𝗵𝗲𝗹𝗶𝗰𝗼𝗻𝗶𝘂𝘀 𝗰𝗵𝗮𝗿𝗶𝘁𝗼𝗻𝗶𝗮
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
Tutto tace, vicino a me.
I rumori sono pochi, sporadici, minuti.
Sento l'arbitro fischiare.
Indietreggio contando i passi.
Respiro, fuori e dentro.
Il sudore m'imperla la fronte.
Mi giro.
Alzo il braccio in aria, chiudo il pugno al lato della mia testa e quel che rimaneva del suono delle persone nel palazzetto diventa null'altro che una manciata di polvere e silenzio.
Mi preparo.
I miei muscoli stanno per scattare.
Mi sento vivo.
Ho ventisei anni, ora.
Ho ventisei anni.
Ne sono passati cinque.
Da quando...
Non tremo più all'idea di dirlo, non più. Non ho più paura, non ho più fragilità o rancore.
Ho tanta, tanta nostalgia.
Sono passati tanti giorni da quando, nel marzo di cinque anni fa, Sakusa si è tolto la vita.
Non so come raccontare la mia storia, dopo di lui, non so se abbia neppure un senso. Non ricordo niente di quei giorni, non ricordo niente se non la sua voce, per tre, quattro mesi dopo che era successo.
Non so se sia stato il mio cervello, il mio cuore o cosa, ma sembra tutto confuso.
So che ho sofferto tanto.
So che ho tentato di raggiungerlo, una volta, una sola, in cui mi sembrava di non avere la terra sotto i piedi ma aguzze rocce acuminate che mi pungolavano in ogni parte.
So che mentre ero là, a sanguinare con una lametta infilata nel braccio, mi sono pentito di averci provato. Ho chiamato aiuto con poche forze e mi sono fatto salvare.
Perché la vita io la amo, da quel marzo di cinque anni fa.
Sono in terapia, psicologica e psichiatrica.
Ho vissuto due anni a casa di Osamu, da quel giorno. Ho passato così tante notti a piangere forte, troppo forte, a chiamare il nome di qualcuno che non c'era più.
Ho dormito tra mio fratello e Suna più di una volta, stretto fra loro che mi abbracciavano e mi dicevano che mi volevano bene.
Ero arrivato al punto di ripudiarli, cinque anni fa. Al punto di odiarli.
Ma la mia famiglia, è quello che ora mi tiene saldo alla vita.
Quella, la piccola Kiyoko, la figlia adottiva di 'Samu, e il ricordo dolce di qualcuno che ho amato e non smetterò mai di amare.
Kiyoko non è Sakusa, non è la sua reincarnazione, era già nata quando lui è scomparso, ha sei anni. Ma il suo nome e i suoi capelli neri, fitti e folti, mi ricordano lui.
Ho imparato una nuova forma d'amore, in questi cinque anni.
Ho imparato l'amore fraterno, l'amore di un cognato, l'amore di una nipote.
Ho imparato l'amore della famiglia.
E mi ha scaldato il cuore.
Ho preso il cognome di Sakusa. Non è legale, il matrimonio gay, in Giappone, ma ho cambiato il mio cognome.
Ora sono Sakusa Atsumu.
Volevamo sposarci.
L'ho fatto per come potevo, immagino.
All'inizio ho fatto un sacco di cose stupide.
Quando se n'era appena andato, quando la sua vita era appena volata lontano, distante, non sapevo dove sbattere la testa.
Ho preso una quantità di psicofarmaci di cui mi vergogno.
Lo sognavo, se li prendevo.
Mi addormentavo con strane allucinazioni, ma c'era lui.
C'era Kiyoomi, col suo sorriso e le sue mani, e non temeva di toccarmi, non era morto, era vivo e felice e ci amavamo.
Ma ho deciso di non raccontarmi più bugie, poi, un giorno.
Omi era morto.
Era morto e basta.
E che sollievo mi poteva dare, vederlo in sogno quando poi mi svegliavo madido di sudore e lui non esisteva più?
Ho seguito il suo consiglio appena sono stato in grado di farlo.
Ero mio, ormai, ero mio e basta. Ero mia responsabilità e dovevo amarmi, ero obbligato, convinto, me l'ero promesso.
Ci ho provato.
Non è stato per nulla facile, tutt'ora non saprei ben dire se provi propriamente amore, nei confronti di me stesso, o solo un'equilibrata sopportazione, ma non sono più un ragazzino che odia il mondo.
Ho lasciato l'università.
'Fanculo la microeconomia.
Ho ricominciato a giocare.
La cosa più difficile è stata accettare che per essere un buon giocatore dovessi mangiare e col cibo il mio rapporto era difficile, difficilissimo, ma dovevo amarmi, dovevo vivere, dovevo essere felice.
Ero debole, quando Sakusa è morto.
Ero un mucchietto d'ossa timide e macilente.
Ricordo con chiarezza, fra il marasma di immagini sfocate di quel che accadeva, la prima volta che mi sono guardato allo specchio.
Chi era, quell'immagine allo specchio?
Braccia martoriate, ombre sotto gli occhi, ossa ovunque sporgenti.
Ero ridotto male.
Depressione, sindrome post-traumatica, anoressia.
Questo ero, quando Omi è morto.
Ero un bel fardello di niente.
Visito un centro psichiatrico due volte alla settimana, dove facciamo terapia di gruppo. Ci sono tante persone, genitori che hanno perso i figli, ragazzi che hanno perso fratelli, amanti che hanno perso il compagno.
Ci sono tante persone diverse e in quel luogo, che tanto mi spaventava, ho imparato che non sono solo. Che non sono l'unico.
Che siamo tanti, noi sopravvissuti alla bellezza delle farfalle.
Che possiamo andare avanti.
Che possiamo lavorarci su.
Non ha mai smesso di fare male, questa voragine nel mio petto. Non ha mai smesso di mangiare l'aria che mi circonda.
Ora però ci convivo.
Ora so il suo nome, e l'amo e la rispetto.
Sono tornato a vivere a casa mia e di Omi dopo tanto, tanto tempo ed è stato difficile, così difficile. Ma non volevo essere in nessun altro posto, nessuno.
Ho ripercorso i miei ricordi come tracce di un'indagine, nelle stanze che ricordavo bene.
Il bagno, la vasca.
La cucina, l'ingresso.
Il letto.
Ho rivisto l'immagine che mi ha devastato, su quel letto. Ho rivisto Kiyoomi bello, bello e morto, steso sulle lenzuola.
Mi hanno detto che non ho fatto altro che piangere sul suo corpo per quasi due ore, quel giorno di marzo di cinque anni fa. Che ho chiamato 'Samu, poi, non la polizia, dicendogli qualche parola trascinata su come ora fossi solo e su quanto fossero belle le farfalle.
'Samu è stato fondamentale, per me.
Ero io, a respingerlo, mi sono accorto, non lui ad essere uno strafottente perfettino.
Lui era così preoccupato per me.
Lui mi ha ospitato e mi ha voluto bene.
Suna con lui.
Ho appese in casa un sacco di foto del liceo, dove Sakusa appare col suo broncio caratteristico vicino a me, e qualche scatto nascosto a qualche occasione un po' più aperta.
Quando mia nipote, la piccola, dolce Kiyoko è venuta da me, qualche settimana fa, mi ha chiesto chi fosse l'uomo che guardavo sempre con gli "occhi tristi".
Le ho risposto che era qualcuno che amavo e che purtroppo non c'era più.
Mi ha detto che era bello.
E ho annuito con lei.
Non mi taglio da due mesi e tredici giorni. Ho fatto periodi di astinenza più lunghi, ma ogni tanto ci ricado.
Non mi odio quando ci ricado.
Mi accetto, mi sento fiero per essere riuscito ad andare avanti così a lungo, mi voglio un po' bene.
Quando ho recuperato la mia forza, un po' di allenamento, qualche forma o parvenza di energia, la mia carriera da pallavolista è esplosa. Devo davvero averci un talento speciale, per questa cosa, credo. Devo essere davvero bravo.
Sono passati cinque anni da quando non ero nessuno ed ora eccomi, pronto a servire ai mondiali di pallavolo, il piccino del Karasuno che scorrazza qua a fianco e il suo ragazzo imbronciato offeso perché hanno scelto me per servire e non lui.
Non sono ancora titolare, Kageyama continua ad esserlo al posto mio, ma direi che la panchina della nazionale è più che un grande risultato, per uno che cinque anni fa moriva dentro e fingeva di voler fare l'economista.
I ricordi non mi fanno più male.
Mi piacciono.
La sera mi addormento da solo, ma mi lascio sempre un po' andare, nei ricordi. Mi lascio annegare nel mare di quelle sensazioni e le cerco e distinguo una per una, mi danno pace.
Mi manca, Omi.
Mi manca tanto.
Ma dentro di me so che non è andato via.
Non credo negli eventi paranormali, ma credo fermamente nell'amore, e qualcuno che si marchia a fuoco dentro di te, non può scomparire.
C'è una parte di te che è nata da lui.
E quella parte non te la toglierà nessuno.
Mangio in modo regolare. Sto sempre attento agli apporti calorici e non sempre mi sembra di aver fame, ma lo faccio.
La domenica vado a pranzo da 'Samu e mi fa in pancakes.
Buonissimi, deliziosi, spaziali.
Non l'ultima cena con Omi, ma buoni lo stesso.
Ho iniziato a leggere.
Non immaginavo fosse così divertente, così coinvolgente.
Mi sono ritrovato per caso a scartabellare fra i vecchi volumi impolverati di Kiyoomi e uno, con un titolo strano scritto in una lingua ancora più strana, mi sembrava carino e l'ho letto.
Era un discorso di Platone, ho scoperto dopo, e la lingua strana era il greco. Non che sappia il greco, sia mai, c'era la traduzione a fronte.
Parlava della morte di Socrate, di come la cicuta l'avesse fatto sentire morto a partire dai piedi, dalle gambe, per poi abbracciarlo in una morsa gelida e portarlo via.
Socrate aveva passato gli ultimi momenti a fare quello che amava, discutere con i suoi discepoli, e non voleva che fossero tristi alla sua scomparsa, perché non c'era nulla di terrorizzante, nella morte.
Da Platone poi, le altre cose sono venute quasi naturali, spontanee, e ho letto tanto, così tanto.
C'è una copia di Fahrenheit 451 di Bradbury con le note di Omi scritte sopra, come lo stesse studiando, e quel romanzo lo tengo sul comodino, sotto il cuscino quando sto peggio, fra le mani prima di una partita importante.
Mi piace vagare nei mondi fittizi che racconta la letteratura.
Mi sembra di scappare, ogni tanto. Sono contento di poterlo fare.
Porto una collana d'argento, al collo, con una piccola, piccola farfalla come ciondolo, vicino al cuore. Non la tolgo mai.
Non me l'ha regalata Omi, non sapeva quanto io credessi somigliasse a quell'animale così effimero, l'ho trovata una volta ad un mercatino vintage e ho deciso che la volevo.
È il mio pegno.
Il mio portafortuna.
Il mio ricordo.
Ho ventisei anni, ora, e sono Sakusa Atsumu. Sulla mia maglietta da giocatore c'è scritto Sakusa.
Ho ventisei anni e sono in riabilitazione psichiatrica, perché sto cercando di farmi del bene.
Ho ventisei anni e ho una famiglia che mi ama moltissimo.
Ho ventisei anni e sono un pallavolista di successo.
Ho ventisei anni e sono innamorato, ora come allora, di un ragazzo bello, imbronciato e taciturno, che sembra avere ali di seta e profuma di vita.
Ho ventisei anni e mi preparo per servire.
Siamo trentadue a trentuno per noi.
Siamo stremati.
Non mi aspettavo di giocare, ma il coach ha un debole per il mio servizio e per il mio modo di alzare e mi fa giocare se non quanto Kageyama comunque un buon set intero, mentre il principino riprende aria e si rimette in sesto, che è tantissimo per uno come me.
Mi sta dicendo di fare punto, ora.
Mi sta dicendo di fare ace.
Tutto tace, attorno a me.
L'arbitro ha fischiato, sono indietreggiato, fronteggio l'altissimo muro del Brasile che mi guarda come volesse distruggermi.
Un punto e avete vinto la partita.
Un punto e siete la miglior squadra di pallavolo nel mondo.
Un punto e avrai quel che vuoi.
Prendo la mia catenina con la mano, la stringo, bacio il pugno chiuso e guardo in alto.
Guardami, Omi, se ci sei. Guardami, perché se mi guardi sono forte, fortissimo.
Le mie gambe scattano da sole, il mio corpo, si libra in aria, la palla sale e scende sulla mia mano, in una frazione di secondo mi sembra di fluttuare, qui.
Sono a mezz'aria.
Guardami, Omi.
Il palmo si schianta sulla superficie sferica.
Tutto sembra rallentato.
La palla schizza in una traiettoria perfetta, s'incurva ma torna indietro, veloce, così veloce che sono l'unico convinto a poterla vedere.
Passa.
Batte a terra.
E un esatto, minuscolo quarto della palla, si schianta contro la linea di campo.
Il guardalinee alza la bandierina verso di noi.
Ed è in questo momento, che cado a terra.
Mi sbattono le ginocchia sull'ardesia, altre lacrime mi scendono in volto e non sento le urla, non sento la gioia, non mi accorgo dei miei compagni che mi corrono addosso.
Piango in ginocchio.
Piango come un bambino.
La strada è lunga, è in salita, la felicità non è facile e mai lo sarà.
Sento 'Samu, Suna, Kiyoko urlare dagli spalti, riconosco la loro voce.
Non sono ancora perfetto, non sono ancora sano, non sono guarito.
I tifosi urlano, il Giappone ha vinto i mondiali, con il mio ace.
Mi manca tanto, da fare.
Ma ti ringrazio, Sakusa Kiyoomi, in questo istante, mentre piango per terra.
Ti ringrazio.
Perché tu, mi hai salvato la vita.
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
➭ ✧❁ il titolo del capitolo si riferisce a questa farfalla, detta "zebra long-wing" o col nome scientifico "heliconius charithonia", della famiglia delle nymphalidae, che vive nell'america del sud
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top