla.» La sente irrigidirsi, ciononostante non aggiunge altro e scioglie semplicemente il nodo dello strano girocollo che sta indossando. «Andiamo, al mio tre...» l'avvisa. «Uno. Due...» La vede annuire, così le sorride per cercare di rassicurarla. «Tre.»
Delphina si alza di scatto, si stringe nel farsetto e inizia a correre verso il borgo.
Elliot le è subito dietro. Accelera alle sue spalle e si guarda attorno. Sente il tintinnio della campanella appesa al nastro che tiene ancora in mano, così la osserva. È d'oro, si dice, è la cosa più costosa che io abbia mai visto! E stringe i denti, serra la presa per attutirne il suono, nemmeno si accorge che il nastro scivola via. Continua solo a correre. Corre a perdifiato verso il borgo, verso la chiesa di Padre Aubyn.
Note:
Ciao a tutti!
Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto e che sia riuscita a incuriosirvi, trascinandovi nella vecchia Stackpole con questa narrazione al presente di cui vi ho già parlato nella premessa.
Pian piano aggiornerò la parte dedicata al cast (o, come piace chiamarli a me, ai presta-volto), che, prometto, arriverà presto e verrà caricata subito dopo la premessa.
Come al solito, non posso non ringraziare e fare una menzione speciale ad AlexielDubois, perché in essa è presente un personaggio a lei molto caro che spero seguirà di nuovo con la stessa gioia della prima volta.
Infine ringrazio tutti coloro che sono arrivati quaggiù. Spero che possiate lasciarmi un piccolo parere, anche solo un pensiero, se non addirittura una stellina; mi farebbe davvero piacere.
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