Capitolo 26
Nel giorno di Pentecoste il villaggio dell'isola, di solito lercio e putrido, si tramutava in qualcosa che sembrava essere uscito dall'Annwn, il mutevole e ingannatore aldilà dei racconti di Grisha.
Camminare per quelle strade, piene di addobbi rossi e rami di betulla, mi provocava ogni anno una certa inquietudine. Come se ciò che avevo udito da bambina potesse prendere vita, tanto da attaccarmi alla gonna della mamma per protezione.
Fino a che non si è ammalata, poi ho dovuto affrontare i miei incubi da sola.
Per questo ero abituata a badare a me stessa.
Entrai al villaggio a testa alta, non curandomi dei discorsi sul mio conto che riuscii a udire dai passanti.
Fu la prima volta che misi piede in quel dannato luogo dopo la notizia del corteggiamento e fui conscia di essere un boccone prelibato per coloro che amavano fomentare le chiacchiere.
Mi focalizzai sui dettagli degli addobbi, senza soffermarmi sugli sguardi indagatori dei cittadini.
Percepii la loro curiosità su di me come se una belva famelica in scialorrea si stesse aggirando attorno al mio corpo, pronta ad affondare i suoi denti marci nella mia carne.
La sensazione di annegamento tornò prepotente e cercai di ovviare al quel pensiero concentrandomi su altro.
Provai a focalizzarmi sul ciò che avrei detto a Char una volta visto, ma la rabbia si unì al malassere preesistente e decisi di lasciar vagare la mia mente altrove.
Diressi la mia attenzione verso Grisha, ancora una volta in mio soccorso, sbucò timido un mezzo sorriso tra le mie labbra, ma nella mia memoria riemersero prepotenti le dure accuse di Fiona e la stretta al braccio di padre Barton.
Il timido sorriso svanì.
Bash.
Mi ritrovai a pensare a lui per la seconda volta quella mattina.
A quanto mi sentissi al sicuro con la testa nell'incavo della sua spalla, l'odore di salsedine intorno a me.
Mi fermai e serrai gli occhi.
No, lui no.
Lottai contro tutta me stessa per evitare di pensarci.
A come avrei voluto correre da lui.
Stare con lui.
Come prima dell'alba, sotto quella coperta di velluto.
Pelle contro pelle.
Falla finita stupida. Concentrati sulla strada.
Si, giusto, la strada verso la chiesa.
Aprii nuovamente gli occhi ed emisi un bel sospiro.
Catturai per caso gli sguardi di alcune bagasce più in là.
Le vidi fissare i miei abiti.
Non era passato inosservato neanche il vestito nuovo.
Più scollato del normale e più stretto della vecchia tunica, assieme al corpetto risaltava le forme che fino ad una settimana prima, scommisi tra me, tutti credevano inesistenti.
Mi sentii attraente, per una volta.
Ma era altro ciò che le megere invidiavano.
Era ben noto il fatto che il tintore usasse il trucciolo di betulla per colorare i tessuti, ma le sfumature ricavate andavano dal nero al marrone.
Era impossibile ottenere il blu.
Quel fatto mi diede forza.
Ero diversa, lo ero sempre stata, e in quel momento lo ero anche nel modo di vestire.
Sfilai con calma lungo il tragitto che mi avrebbe portato in chiesa.
Non potevo evitare di stare in mezzo alla gente, perciò tanto valeva farlo senza remore.
Starci male, compresi, peggiorava solo le cose.
Riacquistai per un istante il buonumore, quando delle figure mi sbarrarono il cammino.
Eccole lì, le mie coetanee.
Loro, che mi avevano evitato come una lebbrosa tutta la vita, in quell'attimo mi accerchiarono.
Sapevo cosa volevano.
Magari loro non conoscevano me, ma io conoscevo bene loro.
Sospirai di nuovo e alzai gli occhi al cielo.
Sarà davvero una lunga giornata.
− Buongiorno ragazze, qual buon vento vi porta a parlarmi?
− È vero?
La ragazza che aprì bocca era una biondina della mia età. Occhi scuri, guance paffute e una cotta sostanziale per Bash. Mi divertii a non carpire la sua domanda.
− Vero cosa?
− Che Sebastian ha chiesto la tua mano!
Rispose per lei una moretta, più grande di noi.
I ragazzi la chiamavano "la giumenta".
Due erano i motivi principali che li spinsero a propinarle un nomignolo tanto scortese: il secondo per importanza riguardava il suo carattere aggressivo e permaloso, mentre, per quanto riguarda il primo, era legato a particolari movimenti ingaggiati con alcuni componenti del branco di cui non ho mai voluto ricevere i dettagli.
− Ah! − esclamai teatralmente − intendi il corteggiamento?
La speranza di non doverlo ripetere ulteriormente svanita in quattro e quattrotto.
Il silenzio si fece glaciale.
Era una mattinata calda, ma intensi e spiacevoli brividi mi attraversarono la schiena.
− Si, il corteggiamento.
Stavolta a parlare fu lei, la ragazza ritenuta la più bella dell'isola.
Fossi nata maschio, mi sarei sicuramente unita al suo stuolo di corteggiatori.
Gwendolin Yarwood si fece spazio tra le giovani attaccabrighe e si posizionò di fronte a me, i capelli rosso fuoco ondeggiarono con il suo passo.
Rimasi qualche minuto imbambolata ad ammirare come il corpetto grigio esaltasse le sue curve sinuose, accompagnate da una moltitudine di ciocche ricciolute che le cadevano scomposte sulle bianche spalle livemente scoperte e procedevano fin dietro la schiena.
Notai solo allora il nastro rosso intrecciato a un lato della testa, in una maniera del tutto opposta a come le nostre coetaneee solevano legare il loro. Quel modo così scarmigliato di acconciare la sua chioma fulva e arruffata le donava un'aria ribelle e intrepida, più da pirata che da figlia del panettiere.
− Cosa volete sapere riguardo al corteggiamento? − chiesi, finta interessata alla loro angoscia.
− È la verità oppure no? − mi chiese di nuovo Gwendolin, piegando leggermente il capo da un lato, quel poco da illuminare una parte dei suoi boccoli rossastri di una calda luce aranciata.
− È la verità. Io e Bash siamo ufficialmente fidanzati.
I volti delle ragazze si trasformarono in maschere di dolore, indignazione e diniego.
La scena fu a dir poco ilare, ma per rispetto tentai di restare solenne.
Solo il viso di Gwendolin non subì mutamenti.
La cosa mi incuriosì, non era innamorata di Bash come le altre?
Anzi, notai un certo sollievo alla notizia.
Ebbi un misero secondo di elaborazione dei miei pensieri prima che qualcosa mi colpisse con forza la guancia sinistra.
Un dolore acuto mi pervase, accecandomi per un attimo.
Lo schiaffo arrivò senza preavviso, perfettamente in linea con il mio volto.
La moretta, causa il carattere citato poc'anzi, fu la prima a scattare.
Il colpo non era più doloroso delle scazzottate con i ragazzi, ma qualcos'altro era stato ferito.
Il mio orgoglio.
La troietta oggi ha deciso di crepare.
La guardai con tutta la tranquillità di cui fui capace, pronta a spaccargli naso e mandibola tutt'assieme, quando le altre ragazze mi bloccarono le braccia.
− Che cosa state facendo?
Domanda lecita, ma non fui io a porla.
Gwendolin si agitò visibilmente e cominciò a sbraitare al gruppetto di oche.
− Ragazze abbiamo detto civiltà! È stato Bash a sceglierla, non il contrario! Siamo qui per chiedere spiegazioni!
− No, Gwen. Siamo qui per fargliela pagare!
Alzai gli occhi al cielo.
Quanto dramma.
Eravamo anche davanti al porto, teatro perfetto per la rappresentazione.
Mentre Gwendolin e Mildred, questo il nome della moretta, continuavano a bisticciare sul mio fato, io decisi che avrei fatto da me.
Feci per scrollarmele di dosso il più delicatamente possibile, visto la mia forza fisica, quando la biondina di prima esclamò.
− E questo cos'è?
Mi pietrificai. Aveva adocchiato il pettine d'osso che mia madre aveva insistito ad acconciarmi quella mattina, al fine di nascondere il morso violaceo della sera antecedente.
Sentivo dentro di me che qualcosa sarebbe andato storto, ma avevo sperato di sbagliarmi.
Evidentemente i miei guai erano solo iniziati.
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