Capitolo 10
Non ricordavo di essere tornata a casa con le mie gambe, ma avevo una certa idea di chi mi ci avesse riportato.
Mi alzai dal letto e mi resi conto di essere ancora vestita, le vesti sporche di terra, erba e sangue.
Prima di spogliarmi andai a sbirciare dal nappo che ore fossero e compresi che l'alba era in procinto di tramutarsi in aurora.
Era già mattina.
Lasciai andare la stoffa e feci un breve conto a mente. Avevo più o meno dormito una cosa come dodici ore.
Dovevo essere veramente stanca.
Mi versai la consueta acqua gelata nella bacinella e, tolti i vestiti, cominciai a passarmi la pezza di cotone inumidita sulla pelle.
Quando però fu il momento di lavarmi tra le gambe, mi accorsi di avere dei segni rossi nel mio interno coscia.
Guardando più attentamente notai che erano un incrocio tra dei lividi e delle punture di insetto.
Aggrottai le sopracciglia.
Come avevo fatto a farmi pungere in quei punti?
E così tanti poi?
Non è che andassi a sottana alzata tutto il temp...
...
Un insetto c'era stato.
Lo ammazzo, giuro che stavolta lo ammazzo.
Ed era pure bello grosso.
Come diavolo ha fatto a lasciarmi dei lividi del genere? Con la bocca poi!
Urlai silenziosamente prendomi la testa tra le mani, in preda a un misto di sbalordimento, vergogna e frustrazione.
Mi abbassai a guardare nuovamente i lividi, sperando nella buona sorte che se ne andassero dalla mia pelle, solo perché gliel'avevo chiesto.
Naturalmente non lo fecero.
Eh, Cèline, davvero ti aspettavi che sparissero?
Inclinai la testa verso l'alto, con lo sguardo che andava ben oltre il soffitto.
Signore, capisco che non sono la più servile delle tue pecore, ma non ho mai peccato più di tanto, giusto? Ecco, mi chiedo, questo... E' peccato?
Aspettando una risposta che sapevo non sarebbe mai arrivata da un'entità che si faceva sempre attendere, rimasiin piedi con il naso all'insù e solo addosso gli scarponi, a cercare di meditare sul da farsi.
********
− Buongiorno.
La voce cristallina di mia madre mi colse alla sprovvista mentre rientravo dalle quotidiane faccende nell'orto.
Dalla sorpresa mi quasi cadde la cesta dalle mani e con quella gli ingredienti per i pasti della giornata.
− Mamma, mi è preso un colpo− mi uscì di botto una ripicca.
Poi mi ripresi e mi corressi.
− Buongiorno anche a te, maman.
Mia madre guardò il cambio d'umore con aria divertita.
Aveva il volto riposato, il colorito tornato sulle guance e la classica luce da pixie negli occhi.
Era sempre stata un tipo monello lei, pronta in qualsivoglia momento della giornata per organizzare un bello scherzo.
I ricordi delle birbonate al vecchio Grisha, e le conseguenti incazzature del povero lattaio, erano tra più belli che possedessi.
Vederla in salute dopo mesi mi allargò il cuore, riempiendolo di un serenità che non ero sicura avrei provato ancora.
Posai la cesta sul tavolo e iniziai a versarne fuori il contenuto.
Patate, cipolle, carote, cavoli bianchi, cicoria selvatica, uova (stavolta senza zuffa da parte delle galline) e un mazzetto di erbette aromatiche che coltivavo vicino al faro.
Piantarle era stato semplice, il problema era stato mantenerle in vita.
Ognuna di loro aveva una sussistenza diversa e negli anni alcune mi erano morte.
Anche in questi casi dovevo ringraziare il mio buonsenso, non piantavo mai tutti i semi che avevo a disposizione perciò se la piantina moriva avevo l'opportunità di ricominciare da capo.
In fondo le varietà di semi erano i regali dei compleanni passati da parte di Bash, raccolti per tipo.
Ogni tipologia era raccolta nel suo sacchetto di cotone dalle tinte più inusuali e brillanti.
Le confezioni sempre decorate con nastri rigorosamente a tema e una piccola pergamena all'interno con la denominazione e le istruzioni per coltivarne il contenuto.
Le piantine erano per lo più erbe officinali dai semini più o meno grandi.
Per il mio quindicesimo compleanno però mi ero trovata in mano semi grossi come cipolle, da cui erano nati scille, agli, belladonne, narcisi, aconiti, bucaneve e meravigliosi gigli dai colori sgargianti.
Mentre mi apprestavo a preparare la colazione, mia madre mi fermò.
− Abbiamo già la colazione− ed indicò la pentola di ferro che borbottava nel camino acceso.
Io la guardai interdetta.
− Hai cucinato tu?− chiesi incuriosita.
Era già un miracolo che la mamma fosse in piedi, merito di tre giorni filati di pasti sostanziosi, figuriamoci ad avere la forza di cucinare!
Mia madre pose i gomiti sul tavolo, le mani sotto al mento e mi sorrise.
Le fossette agli angoli della bocca ben visibili a dar manforte alla vispa occhiata impaziente di vedere la mia reazione a ciò che stava per dire.
− E' stato Bash a cucinare il coniglio che ha cacciato dopo che ti sei addormentata al cimitero e ti ha riportata a casa mentre dormivi beatamente tra le sue braccia.
Disse tutto d'un fiato mentre osservava i miei occhi sgranarsi e il colore della mia faccia passare dal bianco al porpora.
Ci sarà una tonalità di rosso più intensa di quella da me nominata "voglio morire"?
Probabilmente si, perciò la intitolerò tonalità "sotteratemi direttamente".
Geneviève Wallowick cominciò a ridermi in faccia, mentre accasciavo il mio corpo turbato su una delle sedie della cucina, e con i gomiti sul tavolo mi prendevo la testa tra le mani.
In quel momento non solo ebbi conferma di chi mi avesse portato a casa, ma anche del come.
Come faccio ad ammazzarlo adesso?
Diavolo di un Bash.
*************
Il pomeriggio di quella giornata cercai di ficcare il meno possibile il mio naso fuori di casa, con la paura di ritrovarmi il grosso diabolico insetto fuori dalla porta.
Grisha passò a vedere il faro come ogni lunedì.
Mentre ripulivamo dalla cenere la base della fiamma per il nuovo legname, mi chiese.
− Allora, cos'è successo con il tuo amico?
Guardai di colpo il vecchio, che sorrideva tra i baffi e la lunga barba grigia .
− Quale amico?− chiesi, turbata che potesse avermi visto con Char.
− L'ultimo di Graham. Fiona vi ha visto mentre ti riportava a casa in braccio.
Oddio uccidetemi.
− Niente, mi sono addormentata al cimitero celtico e lui ha pensato bene di non svegliarmi.
Non potevo credere che nel giro di neanche ventiquattr'ore ero già sulla bocca di tutti.
Dov'era finito il "devo mantenere un basso profilo", che mi ero tanto raccomandata di mantenere?
Scossi la testa, sconfortata dal fatto che la prima fase del mio piano per andarmene da lì era già andata in fumo.
Ascoltai Grisha ridacchiare.
− Aye, sapevo che non sarebbe durata, ma il bel partito si è mosso alla svelta, eh?
Mi voltai verso lui di scatto.
Bel partito?
− Che intendi dire?− chiesi, con il mio consueto tono indagatore e una leggerissima nota rabbiosa nella voce.
L'uomo si grattò la testa, visibilmente imbarazzato dall'aver forse detto qualcosa fuoriluogo.
− Huh, beh, ormai hai quasi sedici anni.
− Si, fra tre giorni− incrociai le braccia, mentre torreggiavo su di lui con fare minaccioso. − Quindi?
− Quindi... Ha iniziato il corteggiamento− disse, con una noncurante scrollata di spalle.
Non so che epressione avessi in volto, ma non doveva essere stata rincuorante dato che l'anziano lattaio andò nel panico.
− E' stata una sorpresa per tutti− aggiunse in fretta e furia, − Aye, sapevamo che l'avrebbe fatto, insomma, si vedeva, ma iniziare ancora prima dei tuoi sedici anni... Questa si che è stata una sorpresa. Huh, non è mai stato un tipo paziente lui− e preso dal suo ragionamento gli uscì perfino una risata.
Credo di aver avuto quasi un mancamento, perché non riuscivo a mettere bene a fuoco l'uomo che mi aveva fatto da padre, da nonno e da maestro.
Arrivò un giramento di testa, la punta del faro che mi volteggiava intorno.
Mi aggrappai a una delle grate di ferro che sorregeva il tetto e feci dei grossi respiri.
Mi mancava l'aria.
Non riuscii a rendermi conto di quanto tempo fosse effetivamente trascorso, percepii solo Grisha alzarsi con fatica da dove era seduto e chiamare il mio nome.
Mi accompagnò di sotto, nella camera del guardiano, e mi aiutò a stendermi sulla brandina.
Credo di essermi addirittura seduta sul mio vestito da sposa, ripegato con cura dentro un pezzo di tela.
Ripensai al fatto che avrei dovuto provarlo, ma con il rischio che l'uomo per cui l'avrei indossato non sarebbe stato Char.
Ha iniziato il corteggiamento.
Le parole di Grisha mi rimbombavano nella testa.
Al compimento dei sedici anni una ragazza poteva sposarsi e i possibili partiti avevano l'opportunità di farle la corte.
Naturalmente tutto sotto lo sguardo attento dei genitori di lei.
Ma Bash ed io eravamo stati visti da soli, con lui che mi portava in braccio a casa.
In braccio!
Equivaleva a dire "Ehi salve, noi abbiamo saltato il corteggiamento, ci sposiamo direttamente!".
Dannazione. Dannazione. Dannazione!!
Che ti ho fatto Bash!? Perché ti comporti così!?
Il bacio era già sospetto, quello che aveva fatto alla radura poi... Non ne parliamo.
Ed ora questo?
Devo parlargli. Assolutamente.
Andare a casa sua però sarebbe stato un problema, Graham non mi vedeva di buon'occhio e cominciavo ad afferrare il perché.
Bash non era stupido, sapeva stare al suo posto e queste azioni erano totalmente premeditate.
Avevo ragione sul complotto!
Fissai il soffitto della camera a vuoto, seminascosta alla vista dalle pile di libri che mi si ammassavano intorno.
Grisha era tornato su, imprecando come al solito per la mancanza di un passaggio sicuro tra tutta quella conoscenza.
Ero rimasta sola con i miei pensieri.
Mi salirono le lacrime.
Ripensai che solo qualche giorno prima piangevo di gioia lì dentro, sapendo dell'imminente arrivo di un futuro migliore e della necessità di portare la mamma con noi.
Ma adesso?
Le ragazze della mia età non potevano essere viste sole con un uomo.
Ne andava della reputazione della famiglia.
Non che me ne importasse, per carità, ma la questione di fuggire dall'isola diventava sempre più difficile da attuare.
Con tutti che chiacchieravano della mia apparente relazione con uno dei migliori partiti del villaggio, la mia mobilità era ridotta a zero.
Di questo passo non avrei più rivisto Char, figuriamoci attuare il piano di fuga.
Chiusi gli occhi, ci posai sopra entrambi gli avambracci e permisi di cadere alle lacrime che non ne potevano più di starsene buone.
Lasciai che la disperazione per il sogno quasi in frantumi scivolasse via sulle mie tempie, percoresse le orecchie e finisse sulla brandina.
Grisha scese di nuovo i gradini, imprecando stavolta per il peso dei secchi, colmo di cenere di legno di betulla.
Evidentemente non vide le mie lacrime, perché con il suo consueto tono da maestro mi disse.
− Andiamo ragazza mia, che c'è da preparare la lisciva stasera.
Grisha sei un genio!
Scattai in piedi, raggiunsi mio nonno e gli buttai le braccia al collo.
− Che diavolo ti prende ora?!− Imprecò lui, confuso e irritato per aver attentato al suo già precario equilibrio.
La lisciva era la soluzione dei miei problemi.
Ne avrei portata un po' a Mary Graham con la scusa di aver macchiato il fazzoletto di sangue.
Avevo una scusa per andare dal mio amico e ammazzarlo come si deve.
*****************
Preparare la lisciva era semplice.
Bastava far bollire la cenere della legna setacciata a dovere in acqua, che doveva essere cinque volte in volume la quantità della cenere, e poi mescolare ogni tanto per due ore.
Il problema è che poi doveva riposare per altre dodici, per questo la preparavamo di sera dopo la cena.
Era l'unica occasione in cui Grisha mangiava da noi e ne approfittava per portarci del burro e del formaggio da casa, sgraffignandoli direttamente da sotto il naso della moglie.
Mentre mescolavo il contenuto dell'enorme pentolone adibito a questo uso esclusivo, mia madre si avvicinò.
− L'altro giorno mi hai detto che Char ti ha regalato del profumo. Posso vederlo?
Annuii ed andai a prenderli dalla camera.
Una volta nelle mani di mia madre, notai che il sacchetto era di una bella tonalità viola, mai vista fino ad allora.
Mia madre osservò la mia espressione incuriosita.
− Lavanda.
− Cosa?− chiesi.
Di nuovo quel nome.
− Il colore di questo sacchetto. E' color lavanda.
Cercai di arrovellarmi nel cercare quello che mi aveva detto Char il giorno che ci eravamo ritrovati.
Sembrava passato un secolo.
Mi sforzai con ogni mezzo di non pensarci, scossi il capo per scacciare pensieri e lacrime.
Mia madre mi guardò perplessa.
− Niente. Dicevi che è color lavanda, giusto?
La mamma annuì.
− Prende il nome dal colore che hanno i fiori della pianta.
Ah, ecco, Char mi aveva accennato che fosse un fiore.
Rimanemmo sedute a terra accanto al fuoco, mentre Grisha ronfava sull'unica sedia a dondolo che possedevamo.
Qualcosa non mi quadrava. Come faceva mia madre a conoscere la lavanda?
−Maman?
− Mmmh?
− Come conosci la lavanda?
La domanda deve averla spiazzata, perché si meravigliò per un istante, per poi tornare impassibile.
− La conosco perché non è rara come pensi, mon cœur − mi disse sorridendo.
Ma il sorriso non arrivava agli occhi, colmi di un'emozione che avevo visto spesso addosso alla mamma.
Malinconia.
Sono sicura non si sia mai pentita di aver sposato papà.
Perciò la lavanda, o qualcosa legata a questa, avevano molto probabilmente riportato in superficie un vecchio ricordo di quando mia madre era giovane, forse le ricordava addirittura papà.
Sapevo che il dolore non era mai scomparso.
Non credevo che si fosse mai nemmeno affievolito.
Grisha mi diceva spesso che ognuno regge la sofferenza a modo proprio.
Alcuni riescono a dimenticare, altri no.
Per questo motivo non facevo mai domande su mio padre.
Mi bastava sapere ciò che la mamma era disposta a condividere, senza fare domande.
Dopotutto non sentivo la sua mancanza.
Non si può provare la privazione di ciò che non c'è mai stato.
Ti sbagli, Cèline. A te manca.
Corrucciai la fronte.
Ero perfettamente consapevole che mio padre non l'avevo mai conosciuto.
Perciò...
Chi era colui che mi mancava?
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