𝗽𝗮𝗽𝗶𝗹𝗶𝗼 𝘁𝗵𝗼𝗮𝘀

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Una farfalla.

Sakusa Kiyoomi, è sempre stato una farfalla.

Un paragone azzardato, per un uomo grande e grosso come lui, forse.

Ma non ho mai potuto fare a meno di pensarlo.

La prima volta che l'ho pensato, nemmeno me la ricordo con chiarezza. Non mi ricordo cosa fosse successo, non mi ricordo cosa stessimo facendo.

Mi ricordo che mi sono accorto che mi stava guardando.

Che nella sua aura tenebrosa, nella serietà di quegli occhi sfuggenti e severi, c'era qualcosa di diverso. C'era qualcosa di incuriosito, di interessato.

Brillavano.

Sono belle, le farfalle.

Sono belle, ma sono così effimere.

Mi sono sempre chiesto il perché della loro esistenza.

Non so se ci sia un Creatore lassù, annidato fra il bianco ridicolo delle nuvole, a guardarmi e ridacchiare delle mie imprese, ma se c'è, se c'è qualche bastardo appollaiato sul trono del cielo, allora ha proprio sbagliato, a farle, le farfalle.

Perché sono così sbagliate.

La contraddizione di un mondo al contrario.

Sono così belle, ma durano così poco.

Le loro ali scintillano, prima di avvizzire.

Non ti lasciano nulla.

Solo un grande senso di vuoto.

Solo quel pensiero che rimbomba nella tua testa e ti chiede di vederle ancora, di guardarle ancora, di seguirle e cercarle e poter avere di fronte agli occhi lo spettacolo dei loro colori solo un'altra volta.

Ma scompaiono prima che sia possibile.

Si sfaldano come polvere nell'aria, le ali brillanti che ora rivelano la fragile trasparenza della morte, il corpo minuto, incastrato in quello che sembra un tentativo di fuggire.

Di loro non rimane nulla.

Solo il ricordo.

E non so adesso ancora cosa io trovi in Sakusa che mi ricorda una farfalla.

Forse la bellezza impossibilmente raffinata, delicata, aggressiva ma silenziosa del suo volto, forse il rumore sporadico della sua voce che chiama il mio nome, forse che è così fragile.

Forse che sta brillando nella luce del sole come se la sua pelle lo riflettesse.

Forse che non riesco a staccargli gli occhi di dosso.

Forse che si sta sfaldando fra le mie dita.

Sospiro, quando rientro in casa.

Sospiro di stanchezza e ruoto le spalle stanche, la borsa dell'università che mi pesa sul braccio e la giornata faticosa stretta sui miei muscoli tesi, le gambe che sembrano fatte di gelatina.

− Omi, sono tornato. - dico ad alta voce, appena riesco.

La mia voce suona stupida quando è stanca.

− Ti sei lavato le mani? - sento provenire dalla camera da letto.

Mi guardo le punte dei piedi.

E sospiro ancora.

− No, ora faccio tutto. -

− Bravo. -

Sakusa è misofobico. O rupofobico, o germofobico, dir si voglia.

E c'è la strana concezione, nel mondo, che sia una cosa da niente. La misofobia, intendo. Che sia normale avere schifo o paura dei germi, dei batteri, di quello che non conosciamo.

Le persone che pensano questa cosa, della misofobia, non sanno davvero nulla.

Rimugino fra me e me mentre strofino forte le mani fra di loro, il gel disinfettante in mezzo, e procedo a togliermi tutti i vestiti eccezion fatta per le mutande e buttarli nel cesto dei panni sporchi strategicamente posizionato vicino alla porta.

La misofobia di Sakusa peggiora.

E peggiora male.

E peggiora al punto che ho paura, una fottuta, incredibile, trascendentale paura, che un giorno riguarderà anche me.

Che lo schifo nei suoi occhi sarà anche rivolto a me.

Ma non è bene preoccuparsi di cose che non sono successe.

Quindi alzo le spalle.

Di nuovo, quando abbiamo preso casa, sapevamo della fissa di Omi. Sapevamo che avrebbe voluto un appartamento fatto in questo modo specifico, con due bagni, uno in camera da letto, e uno vicino all'ingresso.

Mi lavo le mani fino ai gomiti, mi lavo il collo, e il viso, e oggi salto le gambe che è autunno inoltrato e le porto coperte dai pantaloni.

− Hai fatto? - sento di nuovo urlare da un'altra stanza.

Sorrido al mio stesso riflesso.

− Che c'è, ti manco? -

− No, cretino. -

Ridacchio fra me e me.

Mi allungo per raggiungere l'asciugamano appeso sul muro, apro la porta del bagno con un piede e in tutta la mia fierissima nudità marcio a passo spedito verso la camera da letto.

Sakusa ha le occhiaie fitte sotto gli occhi, segno che ultimamente ha dormito male, gli occhiali appoggiati sul ponte del naso dritto, un libro fra le mani.

Ha i capelli più corti di quando facevamo il liceo, le nocche delle mani spaccate dal lavaggio compulsivo, la pelle ruvida.

Eppure quando infilo la testa in camera da letto, quando alza lo sguardo a incontrare il mio e un minuscolo sorriso si forma sulle sue labbra, il mio cuore si ferma allo stesso modo.

− Ciao. - mormora.

Vorrei buttarmi su di lui. Correre e annegare fra le sue braccia.

Ma non posso.

Deglutisco.

− Come ti senti oggi? -

Alza un sopracciglio.

− Mi stai chiedendo se puoi abbracciarmi? -

Il contatto fisico, lo spaventa. Con me è diverso, con me lo è sempre stato e probabilmente sempre lo sarà, ma non possiamo negare che toccare le persone gli faccia paura.

E certi giorni va tutto bene, certi giorni ce la fa.

Altri mi guarda ricolmo di senso di colpa e scuote la testa.

Ma oggi, fortunatamente non è uno di quelli.

Molla il libro sul comodino, annuisce piano.

E in un attimo sono lì. Il collo che si incastra accanto al suo, le braccia chiuse attorno alle sue spalle larghe, il naso gettato sopra il suo orecchio, l'odore della sua pelle che ancora rimane più forte di quello del disinfettante, in quell'angolo del suo corpo.

Lo sento che mi stringe a sua volta, il contatto tremante, ma stranamente deciso, le mani grandi che tracciano linee chiare sulla mia pelle.

− Avevi ragione, prima. Mi mancavi. Mi sei mancato tutto il giorno, oggi. - sussurra poi, increspando le labbra contro la mia testa e baciandomi fra i capelli.

Ridacchio piano.

− A chi non mancherei? Sono fantastico. -

Il suo sterno trema in una mezza risata.

− Niente, scherzavo. Sei davvero un cretino, 'Tsumu. -

Mi beo della sua presenza ancora un po'.

− Prendo una pausa dall'Università. Non riesco a seguire i corsi. - lo sento dire poi.

Una doccia gelata.

Alzo lo sguardo immediatamente, gli occhi che cercano i suoi.

− Ancora? Ti hanno fatto ancora qualcosa? -

Scuote la testa.

− No, no. Hanno smesso di cercare di toccarmi mesi fa. È che mi fanno schifo. -

Non mi stanno simpatici i compagni di corso di Omi. Sono stupidi, stronzi, egoisti. Giocavano a dargli fastidio, all'inizio dello scorso semestre, prendevano la sua misofobia come un gioco.

L'ho visto tremare di terrore abbastanza volte da sapere che non è così.

Mordicchio il labbro inferiore.

− Sicuro? Se sono ancora loro chiamo 'Samu e Suna e vado sotto casa loro. -

Sorride appena, scuote la testa.

− A cuccia, 'Tsumu. - borbotta, stendendosi sulla schiena.

Posso sentire che è stanco dalla superficie del suo corpo, da quanto è rigido, dalla voce pacata.

− Non si mette a cuccia una tigre, Omi. - mi concedo di ribattere, prima di accoccolarmi al suo fianco.

Non abbiamo cenato e sono solo le sei di sera, ma al momento, mi sembra di essere tornato a casa dopo una guerra.

Le dita lunghe di Sakusa affondano nei miei capelli.

− Possiamo dormire un po'? Faccio difficoltà in questi giorni. -

Annuisco contro un suo pettorale, la guancia che ci si appoggia sopra, il mio volto che lo cerca.

− Sei sicuro? -

− Sì, sì. Senza di te dormo male. Se non avessi la malattia non sarei un insonne. Dormirei con te tutte le notti. - borbotta.

Sorrido, perché quello che ha detto è inaspettatamente dolce.

Sono fortunato che oggi stia così bene, non è così scontato. Anzi, è raro, di questi tempi. Se tutto va bene potrebbe persino essere nello spirito giusto per togliersi vestiti anche lui, che non sarebbe male.

− Malattia o meno io sono qui. Quando vuoi. Sai che non ti caccio. - ribatto, piano.

Sento le sue labbra raggiungere un'altra volta il centro della mia testa, premono piano, delicatamente, indugiano un istante di troppo.

− Lo so. -

Inspiro profondamente, e posso sentirlo addormentarsi. Posso vedere le sue ciglia lunghe e folte chiudersi sul viso di porcellana, il respiro rallentare e farsi regolare, il suo corpo che si rilassa.

− Quando mi sveglio facciamo sesso. - è l'ultima cosa che mormora.

Sorrido fra me e me.

− Pervertito. -

Pizzica una delle mie guance fra le dita.

− Idiota. -

Dormire mi serviva, ma dormire mi mette ansia. Mi mette ansia perché ho paura che Sakusa decida che non vuole farlo più. Che si svegli rigettando via il mio corpo lontano, che voli a lavarsi le mani e mi abbandoni con gli occhi colmi di rimpianto.

Mi mette ansia toccarlo, perché so che non sarà per sempre.

Scivolo in un sonno leggero, infastidito contro di lui, quando sento il suo respiro farsi regolare e il suo petto alzarsi e abbassarsi con calma sotto di me.

Non so quanto dormo, ma immagino poco.

Quando mi sveglio non sto meglio, non sono riposato. Sono solo stanco.

Sakusa è ancora qui.

L'ansia nel mio petto si calma.

È qui, è con me.

Mi perdo a guardarlo.

C'è così tanta incertezza in quelle mani incastrate assieme. C'è una voglia di prendere il mondo fra le dita, strizzarlo, averlo, ma c'è la paura di farlo.

C'è tutto, nelle mani Sakusa.

Mi lascio andare spostandogli una ciocca riccia dalla fronte.

La sua pelle è morbida, i capelli spessi, soffici.

Mi chino e strofino le labbra contro le sue.

È un azzardo baciarlo, e lo so. Ma ora, ora non se ne accorgerà. Non mi manderà via, non mi allontanerà schifato.

Spero.

Indugio un istante, prima di allontanarmi.

Ma sento il corpo di Kiyoomi tremare.

− A... ancora. - borbotta, gli occhi chiusi, il respiro improvvisamente più vispo.

− Sicuro? -

Respira.

Ributta giù le sensazioni.

− Fallo ora prima che cambi idea. -

Dovrebbe fermarmi, questa cosa. Dovrebbe farmi sentire male.

Dovrebbe essere una provocazione acida.

Ma io e Sakusa siamo diversi.

Sembra più una preghiera, quando esce dalle sue labbra.

Mi chino, sorrido contro il suo viso, lo bacio ancora. E ancora, e ancora, la bocca che si apre appena e dopo un istante di incertezza la lingua che si intreccia con la mia, curiosa, spaventata.

Baciare Sakusa è così raro che mi sembra sempre la prima volta.

È fortemente contraddittoria la sua voglia sessuale con la malattia.

Ma non sono nessuno per farglielo notare.

Stringe le mani forte attorno al mio corpo, mi tiene fermo, il suo viso che si inclina appena per raggiungermi meglio.

Questi, sono i momenti migliori.

Quando la voglia di toccarmi sconfigge la paura.

Quando Sakusa è solo Sakusa, non la malattia.

Mi stacco per riprendere fiato.

− No, no, non smettere. - sento chiedere da un paio di occhi assonnati, scuri.

Alzo gli angoli della bocca.

− Non ho nessuna intenzione di farlo. Ma respirare è importante, lo sai? -

La sua lingua spunta sul labbro inferiore.

− Tu dici? -

Faccio spallucce.

− Ovviamente. E poi non vorrai privare il mondo della mia magnifica presenza, Omi. -

Ridacchia, preme la fronte contro la mia.

− Sia mai, come potrebbero sopravvivere poi le persone senza Atsumu Miya? -

− Ecco. -

I suoi occhi sono dolci, ed è qualcosa che so posso riconoscere solo io.

Non c'è mai l'emozione nella sua forma palese e chiara nel volto di Sakusa, non c'è mai stata, lui è freddo, è apatico, è misurato.

Ma la vena che muta e brilla nel suo sguardo, io ho imparato a conoscerla.

E ora c'è, ed è affettuosa.

− Come potrei sopravvivere io? -

Mi sciolgo, sorridendo come un cretino.

− Sei adorabile, Omi. -

Se non avesse la pelle così chiara non l'avrei visto arrossire.

− Stai zitto. -

Colpisco la punta del suo naso con l'indice.

− Oh, ma che carino. Sembri tutto cattivo e scostante ma in fondo mi adori! - commento, osservando affettuosamente il suo sguardo scostarsi dal mio in una palese dimostrazione d'imbarazzo.

− Ti detesto. -

− Sì, e secondo te ci credo. -

Lo bacio ancora una volta.

Le sue braccia mi tirano su, sopra di sé, le cosce ai fianchi del suo busto e il suo volto che mi accoglie, non lasciandomi un istante.

Mi abbasso per raggiungerlo ancora, strofinare il naso contro il suo.

− Dai, su, dillo. - lo incito.

Mi risponde con un verso stizzito.

Rido.

− Ti prego, Omi, dillo. Solo una volta. Per favore? Per piacere? Ho un gran repertorio di frasi di preghiera, dovresti saperlo. - ripeto.

Sbuffa.

− Ti amo, 'Tsumu. -

Nonostante non mi tocchi la maggior parte del tempo, nonostante il contatto fisico sia qualcosa di così raro, così fuggevole fra noi, questo è familiare.

La sua voce.

Familiare.

Mi fa sentire a posto con il mondo.

− Ti amo anch'io, Omi. -

− Lo so. -

Le nostre labbra si intrecciano una volta ancora, e poi diventa tutto bollente.

Il sesso con Sakusa è frettoloso, è caldo, è impaziente. C'è in noi questa impressione che in ogni momento la tensione che ci tiene aggrappati assieme potrebbe spezzarsi, che cerchiamo di nasconderla con il rumore secco dei nostri corpi, con gli ansimi, con i gemiti, con la pelle contro la pelle, con il suono appiccicoso del contatto che tanto lo spaventa.

Sakusa è aggressivo, ma non violento, quando facciamo sesso.

È allarmato, è spaventato.

Ha questa sorta di disperazione muta nello sguardo che tenta di nascondere, questa sensazione impellente di disgusto che cerca di reprimere stringendomi ancora, baciandomi ancora, toccandomi ancora.

E c'è anche la decadenza elegante della speranza che sfuma, in noi due.

C'è la consapevolezza che questo momento passerà, che finirà, che torneremo al mondo reale.

E cerchiamo di sentire così tanto, di provare così tante emozioni in un lasso così irrisorio di tempo di fronte alla lunghezza straziante di una vita intera che sono tante, sono troppe, strabordano dagli angoli dei miei occhi mentre il corpo di Sakusa è dentro il mio e i suoi denti affondano nel mio collo.

Vorrei che non ci fosse nient'altro.

Vorrei rimanere così per sempre.

Con Kiyoomi così a fondo dentro di me che non so più dove il mio corpo finisca e dove inizi il suo.

Ma le cose belle, finiscono sempre.

E anche questo, finisce.

Il mio corpo è dolorante, la pelle calda, marchiata, l'odore di sudore nella stanza, un paio di mani che scorrono sui miei fianchi affettuosamente, terrorizzate all'idea di farlo ma così convinte, un sorriso stanco.

Mi perdo negli occhi di Sakusa un'altra volta.

Sono tristi.

− Vorrei... io... questo... sempre. - mugugna, la mente ancora annebbiata dall'orgasmo così forte ed eppure così veloce.

Appoggio le dita sopra le sue.

− Non importa, Omi. -

− Sì che importa. Importa per te. -

Certo che importa. Importa perché siamo giovani, perché siamo innamorati. E separati da un filo così sottile, invisibile, labile.

Decido di imboccare la via più sicura per entrambi.

− Stai dicendo che non posso resistere un'altra settimana senza sesso? Ok che sei bravo, ma mica ce l'hai d'oro. - ribatto, il sarcasmo che riempie le mie parole.

Avrei voluto dire altro.

Ma tutto sarebbe stato sbagliato.

Osservo il senso di colpa farsi più intenso negli occhi di Kiyoomi, il nero duro e affilato dei suoi occhi che si espande, e lui che lo ributta giù.

È più facile, far finta di nulla.

È più facile, più sicuro, e nessun senso ha prendersela con una sorte che non cambierà.

Sorride, ma non è un sorriso vero, il suo.

− Eppure avrei giurato che è d'oro, dai versi che facevi prima. - risponde.

Sento le mie palpebre scendere a mezz'asta.

− Non è mica colpa mia se sono rumoroso. Anzi. È colpa tua. -

Si lecca le labbra.

− Puoi dirlo forte. -

Mi ritrovo a ridacchiare, le dita che si intrecciano alle sue, palmo contro palmo, in quelli incrocio così familiare e accogliente e maledettamente raro.

− Doccia? O vuoi farla da solo? - chiedo, poi.

Aggrotta le sopracciglia, i due nei sulla fronte che si increspano nella superfice lattiginosa della sua pelle, ci pensa su.

− Forse è meglio da solo. -

Ed ecco la tensione che, alla fine, si spezza.

Ecco che torna.

Ecco che Sakusa scompare mangiato da una malattia che non ha scelto, che non vede, che non sa come combattere.

Annuisco, deglutendo.

− Come vuoi. -

Stringe le mani sul mio bacino un'ultima volta, le punte delle dita che scavano fra le linee definite del mio addome come se volessero imprimerci sopra la loro orma indelebile.

− Non è come voglio. Niente di tutto questo è come voglio, 'Tsumu. -

Inspiro e alzo un braccio verso di lui, avvicinandolo lentamente, abbastanza per permettergli di allontanarsi, se vuole.

Non lo fa.

Non trema neppure quando appoggio le dita sulla linea rigida della sua mascella.

− Lo so, Omi, lo so. Non devi giustificarti con me. Va tutto bene. -

No, non è vero.

Niente va bene.

Le sue ciglia sono lunghe, quando le sbatte un paio di volte.

− Sembrerà assurdo, più a me che a te, ma sei davvero la cosa che preferisco al mondo, 'Tsumu. Sei meraviglioso. - si concede di dire.

Ridacchio.

− Assurdo? La verità non è per niente assurda. -

Schiocca la lingua.

− Impertinente. -

− Preferisco onesto, grazie. -

Lo vedo iniziare ad allontanarsi lentamente, e dentro di me qualcosa scatta ancor prima che possa coscientemente rendermene conto.

Stringo le gambe attorno alla sua vita, lo premo contro di me, lo tengo stretto.

− No. - è l'unica cosa che dico.

Sakusa ha gli occhi tristi, quando mi guarda. Sono tristi ma sono caldi, e guardano me come non vedessero nient'altro.

− Devo andare... devo andare a lavarmi. - inizia.

Ma la sua voce non ha la paura della misofobia, ha solo l'incertezza della confusione.

Scuoto la testa.

− Un minuto, Omi. Un minuto solo. Toccami un po'. -

Inarca le sopracciglia.

Poi stringe timidamente le mani, le passa sulla mia pancia, sul petto, le ancora alle mie spalle. Lascia una scia bollente di contatto che sembra bruciarmi addosso.

Il silenzio è tombale ma non infastidito, è un silenzio confortevole.

Particolarmente catturato da quello che sta facendo si china, appoggia le labbra sulla superficie del mio sterno, appoggia la fronte sul mio mento, inspira forte.

− Non so perché certi giorni non riesca a farlo. Mi sembra tutto così facile, ora. - sussurra contro la mia pelle.

Incastro le dita fra le ciocche spesse di capelli folti.

− È perché sono nudo. Nessuno resiste al fascino di un Miya nudo. -

Increspa le labbra.

− Questo vale anche per Osamu? -

− No, quel brutto ceffo no. Lui è orrendo. -

La mano sulla mia spalla corre alla mia guancia, il pollice contro l'angolo della mia bocca.

− Siete identici, 'Tsumu. -

Sbuffo.

− Non è affatto vero, io sono almeno mille volte più bello. -

Ride, ride ed ha una risata stanca, sfiatata.

Torniamo in silenzio.

Si allunga un'altra volta, il corpo premuto contro il mio e il suo peso sopra di me. Se fossi una persona normale con un'altra persona normale, allora mi lamenterei.

Ma non c'è niente di normale in questo.

Quindi tutto quello che faccio è sentire che c'è, che è vicino a me e che è addosso a me.

Inspiro ancora una volta il suo profumo, le labbra che si impastano assieme l'ennesima volta.

− Lo sento. - sussurra quando si stacca.

E lo so, che lo sente.

Il terrore.

Torna sempre, è l'unica certezza che abbiamo.

Che tornerà.

− Quanto abbiamo? -

Scuote la testa.

− Un minuto. -

Rimando giù le sensazioni che mi pungolano il petto. Ributto tutto al fondo più recondito del mio petto, ingoio il nervosismo, l'ansia, la nostalgia.

Non faccio altro che baciarlo un'altra volta.

Risponde, ed è ancora più disperato, come volesse scappare.

Ma poi lo sento irrigidirsi, lo sento diventare freddo, e distante.

− Devo andare a lavarmi. - dice, e ripete quello che ha detto nemmeno un attimo fa.

Annuisco.

− Vai. -

E Sakusa sfugge.

Come acqua fra le mie dita, che scorre e se cerchi di trattenerla alla fine trova comunque un modo per scappare. Come qualcosa che voglio tenere ma non riesco.

Come qualcosa che se ne va.

Rimango da solo con i miei pensieri, ancora.

I miei pensieri fanno rumore.

Nessuno si aspetterebbe da qualcuno come me, da qualcuno con una personalità così frizzante e sempre espansiva che i pensieri ogni tanto vincano anche sulla mia serenità.

Ma è così.

Pensare fa quasi male.

Il rumore dell'acqua della doccia che scende invade la stanza, l'odore del sapone che pungola le mie narici, così forte solo perché Sakusa ne usa una quantità allucinante, la calma pacata del silenzio insoddisfatto.

Sospiro.

Anch'io devo lavarmi.

Mi allungo per prendere un fazzoletto dal comodino e togliere quel che rimane delle nostre peripezie dal mio petto e mi alzo, nonostante i muscoli indolenziti e il dolore distinto sul fondo della mia spina dorsale.

Entro in bagno cautamente.

− Posso stare qui? Sto lontano. - chiedo, alla figura così imponente nascosta dal vapore sullo sportello trasparente della doccia.

Lo vedo fermarsi.

Posso quasi sentirlo respirare.

− Mettiti nell'angolo, quello lontano. - dice dopo un secondo.

Annuisco.

So come funziona.

Mi metto nel punto meno raggiungibile della stanza, così che il suo corpo non rischi di toccare il mio mentre si asciuga e si riveste, e lo osservo, portando le gambe al petto e stringendole con le braccia.

− Ti va di raccontarmi qualcosa? - sento chiedere qualche istante dopo.

Sorrido.

− Cosa vuoi sentire? -

− Come è andata la tua giornata, come stai, che cos'hai fatto. Qualsiasi cosa. -

È così che io e Sakusa riempiamo il vuoto.

Il nostro vuoto.

Con le parole, milioni e milioni di parole, per la maggior parte provenienti dalla mia bocca. Ci fanno sentire meno soli, ci fanno sentire vicini quando non possiamo esserlo fisicamente.

− Ho litigato con un professore. Mi ha quasi cacciato dal suo corso. - inizio.

Lo sento ridacchiare sotto il getto dell'acqua.

− Di nuovo? -

Tiro l'aria dentro la bocca, stizzito.

− Scusami? Non è successo così tante volte! -

− Bugiardo. Litighi con qualcuno almeno una volta alla settimana. -

Incrocio le braccia al petto, lasciando cadere le gambe che si incrociano sotto di me, il gelo del pavimento che mi fa tremare.

− Senti, non è colpa mia. Quel bastardo mi voleva togliere i crediti aggiuntivi solo perché ho copiato metà della ricerca per il progetto, ti sembra giusto? -

Sakusa ride ancora.

− Mi sembra più che giusto. -

Alzo l'indice verso di lui e so che non può vedermi, non chiaramente quantomeno, ma che sa cosa sto facendo.

− Prima di tutto metà l'avevo fatta io, ed è comunque uno sforzo. E comunque copiare non vuol dire che non sappia cosa c'è scritto, vuol dire che non avevo voglia di riscriverlo. - borbotto.

Il getto d'acqua si spegne, vedo una delle mani di Kiyoomi passare fra i suoi capelli tirandoli indietro, via dagli occhi.

− Sei incorreggibile. Di questo passo ti laureerai fra dieci anni. -

Scuoto la testa.

− Assolutamente no. Mi manca solo un anno e il mio cervello è abbastanza vispo per farcela in meno di tre. -

Apre lo sportello della doccia, esce, prende educatamente il suo asciugamano appeso da solo, lontano dagli altri, e lo allaccia alla vita.

− Coraggioso da parte tua presumere che tu abbia un cervello, 'Tsumu. -

Mi esibisco nell'espressione più offesa del mio repertorio.

− Sei un figlio di puttana, Omi. -

Scoppia a ridere e il suono basso, accogliente, dolce della sua risata scioglie via tutta l'irritazione che potevo immaginare di avere.

− Scherzavo, scherzavo. -

Rimane in silenzio.

Poi mi lancia un'occhiata di sbieco.

− Forse. - aggiunge.

Vorrei alzarmi e stringerlo.

Vorrei alzarmi e stringere le sue braccia e baciarlo e colpirlo e fare un milione di altre cose.

Ma non si può avere tutto nella vita, no?

Mi limito ad alzare le spalle e fargli la linguaccia.

− Sei davvero acido. Come ho fatto a innamorarmi di te? Sei insopportabile. -

− Hey, questa è la mia battuta. -

Sorride verso di me, appena, una linea curva sul suo viso quasi impercettibile.

Lo vedo muovere un passo incerto dalla mia parte.

Alzo un sopracciglio e le battute di un secondo fa sfumano all'istante.

− Che stai facendo? -

Incolla lo sguardo per terra, inspira ed espira lentamente.

− Sto provando ad avvicinarmi. Forse posso... ancora... ancora un attimo. -

Spalanco gli occhi.

− Non sforzarti, Omi. Non è un problema, lo sai. -

Percorre un altro minuscolo tratto della stanza, allunga un braccio, così vicino che potrebbe toccarmi se solo fosse un centimetro più in avanti.

− Ma voglio. -

Mi si stringe il cuore.

Sakusa che combatte se stesso per me, per toccare me, è qualcosa che mi fa soffrire e al contempo riempie il mio petto di gioia.

Apro una mano di fronte alla sua, aspettando.

Passano istanti interi, prima che lo faccia per davvero.

Le sue dita corrono fra le mie, si stringono dolcemente negli spazi liberi della mia mano, si intrecciano alla mia pelle.

Trema, trema forte.

− Posso? - chiedo, riferendomi ai nostri palmi a contatto.

Annuisce.

Chiudo la stretta, la ricambio.

− Come va? Devo smettere? -

− Ancora... ancora un attimo. -

È poco. È poco ma è così tanto.

Allaccia anche l'altra mano alla mia e rimane fermo solo per sentirne la sensazione, e allo stesso modo faccio io.

È qualcosa che si dà così tanto per scontato, questo.

E invece non lo è per nulla.

Sempre con la stessa lentezza terrorizzata, Sakusa pianta gli occhi sui miei e mi fissa, prima di scendere dalla sua altezza torreggiante verso il mio viso.

Il bacio che mi dà non ha nulla a che fare con la passione disperata di prima.

È casto, e breve.

È un "arrivederci".

Un "fino alla prossima volta".

Stringo un'ultima volta le sue mani.

Poi scivolano via dalle mie, si gettano sul lavandino, il sapone sopra e il rumore della pelle che sfrega contro la pelle, l'acqua corrente sulle ferite della superficie screpolata delle sue dita.

Sospiro.

− Vado a lavarmi anche io. - dico, alla fine.

Sakusa annuisce, e osserva se stesso lavarsi le mani.

Si morde il labbro.

− Scusami. -

Mi infilo nella doccia.

− Non scusarti per come sei. - lo rimprovero.

Annuisce, o forse no, ho gli occhi appannati.

Apro il rubinetto, l'acqua bollente che scende sul mio viso, colpisce le guance, scorre sul corpo.

E si mescola alle mie lacrime.

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➭ ✧❁ il titolo del capitolo si riferisce a questa farfalla, detta "farfalla coda forcuta" o col nome scientifico "papilio thoas", della famiglia delle papilionidae, che vive nell'america centrale e del sud

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