Capitolo 25

Raccolta nella mia coperta di lana grezza, guardai il disco solare emergere tra gli strati di cielo colorato sopra la linea del mare.

Con il fuoco del faro a farmi da scudo contro il gelo mattutino, me ne stetti accovacciata sulla piattaforma che si affacciava verso est. 

Verso il mare.

Le lacrime mi salirono ancora.

Le ricacciai indietro.

Onestamente neanche io sapevo il perché stessi piangendo ma loro, capricciose come non mai, non smettevano di uscire e di scendere.

Chissà, forse anche loro volevano essere libere.

Una sferzata di Grecale mi scompigliò i capelli sul viso. 

Ovvio che si appiccicarono alle lacrime.

Mi irritai.

Possibile che non posso avere un attimo di pace assoluta?!

Sospirai per mantere la calma. Prendersela con il vento non serviva a niente.

Chiusi gli occhi quando il sole fu troppo luminoso da guardare, mi passai la coperta sopra la testa e cercai di rilassarmi un po', prima di spegnere la fiamma e scendere in cucina.

Oggi era Pentecoste e il villaggio sarebbe stato in festa.

E io sarei dovuta andare in chiesa.

Mi strinsi nel buio.

La presa sul braccio.

Gli occhi empi e feroci.

Il sorriso viscido e ambiguo.

Cercai di non pensarci, ma il senso di soffocamento era più forte di me.

Il braccio mi doleva ancora e non osavo guardare se la sua forza avesse lasciato dei segni.

Sarebbe stata la prova della sua violenza su di me.

Non volevo ammetterlo, non lo avrei mai fatto.

Ricacciai il groppo nella gola, costringendo il corpo al volere della mente.

Non potevo evitarlo. 

Avrei dovuto vederlo.

Non volevo incontrarlo.

Ma non avevo scelta.

Guardarlo da quel pulpito, il suo simbolo di potere, mentre predica la pace ai suoi fedeli.

Mi venne il voltastomaco e mi passò la fame.

Voltai il viso verso nord, cercando di trovare la forza di affrontare la giornata.

Mi alzai lentamente. Il basso ventre che mi tirava a ogni movimento, lascito della notte precedente.

Dei miei peccati.

Mi sentivo stanca, sporca, vuota.

Rinnegavo le mie colpe, come se non mi appartenessero.

Come se in quegli istanti, così distanti nella mia mente, la mia volontà non fosse più mia.

Eppure ero consapevole di ciò che stavo facendo.

Di ciò che loro mi avevano chiesto e avevo dato.

E mi era piaciuto.

Nulla era stato costretto.

Tutto era stato accettato.

Sospirai ancora, il fiato che tremava tra le lacrime cocciute e bugiarde.

Troppe persone avrei dovuto affrontare quella mattina e non ero pronta a nessuna di esse.

La prima, naturalmente, sapevo mi stava già aspettando a casa.

Spensi il fuoco, posando l'enorme coperchio di ferro di modo da privare le sue fiamme dell'aria.

Il macigno sopra il petto premette ancora e seppi con certezza che la mia dolenza era di una natura diversa dal consueto sforzo mattutino.

La sensazione che provavo al momento non si discostò molto da quel dovere che avevo ripetuto infinte volte nel corso del mio compito da guardiana.

Che curiosa ironia.

− Eh.

Emisi un suono strozzato, più simile a un lamento di fiera piuttosto che un mormorio umano.

Ma riuscì ugualmente nell'intento di sollevare il mio stato d'animo quel poco che bastasse a prendere di petto la situazione, come ero consueta fare ogni volta che mi imponevo di scendere al villaggio da otto anni a questa parte. 

Mi ripromisi di non permettere alle vicende della notte precedente di piegarmi, di rendermi schiava di rimorsi e sensi di colpa che annebbiavano il mio raziocinio e mi rendevano vulnerabile a ciò che avrei dovuto affrontare una volta fuori dalla mia casa.

Non potevo di certo affermare di essere pronta, ma avrei comunque affrontato la giornata nella migliore delle mie possibiltà.

Scesi piano i gradini, infilandomi silenziosa nella biblioteca.

Ultimamente è più un luogo per i miei rimpianti e piagnistei che per la lettura.

Sorrisi.

La vita era così bizzarra.

Sfogliai il grosso libro aperto sul tavolo, era il tomo in cui ero solita catalogare i libri di mio padre.

Il mio impegno verso la sua eredità. 

Un impegno che ero sicura non riuscire a terminare fino a quella mattina, quando mi ero svegliata tra le braccia del mio ex migliore amico e non quelle in cui mi sarei aspettata di stare.

La rabbia cominciò a ribollire nel sangue.

Iniziai a pensare che fosse un bene la Pentecoste.

Almeno avrei incontrato lui.

Mi doveva delle spiegazioni e non gliel'avrei fatta passare liscia.

Il vuoto che mi sentivo dentro si riempì di domande, che si aggiunsero a quelle che mi tormentavano da giorni ormai.

Non importava, a queste avrei dato risposta.

Appena lo avrei avuto sotto tiro.

***********

Il cielo terso, quasi a farsi beffe del mio stato d'animo, era di un azzurro impossibile per la stagione.

Eravamo alla fine di maggio, ma sembrava già agosto. 

Quell'estate sarebbe stata decisamente troppo calda per i gusti degli inglesi.

Scesi il sentiero con una flemma non propria del mio carattere furioso, ma che descriveva nel dettaglio il mio desiderio di trascorrere la domenica in compagnia dei miei guai.

Il primo di questi era la baggianata inventata a padre Barton, alla quale avrei dovuto fare in modo che fosse abbastanza plausibile da evitare ulteriori indagini da parte del presbitero.

Era una faccenda che andava sbrigata senza meno prima della messa.

Deviai dal solito percorso segnato dalla mulattiera e mi diressi verso la casa di Grisha.

Era un casolare in pietra, circondato da tre campi di esigue dimensioni, ciascuno con una semina diversa. Passai attraverso l'ultimo, sapendo essere quello a riposo, conscenziosa nel non rovinare il raccolto al nonno. 

Quando ero bambina attraversavo spesso i campi coltivati insieme al branco, anche se il rischio di essere attaccati dalle zecche era molto elevato. 

Successe a Flynn, ricordai con un brivido il cerusico radergli completamente il capo per poter tirare via l'insetto con le pinze. 

L'alternativa, decisamente più divertente ma molto più pericolosa, era di incappare nei contadini, responsabili dei terreni, che furibondi e armati di falci o forconi si gettavano al nostro inseguimento con il monito, tra un'imprecazione a l'altra, di non tornare mai più a distruggere il raccolto. 

Mi avvicinai il più possibile alla casa, sbirciando al'interno. Il vecchio lattaio non sembrò essere presente, ma notai la bisbetica canticchiare mentre preparava la colazione. 

Assunsi che l'uomo doveva essere nella stalla.

Raggiunsi la stabile con il busto chino e la speranza di essere invisibile alla megera e aprii il portone in legno.

L'odore pungente di pelo, sterco e latte mi arrivò come un pugno alle narici e dovetti trattenere il respiro per non vomitare.

Respira con la bocca.

Ringraziai l'ovvietà della mia coscienza ed entrai, augurandomi di non svenire dalla puzza.

Il mio maestro non mi udì arrivare, intento a mungere le sue capre. 

− Buongiorno nonno.

Lo vidi sobbalzare di un paio di pollici sul suo sgabello e soffocai la risata portandomi le mani alla bocca e al naso, un po' per rispetto e un po' per ripararmi dal tanfo.

− Santo cielo ragazza, vuoi ammazzarmi prima del tempo?!− borbottò infastidito girandosi verso di me.

− Ammazzarti mai, nonno, mi servi vivo!− dissi, tra una risata e un sogghigno.

Si accigliò. 

− Huh, vedi non farlo mai più, capito?

Aye.

Aye, ci siamo capiti.

Ridacchiai ancora un po', mentre il vecchio si incurvava di nuovo in direzione della sua capra per finire la mungitura.

− Dimmi ragazza, che ci fai qui?

Avvertii il tono preoccupato della sua voce e solo allora mi cadde l'occhio sulla sua fronte corrugata. 

Conoscevo bene il mio maestro, all'apparenza scorbutico e scontroso, celava un animo tanto gentile quanto fosse l'apprensione nei miei confronti.

− Ho bisogno che mi copri con padre Barton. Ho combinato un casino.

Sbuffò.

− Davvero? Una vera rarità te che combini casini− commentò sarcastico.

− Ehi, non è stata colpa mia!

− E anche questa è un'altra rarità!

− Nonno!

Aye, ho capito, non è un casino che hai combinato tu. Allora dimmi ragazza, che c'entro io con questo casino che "non" hai combinato?

Lo guardai di traverso all'allusione dei miei peccati, scomoda verità che non avrei mai ammesso essere tale.

Tentennai un po'.

Avrei dovuto spiegargli a occhio e croce quello che era successo e di conseguenza tralasciare gli avvenimenti nel covo. 

Alla fine trovai una versione dei fatti che gradissi.

− Mi sono vista con i ragazzi per il mio compleanno, portando il rum rimasto dall'ultima volta− sperando di far leva sul suo senzo di colpa, sì, sono consapevole di essere un'orribile persona − ma ci siamo addormentati e ci siamo risvegliati all'alba. 

Lo osservai smettere di lavorare e fissarmi con i suoi occhi scuri, era inusuale vederlo indossare quel tipo di serietà.

− Quindi?

− Quindi... Mi sono avviata a casa all'alba e... padre Barton mi ha vista.

− E gli altri?

− Volatilizzati.

− Bash non era lì con te?

Bash.

D'improvviso mi tornarono alla mente gli ultimi istanti insieme. 

L'odore del suo corpo perfetto, la luce famelica e magnetica nei suoi occhi blu, il desiderio di continuare a scambiarci effusioni nudi, in un mondo tutto nostro.

Il cuore prese a rimbombare nella cassa toracica.

− Lui avrà spiegato tutto, nay?

− Non c'era.

L'uomo strabuzzò gli occhi.

Beth?!

− Hai sentito, lui non c'era.

Il lattaio non emise un altro fiato. Si lisciò la barba grigia con aria pensierosa e abbassò lo sguardo per pensare.

Mi resi conto di averla combinata grossa.

− Se ho capito bene, padre Barton ti ha beccata a girovagare per il villaggio sola e alle prime luci dell'alba?

Presi fiato e risposi in gallese.

Ydw.

− Merch nefoedd dda! Beth neidiodd i'ch meddwl?!

Non capii un'acca di ciò che disse e sono alquanto certa non fosse un complimento.

Doveva aver interpretato la mia confusione, perché aggiunse.

− Santo cielo ragazza! Ma che ti è saltato in mente?!

Immaginai fosse la traduzione.

− Non lo so, ero confusa e stanca e volevo solo tornare a casa! Chi avrebbe mai pensato che me lo sarei trovato davanti?!

Il nonno si passò la mano sulla faccia, quasi a voler lavare via la situazione dagli occhi.

− Tu cosa gli hai detto?

− Che ero a fare una commissione per te.

− Ora è tutto chiaro. Hai specificato quale tipo di commissione?

− No, sono rimasta sul vago.

− Brava ragazza. 

Emise un sospiro di sollievo.

− Avevi con te la cesta?

− Si, come sempre.

− Era vuota?

− Si, abbiamo lasciato le bottiglie a lavare al covo, te le avrei riportate pulite stasera.

− Bene. Gli diremo che eri andata a prendere la cesta da mia sorella, che abita a sud-est, dopo il boschetto sulla scogliera. 

− Perché la cesta?

− Perché è con quella che le hai portato il mio formaggio, ma l'hai dimenticata là e sei voluta tornare a prenderla prima della messa. D'accordo?

Gli buttai le braccia al collo.

Diolch Grisha!

Lo ringraziai con l'unica parola in gallese che conoscessi con quel significato.

Lui per tutta risposta sbuffò e con un buffetto sulla testa rispose.

− Mae croeso i chi, fy merch. 


Nota dell'autrice:

BeaNihil desu ~!

Mi scuso per il ritardo, sono cambiate alcune situazioni e non ho più molto tempo per scrivere.

In questo capitolo mi sono cimentata con il gallese, è stato molto divertente, anche perché ho trovato un sito di tripadvisor dove spiegano la pronuncia di alcune parole ( e dato che è per inglesi mi sono sbellicata dal ridere) 

Tornando al romanzo volevo precisare che una parte della popolazione è gallese, dato che l'isola a cui mi sono ispirata per la storia (e che giuro esiste) è esattamente tra il Galles e il sud-ovest dell'Inghilterra, nel canale di Bristol appunto e ha una origini celtiche, gaeliche e naturalmente inglesi.

Inoltre vedrete più in là con la storia che il francese e il gallese non saranno le uniche lingue che userò! 

Perché?

Eheh.

Continuate a leggere il romanzo e lo scoprirete!!!

Muahahahahah *ride tipo malefica (no, non la Jolie, non mi sento all'altezza della Jolie) attorniata da fiamme verdi* 

Grazie a tutti coloro che sono passati di qui.

Xoxo

BN


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