𝗺𝗼𝗿𝗽𝗵𝗼 𝗺𝗲𝗻𝗲𝗹𝗮𝘂𝘀
➥✱ alert :: questo capitolo è molto grafico e molto forte. non procedete se avete problemi col sangue e con l'autolesionismo
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Vi capita mai di sentire qualcuno che vi parla nonostante non ci sia nessuno?
Che so, di avere qualche parola che scorre sul retro dell'orecchio, dalla linea centrale della schiena al centro della testa, rimbombare, suonarvi dentro?
Vi capita mai di sentire qualcosa che non c'è?
Di venire schiacciati dal peso di qualcosa che non esiste?
Di sentire il respiro che manca per nessun motivo pratico, di essere annegati dai pensieri che si infuriano dentro di voi, di cercare disperatamente aria da respirare in un mare di spine?
L'ansia è una compagna di vita, per certe persone.
Si dà molto per scontata, l'ansia.
L'ansia delle verifiche, l'ansia di incontrare i genitori del proprio partner, l'ansia da prestazione, l'ansia di tutto e l'ansia di nulla.
Che parola abusata, "ansia".
Forse sono troppo legato, a lei.
Forse ci sono così impetuosamente intrecciato che ne provo quasi gelosia.
Non paragonate la vostra ansietta da compito in classe alla mia fiera e nebulosa tormenta interiore. Non mettete sullo stesso piano un dolorino al fondo dello stomaco con la mia esistenza infelice.
È egoista, pensare questo.
Egoista pensare di star peggio degli altri.
Ma quando non hai niente, trasformi le cose che ti rovinano in motivi di vanto.
Arriva dopo, quando le superi, le cose, la dura consapevolezza del tuo egocentrismo.
Ma quando sei un poveraccio buttato in una vita che non ti dà nulla, non ce l'hai, l'amore per il prossimo, la comprensione.
Il mondo ti ha buttato via e reagisci con rabbia.
Funziona così.
Non mi è mai piaciuto dire che mi tagliavo.
Mi "taglio".
Che frase del cazzo.
Che banale diminuzione di un gesto così nobilmente rovinato, mi dico.
Non mi sto "tagliando".
No, sto facendo ben altro.
Gli eroi romantici dei romanzi ottocenteschi di Sakusa fanno la stessa cosa, ad un grado accentuato e diverso, ma simile.
La mia non è depressione, la mia è rabbia, ansia, smania.
Il mondo mi fa schifo.
Mi ha dato queste cose, queste che tocco, il mio corpo, il mio animo, le mie emozioni.
Guardami, Creatore, se ci sei, guardami rovinare i tuoi doni così preziosi. Li avrei rispettati, se qualcuno mi avesse insegnato come farlo.
Li avrei amati.
Ma se tutto prende la strada che non deve, se tutto ti fa capire che la felicità tu non te la meriti, come fai?
Non è che sia la misofobia di Sakusa, ad avermi spinto a farlo la prima volta, no.
Un'abitudine.
Ci sono tanti tipi di abitudini.
Certo, pensare in un certo modo anche ad un vizio come il fumo, forse, è autolesionismo.
Ma questo, questo è diverso.
Macabro.
Grottesco.
Il rosso del sangue ha una sfumatura affascinante.
Il dolore non lo senti. Non saprei bene come dirlo, come spiegarlo o metterlo in parole ordinate nei miei pensieri confusi e attanagliati.
Ma non è propriamente dolore, no.
È una punta di sofferenza nascosta da una sensazione che sembra... liberarti.
Diventi quasi inquietante, quando lo fai.
Mi sono osservato farlo allo specchio, una volta.
C'era uno sguardo, nei miei occhi, che non avevo mai visto. Un miscuglio di pura voglia di sangue, un po' di rabbia, un po' di stanchezza, qualcos'altro di nebuloso in mezzo.
Ti viene la voglia.
Di vedere il sangue, sempre di più, scendere e colarti lungo le braccia, la sensazione familiare della paura di averlo fatto troppo, questa volta, che ti stringe la bocca dello stomaco, il piacere sfrenato di essere il motivo del tuo stesso rifiuto.
Rifiutare la vita è il più alto gesto di ribellione, diceva Goethe una marea di tempo fa, mi ha detto Sakusa una volta.
Mai stato un appassionato di letteratura.
Ma mi era piaciuto questo pensiero.
Non ci siamo più toccati, dopo quella volta.
Dopo quella in cui ha...
Non ho voglia di dirlo.
Non so quanto sia passato, i giorni diventano tanto mescolati nella consapevolezza che sono tutti uguali che ti dimentichi di contarli.
E ad ogni istante che passa, questa voce, questo sibilo affilato nelle mie orecchie, aumenta.
Le voci non sono tutte uguali.
"Non ha passato l'esame, Miya".
"Non vorrai davvero lasciare la pallavolo?".
"Non credi che questa storia del ragazzo non regga?".
"Guardalo, quel fallito".
"Mi spiace, 'Tsumu. Mi spiace, cazzo, io...".
Ci sono tanti tipi diversi di persone, al mondo. Ci sono quelle che si abbattono, ci sono quelle che si ribellano, ci sono quelle che incassano.
Io, perché essere solo una di loro sarebbe stato facile, sono tutte e tre.
Non sono mai andato da uno psicologo, una volta sola al liceo.
Lo facevo già, all'epoca.
"Perché?" mi aveva chiesto, con l'espressione vuota.
Già, cazzo.
Perché?
Avevo una vita perfetta.
Una famiglia solida, gli amici, lo sport.
Ho già parlato dell'ironia della sorte che mi insegue, no?
Mi sentivo vuoto.
Un guscio di una persona inesistente. Come quando sorridi per finta e ti fa male la faccia, come quando esprimi l'espressione più gioiosa che puoi e quando esci dalla stanza la tua bocca torna una linea apatica.
Mi sentivo uno psicopatico.
Un manipolatore, un egoista.
Ed eccomi, quattordicenne e stanco, spaventato, a fare quella cosa che avevo sentito sussurrare dai miei a tavola.
Parlavano del fatto che i ragazzi di oggi pare si taglino.
Si tagliano, mi ero chiesto.
Si tagliano.
Che cosa vorrà dire mai, che si tagliano?
Bagno.
Non sono scemo, nonostante lo possa sembrare, ed eppure mi sembrava una cosa interessante. Un modo per provare il dolore che infliggevo agli altri con la mia meschina vita finta, con il mio guscio interpretativo della persona che volevo essere.
Smontare un rasoio da barba è più facile di quanto si pensi.
Quelli da supermercato hanno le lamette lunghe e flessibili, oscillano fra le dita se li prendi in mano. Basta infilare qualcosa di appuntito, come delle forbicine da unghie o la punta di una lima fra lo spazietto dove la plastica si incastra, fare leva, ed eccole, pronte, scintillanti che ti guardano.
La cosa più ridicola che io abbia mai fatto nella vita è stata disinfettarle.
Davvero?
Vuoi appoggiare uno di quei sottili fili affilati sul tuo braccio e lo disinfetti?
Ridicolo, Atsumu, ridicolo.
La prima volta che lo fai, si sblocca qualcosa.
Non so come dirlo.
C'è un timore reverenziale nei confronti di se stessi, della malattia, una sorda paura della morte che si lega a doppio filo alla stessa fragile natura umana.
Ti caghi sempre un po' addosso, quando stai male.
Ma poi sei tu, ad avere il potere.
Diventi un Dio e un poveraccio nello stesso istante.
Diventi vittima di tante cose che ti schiacciano e padrone del tuo dolore.
Prendi il potere.
Tutta la vita di un uomo, sono convinto, è volta solo a quello.
Potere.
C'è chi lo prende con la forza, chi studiando e facendo carriera, chi rendendo importante la sua vita con il beneficio della famiglia.
C'è chi smette di mangiare per controllare almeno le reazioni corporee del mucchio di ossa che gli rimangono.
C'è chi mangia troppo per avere il potere di abbandonarsi.
C'è chi si pianta il metallo sulle braccia per dare un senso ad un dolore che non sa dove cercare.
Quattordici anni.
Il primo taglio fu piccino.
Un infarto, la prima goccia di sangue.
Poi basta per mesi.
E poi un compito di inglese andato male, ed ero di nuovo là, con le orecchie tese alla ricerca della presenza di un qualsiasi membro della famiglia che mi fermasse.
Non c'erano.
Il bagno era vuoto.
Ti formicolano le dita, quando vuoi farlo.
Senti davvero come una minuscola scarica elettrica nelle braccia, fra le falangi e le migliaia di minuscole ossa della mano.
Il tuo cervello ha una voce sola, in quel momento.
Non si chiede il perché delle cose, non cerca di distruggerti, non vuole niente da te, smette di farsi domande.
Dice solo un'unica parola.
"Fallo."
"Fallo, fallo, fallo, starai meglio dopo, te lo garantisco, fallo, fallo, cazzo, fallo."
La seconda volta è quella dove cambi davvero.
La prima c'è la dolcezza ingenua e sperimentale del tentativo, la seconda la sensazione diabolica e maniacale della perseverazione.
Se prima ti dicevi che una volta non ti rende un autolesionista, la seconda...
La seconda sei là.
Il fiato che si interrompe quando vedi la carne fendersi fra le lamelle sottili, una minuscola goccia di sangue che esce, rosso che cola.
Ha un colore davvero affascinante, il sangue dei polsi.
È sangue venoso, quello superficiale, rosso scarlatto e concentrato, liquido ma non come l'acqua, più come latte.
L'odore del sangue all'inizio mi faceva schifo.
Ferroso, sporco, quasi.
Non lo sopportavo.
Poi diventa abitudine.
Come quando torni in te pochi istanti dopo.
Infilarti le lame nella pelle, è come se ti resettasse. Ti toglie la confusione e ti restituisce lucidità, lo fa in fretta e con violenza, in un modo duro che ti sbatte addosso come la realtà.
Che cazzo stai facendo, idiota?
Che è tutto questo...
È pieno di sangue.
Cazzo, cazzo, che hai fatto?
E ora...
Acqua, acqua fredda, ecco che ti serve, a te, esattamente acqua fre...
Brucia.
L'acqua gelida contro le ferite, paradossalmente brucia.
Sul lavandino meno, ma quando a rovinarsi della mia insoddisfazione non sono le braccia ma le cosce, nella doccia, allora l'effetto è davvero una tortura.
L'acqua della doccia è più dura sulla pelle di quanto non sembri.
Non lo senti, sulla cute chiusa e rosata, ti sembra solo il picchiettare tranquillo delle gocce.
Ma se c'è il tuo interno, aperto sotto quel getto freddo, ti sembra di non avercela più, la pelle, ti sembra di bruciare dall'interno e urli, sotto l'acqua, che tanto non ti sente nessuno, non c'è nessuno, non hai...
Sono tornato a quei quindici anni.
A quindici anni era una fissa.
Un chiodo.
E poi avevo conosciuto qualcuno che mi aveva detto che essere uno stronzo non era un male, che essere un po' manipolatore era umano, che l'onestà è sopravvalutata, che il mio guscio sociale non era niente di criminale.
La pallavolo, l'amore, mi avevano... distratto.
E ora invece sono tornato là.
C'è qualcosa di fieramente macabro, nella visione che ho di fronte.
Tanti, sono tanti e sottili, la puzza del sangue nel suo ferro acido che mi invade le narici.
Sono seduto nella vasca da bagno.
Non l'ho riempita, ho acceso il getto della doccia dall'alto.
Perché abbiamo una vasca da bagno con la manopola da doccia e una doccia? Ha senso, questa cosa? Perché ci sto pensando solo ora?
Oh, guarda, Atsumu.
Rosso.
L'acqua scola rossa sullo scarico.
Non di quel rosso scarlatto delle ferite, un rosso diluito e chiaro, pallido e quasi assente, come me.
Le mie braccia sono...
Una mappa di cicatrici che si formeranno.
Le trovavo brutte, prima.
Ma che me ne faccio, ora, della bellezza? Potrebbe essere la più pura del mondo, ma Sakusa non la vorrebbe lo stesso.
E allora vaffanculo, mondo di merda, guardami rovinare ciò che pensi dovrebbe essermi caro.
Guardami sfregiato, guardami inutile ad osservare pigramente i miei polsi aperti, le mie cosce insanguinate, il dolore che nemmeno mi tocca, in questo spazio così rovinoso della mia stessa anima rotta.
Che me ne faccio, mi chiedo.
Che me ne faccio, eh?
Che cazzo ci faccio, di me stesso?
Mi hai fatto sentire vuoto, vita, mi hai fatto sentire incompleto.
Poi mi hai dato quello che mi mancava.
E quando ne avevo più bisogno, nello sbocciare della giovinezza che si inoltrava verso la maturità, me l'hai strappato.
Cosa potrei fare se non incazzarmi?
Cosa potrei fare se non essere un nugolo di rabbia cieca che ha bisogno di essere sfogata? Tagliata via, la mia rabbia, come un cancro che mi annebbia la vita, che scurisce la mia visuale.
Ho bisogno di farmi del male per andare avanti.
Perché se questa cosa non mi ancorasse alla vita, non la vorrei più.
Paradossale, vero?
Mi ferisco per non abbandonare la realtà.
Sarebbe meglio fuggirne, forse.
Ma non voglio fuggire, finché un minuscolo, intimo lampo di speranza brilla ancora dentro di me, non voglio fuggire.
Voglio resistere.
E questo, per resistere, mi è indispensabile.
Dicono che si siedi sulla doccia allora la tua vita ha raggiunto il suo punto più basso. Vale se sono in una vasca da bagno?
Ma aspetta, che cosa vuoi farci, se no, nella vasca da bagno?
Stare in piedi?
Cretino.
Mi cade la testa di lato.
Quando perdi sangue, anche se non è tanto, che negli anni ho imparato perfettamente come fare solo ferite superficiali senza rischiare nulla, ti gira un po' la testa.
Apro appena le labbra, respirare col naso mi fa sentire l'odore fin troppo pungente delle ferite, inspiro.
Le cicatrici sono una cosa verso cui ho un rapporto contrastante.
Da una parte, qualche anno fa, quando avevo smesso, erano medaglie. Non ne andavo esattamente fiero, ma mi ricordavano il passaggio che avevo fatto.
Ancora prima, me ne vergognavo.
Non volevo che le persone si preoccupassero.
Davo la colpa al gatto.
Lo sapevano tutti, che non era il gatto, mi chiedo perché fossi convinto che una scusa del genere potesse reggere, idiota.
Ma non dicevano nulla.
Ecco, anche questa è una questione interessante.
Perché gli autolesionisti sono intoccabili? Perché il fatto che si facciano del male da soli è qualcosa che si sa ma non si deve dire?
Non che voglia indelicatezza, non questo, ma ignorare i problemi facendo finta di non vederli, è tanto meglio che essere stronzi?
Combatti da solo, alla fine.
Mi chiedo perché le persone siano convinte di essere chissà quanto compassionevoli a non farti notare il tuo problema.
Stai letteralmente prendendo atto della mia rottura interiore e te ne stai sbattendo, lo sai? Sei solo un altro come gli altri, se ignori.
Se sei indifferente, sei complice.
L'unica persona con cui ne abbia parlato apertamente, è Sakusa.
Nemmeno Osamu.
'Samu sapeva, ma 'Samu aveva paura.
Non ce l'ho con lui.
Non era un genitore indifferente, era un ragazzino che aveva paura.
Fuggiva, dalle crepe di me stesso, perché non voleva vedere la vulnerabilità in qualcosa che era sicuro, per lui, non lo biasimo.
Sakusa invece non ha peli sulla lingua.
Non è crudele, non è minaccioso, ha rispetto.
Ma me l'ha chiesto.
Mi ha visto cambiarmi per la prima volta, le ha notate, le ferite.
Non l'ha detto, non davanti a tutti, ma quando ci siamo ritrovati soli qualche settimana dopo, allora me l'ha chiesto.
"Che cos'è che combatti per avere tutta quella violenza dentro, Atsumu?" mi ha chiesto.
Lunga storia, Omi.
Lunghissima storia.
Di cui purtroppo ora fai parte anche tu.
Volevo che fossi salvo, dalla mia furia, lo volevo davvero. Volevo che fossi il posto sicuro dei miei pensieri, il luogo dove nascondermi da tutto, dalla realtà che mi brucia sulle braccia e dalla confusione ansiosa dei pensieri, ma non ce l'abbiamo fatta, alla fine.
Alla fine l'ironia della sorte ci ha giocato un altro dei suoi brutti scherzi.
Ci ha tirato indietro come legata a noi con un cappio di cui non ci eravamo accorti, ha messo a te un paio di guanti e a me una lametta in mano, ci ha resi nemici.
Combattere con il male dentro di te diventa peggiore, se devi combatterlo anche per gli altri.
C'è il divario che cresce, e c'è la lotta.
Mi rassicura, perché finché c'è lotta, allora c'è anche volontà di ricongiungerci.
Ma sapete che divario si apre, quando la voce che non controlli nella testa ti dice che la detesti, quella persona che brilla nel tuo cuore.
Ed eccomi qui, muto e solo nella vasca, pieno di sangue e rimpianti.
Sono andato all'università, oggi.
Sono passate due settimane da quando Sakusa ha...
Continuo a non volerlo dire.
Ho provato a mangiare qualcosa che non fosse riso in bianco, mi è venuto il voltastomaco. L'odore mi insegue, il pensiero.
Come il disturbo post-traumatico.
Si può avere per una stronzata del genere?
Tutte tu, le hai Atsumu.
Che egoista, a volere tutto il dolore di questo mondo solo per te.
Ho fatto microeconomia.
Ho preso due righe di appunti.
Meglio di niente, no?
Mi sono scritto sul polso la data del prossimo appello della sessione, immagino che avrei dovuto segnarlo da qualche parte prima di squarciarlo con la lametta.
Idiota.
Ho cercato di tornare a casa il più tardi possibile.
Non volevo confrontarmi col fallimento dell'amore così nobile che provo.
Io e Sakusa non dormiamo insieme da quel giorno.
Il divano non è scomodo quanto pensassi.
Sakusa rimane chiuso in camera, mangia quando esco, lo vedo a malapena, chiaro e sofferente come un'anima in pena dalla porta aperta che non posso superare.
Come pensava, la vita, che avrei reagito?
Mi facevo male a quattordici anni perché ero in confitto con me stesso e ora che pensava avrei combinato?
Che mi sarei dato allo sport per sfogarmi?
Bella, questa.
Sarcastica, Atsumu.
Sono nel bagno dell'ingresso.
È il mio.
Omi usa quello della camera, questo è il mio.
Vivere insieme divisi è una merda, cazzo.
E che l'abbiamo comprata a fare, la casa? L'affitto che pago coi soldi che avevo raccolto con la pallavolo, tutti buttati nel cesso.
Mi devo laureare prima che finiscano, miseria.
Che Omi vada a lavorare la vedo davvero dura e se volete sopravvivere qualcosa dovete pur usare.
Non puoi usare i risparmi della tua nonnina morta due anni fa ancora per molto, ad una certa, nella vita vera, i soldi finiscono, ed ecco un altro problema.
Che cazzo.
Apro le braccia verso l'alto, lascio sporgere l'interno verso il getto dell'acqua, mi mordo il labbro per reprimere un versetto sofferente quando picchia sulle ferite.
Devo alzarmi.
Da quanto sono qui?
Ancora...
Ancora un po'.
Non ho voglia di tornare di là, avvolgermi in un pigiama schifosamente mio, prendere la copertina di pile e infilare il mio corpo sul divano con un misero "buonanotte".
Scappiamo ancora qualche minuto.
Sì, scappiamo.
Scappiamo.
Chiudo gli occhi, il dolore che diventa così costante da scomparire in una corda intrecciata di una sensazione che conosco, il mio respiro che rallenta, e rallenta, i muscoli doloranti che si sciolgono, l'ansia che diminuisce, diminuisce ancora, diventa piccola e flebile.
Che bello, fuggire.
Che bello.
Che bello lasciarsi andare, per una volta, per un solo singolo istante, soltanto a me stesso.
Chiudere fuori da quella porta asettica del bagno un mondo che mi rifiuta e fluttuare nel nulla.
Che bello, abbandonarsi.
Che bello... abbandonare.
Che bello...
Che...
− 'Tsumu? -
La voce mi riporta in vita.
Acqua gelata sull'acqua gelata delle mie ferite.
Una voce solida ma incerta, filtrata dalle stanze che ci separano, familiare e calda e accogliente.
Non rispondo.
− 'Tsumu, sei al bagno? -
Dovrei dire qualcosa?
No, no, non serve.
Non serve esplodere questa bolla, non ancora, un attimo, uno solo ancora, che...
− 'Tsumu cosa stai facendo? -
Cosa stai facendo?
Cosa... cosa sto facendo?
Mi sto abbandonando, Omi.
Vorrei rispondere questo, che mi sto perdendo e ritrovando, che mi sto beando del nulla del dolore che cancella la realtà.
Vorrei dirgli che mi sto lasciando andare.
Che sto...
La prima volta in cui questa parola si forma nella mia mente, tutto quello che riesco a provare è terrore.
Mi risveglio come da una trance impossibile.
Non mi era mai capitato di gioire così del mio dolore. Di tranquillizzarmi dopo un taglio sì, di godermi l'inutilità della violenza dei miei gesti pure, ma mai, mai di pensare che fosse bello, così bello...
Distruggermi.
Trasformarmi in polvere.
Mo...
Morire.
Panico.
Panico cieco, panico puro, quando mi rendo conto di essere su un letto di sangue dentro la vasca da bagno.
Non ho il cervello reattivo per capire che non è successo niente, che basta pigiarmi quattro garze spesse sugli arti per fermare tutto, no, mi sembra solo di morire.
E la cosa mi...
Mi spaventa terribilmente.
− 'Tsumu, cazzo, 'Tsumu rispondimi! Ti prego! - ripete ancora la voce, ma è solo un'eco distante del mio terrore.
Sto perdendo sangue.
Un lago, di sangue.
No, no, smetti di sgorgare, torna dentro.
Lo prendo con le mani e lo trascino dentro di me una volta ancora, come potessi rimettermelo nelle vene, come potessi cancellare tutto.
Cazzo, ho le mani scivolose, rosse, puzzano, tutto puzza, la mia pelle nuda fa attrito conto la vasca, tento di respirare ma l'acqua non me lo permette, non riesco, cazzo, non riesco...
Oh, no.
Atsumu, idiota di un Atsumu, che cazzo stai facendo?
Come sei conciato.
Quante... quante ferite.
Quanti tagli senza dimora sulla tua pelle.
Come puoi sopravvivere a tutto questo sangue?
Mi scosto i capelli dalla faccia, ma il riflesso del mio viso sulla manopola della vasca mi dà un'immagine di me stesso troppo chiara perché la ignori.
Ditate di sangue.
Sul mio viso.
Sangue dappertutto.
− 'Tsumu, esci da questo cazzo di bagno. -
Rispondo con un filo di voce che non può sentire.
− Portami fuori. -
Silenzio.
Sta cercando di capire se gli ho chiesto qualcosa, se la mia voce c'era per davvero, che parole il mio inconscio abbia labilmente espresso.
− 'Tsumu? -
Passi.
Sakusa si sta...
Perché?
No, Omi, non farlo, non voglio vedertelo fare ancora, non voglio vederti guardarmi e vomitare lo schifo che provi di me, non voglio farmi vedere così, lontano, stammi lontano, vattene, vattene...
− 'Tsumu che è questo odore? -
Già, Sakusa, dimmelo tu.
Egoismo, che si accende in me, per un solo istante, un solo bruciante attimo di me stesso.
L'odore di te che vomiti mi insegue da giorni.
L'odore di me che cerco di sparire, invece, come ti farà sentire?
Ma che cazzo stai dicendo, Atsumu?
Lo farai stare solo peggio, così. Non ci hai pensato? Che magari questa messinscena alla ricerca di attenzioni fosse solo un modo meschino per costringerlo ad avvicinarsi.
Inutile, stronzo, stupido Atsumu.
− Vattene. - dico, e questa volta, con la voce ferma.
− Cosa sta succe... −
− Vattene, Omi. Vai via. - ripeto.
Sto piangendo?
No, forse è l'acqua della doccia.
Fa freddo, un freddo cane. Perché ho messo l'acqua gelida, mi sembra di immergermi intero in un merdosissimo igloo, cazzo.
Cerco di portarmi sulle ginocchia ma le cosce bruciano come il diavolo, quando i muscoli si flettono, mi giro a guardarle cercando disperatamente di capire il perché ma...
Sangue?
Sangue.
Litri di sangue.
Impronte digitali sulle pareti della vasca, sulle mie gambe, scolano con il getto dell'acqua.
Non mi alzo a scaldare l'acqua.
Rimango con gli occhi sgranati, come se lo stessi vedendo per la prima volta, come se non me ne fossi neppure consciamente reso conto fino a questo momento.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette... ma quanti cazzo sono?
Lunghissimi, poco profondi come enormi tagli della carta fra l'incavo delle dita, lembi chiari di pelle gonfia e aperta, sangue che sgorga in gocce alterne dalla forma frastagliata dei graffi.
− 'Tsumu se non esci immediatamente giuro che... −
Cosa giuri, Omi?
Giuri che verrai a salvarmi?
Che spalancherai questa porta con un calcio e mi dirai che va tutto bene?
Hai paura, di farlo, lo sappiamo entrambi.
Non lo farai.
Non verrai a tirarmi su nei pezzi marci della persona che non sono più.
Tu mi abbandonerai, come la vita, come l'amore, come la pallavolo e come la sanità mentale, come il rispetto per me stesso nudo in una vasca piena del mio sangue, come tutto in questo mondo che continua a ripudiarmi.
− Omi... −
Le sorprese, non mi piacciono.
Mi piace avere la situazione sotto controllo sempre, darle un senso che conosco e dominarla col potere del pensiero premeditato, non amo essere gettato in pasto ad un futuro incerto.
Tutto è incerto, nella mia vita, ora, ed eppure esiste una fragile impalcatura di sicurezza in questo marasma deprimente che è la mia vita.
Pochi semplici assiomi di un'esistenza rovinosa.
Tu ti laureerai.
Tu troverai lavoro.
Sakusa non vuole toccarti.
Tu ti fai male per cercare di esorcizzare il male del mondo.
Nessuno ti salva, dalla vita vera, nessuno come nei film che entri a portarti a mo' di principessa fuori dalle fiamme, nessuno.
La cattiveria nuda di questa vita, non chiude un occhio.
Nulla ha il diritto di andare per il verso giusto solo perché lo vuoi tanto, Atsumu-idiota-Miya.
Il mondo ha un verso preciso.
No?
No.
Il mondo è uno schifo.
Ma brilla, in certi istanti, brilla di speranza e sacrificio, brilla di amore e amicizia, piccole faville di gioia nuda nelle sensazioni disarmanti che non credevi avessi il merito di provare.
Quando Sakusa apre la porta, quando lo vedo e lui mi vede, brilla.
Magari è il sangue che ho perso, forse la birra che ho tristemente bevuto da solo a cena.
Ma luccica, luccica di speranza.
− Oh, Cristo, 'Tsumu, ma che cosa ti sei fatto, Dio... −
Perdo gli assiomi.
Perdo la certezza.
Perdo... tutto.
− Non è successo niente, 'Tsumu, niente. Ora ti prendo la garza e vedi che starai subito meglio, non ti preoccupare, ci sono... −
Non si avvicina, ma lo vedo che vaga verso i mobiletti del bagno.
Il mio bagno.
Le sue mani non tremano, non ha conati.
− Omi... − lo chiamo ancora.
− Ssh, 'Tsumu, va tutto bene. -
− Omi, mi fanno male. - mi lagno.
Certo che ti fanno male, idiota.
Cosa pensavi?
Che tagliarti gambe e braccia come fossi una bambola di pezza sarebbe stato piacevole?
− Arrivo, arrivo, tu esci dalla... Cristo. -
Esco dalla vasca.
Ma quando mi alzo, quando mi alzo il sangue cola verso il basso.
L'immagine chiara di un peccatore. Di un accidioso nella selva giù nel settimo cerchio, un albero che sanguina e lamenta dolore che si fa da solo.
Un morto che cammina.
Gambe e braccia attaccate ad un torso che si muove per miracolo.
Mi cede un ginocchio.
Sto per cadere, battere la testa in basso, lasciarmi andare di nuovo al dolore fisico che conosco e amo così tanto, ma poi, Sakusa mi tocca.
Mi tiene su.
Scatta in avanti coi riflessi di un atleta e mi prende per la vita, mi regge, mi spreme contro di sé.
È tutto braccia attorno al mio petto, mani fra i capelli, sussurri dolci.
− Ora ci penso io, ci penso io, 'Tsumu. -
Ci pensa...
Lui?
− Non c'è niente che non vada in te. Sono io che non m'incastro con questa vita, non tu. Non gettarla via, ti imploro, senza di te sono completamente perso, 'Tsumu. -
La dolcezza è un gesto che non mi aspettavo.
Mi aspettavo la paura, la stessa cieca che ha investito anche me, un po' di macabra repulsione, qualcos'altro ma di certo non... questo.
Non un abbraccio solido vestiti contro sangue.
− Su, vieni fuori, siediti sul lavandino. - mi invita.
Nell'inconsapevolezza completa, obbedisco persino.
Muovo qualche passo in avanti, esco dal bordo e mi muovo con lui, passo dopo passo, finché la mia pelle nuda non striscia su marmo scuro e sono inerpicato sul piano del bagno, come un bambino piccolo che aspetta lo sciroppo da una madre che si prende cura di lui.
Si prende cura di me.
Siamo rotti, divisi, disfunzionali e assenti, in una dimensione che non ci appartiene.
Ma guardateci, combattere distrutti.
Goderci l'unica cosa che abbiamo.
Non ci ha riservato nient'altro, questa vita da nomadi in un destino che ci rifiuta.
Ma basta, no?
Basta, basta per me, basta per offrire le braccia sfregiate agli occhi intimi di qualcuno che ha paura, basta per continuare, basta per resistere.
No, non voglio morire.
Non voglio più abbandonarmi, né scomparire come polvere.
Voglio continuare a soffrire.
Perché se l'alto lato di questa medaglia distrutta da martellate incessanti è questo, Sakusa che mi guarda con l'amore più puro negli occhi, allora ne vale la pena.
Il sangue non ha smesso di uscire, ma non ne provo più nessun timore, nemmeno l'attenzione grottesca di prima.
Solo...
Calore nel mio petto sfatto.
Li apro, cosce e polsi, li apro e li offro allo sguardo tenero.
Sakusa prende la garza da sotto il lavandino, le forbicine da unghie che son tutto quello che al momento possiamo usare, e con grazia delicata inizia a sfogliare la trama bianca e appiccicosa del rotolo fra le sue mani.
Quando appoggia il primo lembo diretto sul mio braccio, storco il naso.
− Male? -
Scuoto la testa.
− Normale. -
− Oh, ok. -
Intreccia le dita con le mie, arrotola piano la garza candida che si tinge immediatamente del rosso spento del sangue vivo.
− Niente di tutto questo è normale, a dirla tutta. - borbotta poi, fra sé e sé, con la voce sottile.
Alzo un sopracciglio.
− Niente, è normale. Non è normale che tu stia così, Atsumu, forse se... −
Se cosa?
Se avessi preso scelte diverse?
Se avessi sacrificato altro?
Se ora...
− Se ora non stessi con te? - dico ad alta voce.
Scuote la testa.
− Pensarci mi terrorizza, ma è vero. Forse staresti bene, se non stessi con me. -
Una frase come un'incudine.
− Non dirlo nemmeno per scherzo. -
Inspira ed espira pacatamente, passa un secondo giro di garza e la taglia, attaccandola con la sua forma appiccicosa al mio braccio.
Prende l'altro fra le mani.
− No? - mormora.
− No. Se non ci fossi tu non sarei qui ora. - confesso.
Ed è vero, Dio, quanto è vero.
Che mi fai soffrire, tenero grosso Sakusa Kiyoomi, mi distruggi con la crudezza delle cose che non vedo, ma mi fai anche sentire tremendamente completo, e a posto.
− Se non ci fossi tu non apparterrei a niente. - dico ancora.
Sbuffa scherzosamente.
− Come se non ci fossero fila di persone migliori di me a volerti. Magari qualcuno che ti ama per davvero, che non ti costringe a fare questa vita. -
Tremo di paura, ma alzo lo stesso una mano sulla sua guancia.
Percorro uno zigomo affilato con il pollice, aspetto che rivolga gli occhi ai miei.
− Questa vita è uno schifo, Omi, ma è anche perfetta. Non ne vorrei un'altra, non una dove devo perdere te per avere qualcos'altro. -
Si addolcisce, il suo sguardo.
Diventa morbido e vellutato su di me.
− Ma se... se sei felice perché ti fai... questo? -
Silenzio.
Taglia la seconda garza, mi aiuta ad allungarmi sul bancone, inizia una coscia.
− La felicità non è una cosa che hai sempre, Omi. - rispondo.
− In che senso? -
− Fammi finire, stronzo. -
Ridacchia, piano e di un rumore che amo, che mi fa battere il cuore all'impazzata nel petto.
− La felicità sono pochi secondi in una montagna di giorni, sono momenti in mesi, sono cose piccolissime. Il resto del tempo lo passo a resistere. -
Annuisce, ma non risponde.
− Se non resistessi per averla, quella felicità, non sarei me stesso. So che sembra da pazzi, Omi, ma quegli istanti valgono più di queste ferite del cazzo. -
Inaspettatamente, quando taglia la terza garza mi bacia in mezzo alla coscia, con tranquillità.
Passa all'ultima.
− Sei davvero romantico, 'Tsumu. -
Alzo le spalle.
− Mi tiri fuori un lato nascosto. -
Lavora in silenzio.
Avvolge il tessuto chiaro in silenzio, lo taglia, prende un asciugamano pulito e lo bagna per togliere il sangue colato sul resto del mio corpo, mi sciacqua il viso, pulisce la vasca.
Vedo che tremano, le sue mani.
Vedo che più sente che sono al sicuro, più l'allarme si affievolisce in favore della misofobia, ed eppure non dice, non fa null'altro.
Lo osservo con amore.
Non lo vedevo così vicino da tempo, da giorni, non potevo starci, assieme alla mia scelta, da troppo tempo.
Vorrei che ci fosse sempre, per me.
Vorrei che non fosse sporadico istante di un attimo, ma una costante.
Vorrei che fossimo tanto meno complicati, tanto più lineari, non questo intricato intruglio di fili di seta che si sorreggono l'un l'altro ma uno stabile ammasso di rocce che non trema al vento.
E quello che vorrei, però, non ce l'ho.
Ma quello che ho lo amo, e lo amo con così tanto spirito che quasi non mi serve altro.
Sakusa finisce con un tremito, poi si avvicina a me un'altra volta e si sfila la maglietta.
Me la porge.
− La vuoi? -
Faccio sì con la testa.
− Alza le braccia. -
− Agli ordini. -
Sottile, il tessuto, fa uno strano effetto contro le garze, ma me lo lascio scivolare addosso.
Sorrido persino, a lavoro finito.
Profuma.
Profuma di Sakusa, di casa, di... di felicità.
− E ora? - chiedo.
− E ora cosa? -
Non lo so nemmeno io.
− E ora che facciamo? Andiamo... a dormire? Non ho preso la coperta del divano, ora vado a... −
Mi trascina giù dal bancone con calma.
− Dormi con me. -
− Con te? -
Un passo alla volta fuori dal bagno, l'odore di sangue che svanisce, il dolore che è solo un sordo ricordo premuto sulle garze messe ad arte.
− Con me. -
Con...
Può?
Ce la farà?
Mi odierà ancora, domani mattina?
− Solo se non... −
− Non lo farò, 'Tsumu. Non mi vedrai vomitare mai più. -
Promesse di carta in un incendio, le sue, lo so. Ma ci tengo, mi ci aggrappo egoisticamente.
− Sicuro? -
− Sicurissimo. -
Entrare in camera è come mettere piede in un santuario.
Non lo studio, questo ammasso di mobili che ho scelto da un catalogo online annoiato sotto il sole del mare un giorno come un altro, lo conosco.
Ma scalo il letto con circospezione.
− Dove mi metto? -
− Dalla tua parte. - risponde Omi.
Fa il giro anche lui, si arrampica anche lui.
Stesi, siamo uno di fronte all'altro.
Un'immagine distrutta di una coppia innamorata, credo.
Non mi avvicino, non mi permetto.
Omi prende fiato, mi guarda.
− Puoi non toccarmi mentre dormiamo? - chiede.
− Come vuoi. -
Abbassa lo sguardo.
− Siamo un disastro. -
Alzo una spalla.
− Parla per te, io sono favoloso. Una mummia, ma favoloso. -
Ride.
− Sei un cretino. -
− Anche, anche. -
Pozze scure, le sue, profonde e misteriose, nere e buie.
Smette di ridere all'improvviso, mi guarda come cercasse qualcosa nel mio viso, poi vedo un suo braccio allungarsi.
− Dammi la mano. - ordina.
− Ma... −
− Solo la mano. Non è niente, la mano. Se mi sento male la mollo. -
Ancora una volta, ci casco perché sono innamorato, ma so che non dovrei. Ed eppure la tendo, e mi salta un battito nel petto quando le nostre dita si incastrano e Sakusa sorride.
Calore di un corpo che ho e che amo, che è lontano ma c'è.
− Sei l'unica cosa che non posso permettermi di perdere. - mi sento dire poi, di punto in bianco.
Spalanco gli occhi.
− Che co... −
− Non posso dirti di non tagliarti o di non farti del male, non mi riguarda. Ma non costringermi a perderti, ti prego. Sei la cosa più importante, per me, non voglio che tu te ne vada. -
Mi sento le lacrime agli occhi, ma non piango.
− So che è difficile, che io, sono difficile. Accetterei di essere lasciato, di vederti fare qualsiasi cosa, 'Tsumu, ma non sparire nel nulla. Non posso proteggerti come vorrei, ma quel che riesco non ho intenzione di mollarlo per niente al mondo. -
Stringe le dita contro la mia mano.
Guardaci ora, invece, vita.
Guardaci fotterti, schifosa lurida stronza.
Guardaci devastati a superare i limiti che ci hai fissato.
Anche se sono due mani incastrate in mezzo ad un letto per due, anche se sono due innamorati a distanza di un metro inseparabile, anche se sono due poveri illusi.
Guardaci vincere, una volta ancora.
Guardaci mandarti via.
− Anche io ti amo, Omi. - rispondo.
Sorride, Sakusa, sorride per un solo istante.
− Sei la cosa più preziosa che ho. Non avere mai paura di essere come sei, di dirmi se le cose ti stanno strette, voglio esserci, come posso. Non sacrificare tutto per me, vivi per te stesso, 'Tsumu, che ti garantisco che la tua felicità provoca la mia. -
Anch'io increspo le labbra, e le palpebre iniziano ad appesantirsi.
− Non scappare anche se fa male, non andare via. - continua.
Lascio andare le dita stanche fra le sue.
− Non pensare mai di meritartelo. L'unica cosa che meriti è tutta la felicità di questo mondo, e se in questa non succederà allora troveremo una quadra per la prossima, di vita. -
Mi abbandono.
Ma non al dolore né all'astio, ma alla dolcezza, al sonno.
− Ti amo da morire, 'Tsumu. - mi sento poi dire dall'ultima parola della notte, mentre navigo verso il sonno.
− Arriverà il momento in cui saremo felici. -
Già.
Arriverà?
Forse è già arrivato.
Sfumerà come un filo di fumo, scomparirà nel nulla grigio del terrore.
Ma eccolo, il mio frammento.
Stretto fra le mie dita.
− Ora dormi. - sussurra alla fine.
Dormo, Sakusa, dormo.
Dormo con le mani infilate fra le tue, in pace nel dolore, in una flebile linea di paura.
Dormo e amo.
Dormo e respiro.
Dormo.
E un po', laggiù fra le smussature collinose in uno stato che mi raggiunge, proprio là, alla fine dormo sul serio.
Dormo.
Dormo e sopravvivo.
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➭ ✧❁ il titolo del capitolo si riferisce a questa farfalla, detta "morfo blu" o col nome scientifico "morpho menelaus", della famiglia delle nymphalidae, che vive nell'america centro-meridionale
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