𝗴𝗿𝗲𝘁𝗮 𝗼𝘁𝗼
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Mi capita spesso di chiedermi cosa sia "casa", di questi tempi.
Mi capita quando mi risveglio distrutto dal mio sonno di finzione, di chiedermelo, quando rimango a far finta che nulla succeda nel tepore del sole freddo che invade le finestre.
Mentre ignoro quel che succede davvero, fermo immobile nel mio annichilimento notturno, distante e distaccato, ogni tanto mi domando che cosa sia "casa".
Da ragazzino avrei detto la mia mamma, o mio fratello.
Ora, ora non credo di saperlo più.
Ho sempre dato al valore domestico una sensazione di calore e accoglienza che non so dove cercare. Mi sono sempre detto, nei momenti difficili, che anch'io potevo esserlo, una "casa", intendo, ma questa sensazione ora non è altro che un ricordo sarcastico.
Calore?
Non so quale calore ci sia fuori.
Non ho la benché minima idea di cosa potrebbe farmi sentire a mio agio all'esterno di me stesso.
Ma all'interno?
All'interno non scherziamo, c'è ben peggio.
C'è tanto, troppo, ci sono cose che mi divorano, cose che mi spaventano, cose che mi fanno tremare ogni angolo del corpo come volessi soltanto fuggire e rendermi inutile e invisibile, cose orribili.
Ma se ho paura di me stesso e paura dell'esterno, allora, la mia "casa", dov'è?
C'è Omi.
Lui, forse, lui è la mia "casa".
Ma una casa ti abbraccia e ti fa sentire amato, non ti scaccia via spaventata, e Omi, su questo, lo penso e dico col cuore che sembra fatto di freddo granito, non può aiutarmi.
Chi sono?
Dove sono?
Mi sembra di vagare in una di quelle case degli specchi che trasferivano nella prefettura quelle carovane circensi. Quegli edifici di cartapesta pieni di lamine argentee che ti deformano e ti fanno sembrare tanto diverso.
Cammino, cammino, cerco di guardare me stesso.
Ma intrappolato qui dentro, rinchiuso in questo mondo distorto, vedo di me solo riflessi rotti.
Come faccio a ricordarmi come sono, se tutto attorno a me mi dice che sono diverso?
Come faccio a non perdermi in corridoi intricati di immagini ridicole?
So che non è la realtà, quella che vedo, ma come sia non penso di ricordarlo.
Sono perso.
Mi sveglio, questo pomeriggio di marzo, che il tempo è meno crudele della scorsa settimana.
Niente ha un senso preciso, ormai, non so quando dormo, non so come. Mi capita di dormire di notte, di giorno, di non dormire o di farlo troppo.
Non ricordo quando sono andato a letto, non ricordo quel che ho sognato, non ne ho idea.
Il tempo è mite, non caldo, non freddo, solo un limbo di temperature morbide, sulla mia pelle. Riesco a stare sotto le coperte senza sudare, tirare fuori una caviglia non mi congela, direi che va piuttosto bene.
Mi giro e osservo il cuscino solitario a fianco al mio.
Omi ha un ciclo di sonno più regolare del mio, e seppur mi sembri di essermi addormentato con lui al mio fianco, so anche che si sveglia sempre prima di me.
Al bagno deve stare quanto vuole, per lavarsi o grattare via lo sporco che esiste sono nella sua mente dalla carnagione chiara, e se ci svegliassimo insieme dice gli spiacerebbe farmi aspettare.
Nell'altro bagno non vado più.
Dopo avermi visto coperto di sangue nella vasca non vuole che ci vada, me lo lascerebbe fare ma so lo tormenterebbe fino allo stremo, e preferisco non dargli anche questo a cui pensare.
Allungo un braccio verso il suo cuscino, appoggio la mano aperta sulla superficie morbida e, sperando egoisticamente che non mi veda farlo e non lavi il tessuto per rimuovermi da ciò che è suo, rimango fermo.
È strano, lo so, strano e stupido.
Ma qui ci ha dormito lui e vorrei che rimanesse impresso un grammo di me, su qualcosa che non trema all'idea di toccare.
La casa profuma di qualcosa che mi sembra strano, ora che me ne accorgo e che le sinapsi ricominciano a collegarsi l'un l'altra.
Profuma di...
Cibo?
Non è normale.
Omi mangia solo cibo confezionato che esamina come fosse uno scienziato alla ricerca del bosone di Higgs. Lo mangia solo se è certo che nessuno l'ha aperto, che le norme di sicurezza e igiene dell'azienda sono perfettamente rispettate, cibo che non va cucinato.
Io mangio quel che trovo.
Molte volte nemmeno lo faccio.
Mi ha pregato di mangiare, mi pare di ricordarmi, ieri mattina. Dice che si ricorda quel che faccio, che mi osserva, e che non mangiavo un pasto completo da due giorni.
Sono dimagrito, è vero.
Ma non saprei nemmeno dire come.
Non mi guardo allo specchio. Non alzo il capo quando mi lavo i denti, non lascio vagare il mio sguardo sul mio corpo nudo quando finisco di farmi la doccia.
Io che mi amavo, un tempo, ora ho paura persino della mia immagine riflessa. Ironico, no?
Non ho paura di vedermi brutto perché della bellezza ora ne faccio ben poco, ma ho paura di vedermi scomparso, emaciato, distrutto.
Ho paura di vedere quante cicatrici ci sono su di me.
Ho paura di vedere la mia pelle pallida che non sopporta il sole, le ombre sotto gli occhi, la carne che è tesa in corrispondenza delle ossa sempre più sporgenti.
Ed eppure oggi, oggi la casa profuma di cibo.
− Omi? – chiedo, ad alta voce, il sonno che gratta sulla mia gola.
Non risponde.
Rimango a letto.
Non ho molta forza in corpo. Kiyoomi dice che mangio troppo poco per averne, ma raccoglierne mi sembrerebbe un inutile spreco. Di fatto, cosa dovrei farne, dell'energia?
Sto a casa.
Seduto sul divano con la porta spalancata mentre guardo Kiyoomi leggere dall'altra parte della casa.
− Kiyoomi? – ripeto, un'altra volta, nuovamente senza risposta.
Non so se voglio alzarmi.
Provo a spostare le gambe sul lenzuolo, sono pesanti, ma reagiscono. Ci sono ancora, vecchie mie, non mi hanno abbandonato.
Le getto oltre la sponda del letto, prendo fiato e lentamente mi alzo. Se lo faccio di fretta mi gira la testa.
Aspetto con respiri profondi che il mio corpo sia pronto.
E poi mi tiro su e cammino lentamente fuori dalla stanza.
Il profumo si fa sempre più forte, più solido, e quasi mi dà la nausea. Non sono abituato ad odori così pronunciati, solo a tenui ricordi.
− Kiyoomi? – dico una terza volta.
Lo vedo che mi sembra di sognare.
Anzi, no. Sto sognando.
Non può essere vero.
Indossa solo un paio di pantaloni, non la maglietta, ed è in... cucina. Muove le mani fra le pentole, il cibo che spande ancora più odore, qui, e non trema, non piange, non scappa.
− 'Giorno. – mi risponde, col tono di voce mellifluo, affettuoso, prima di mollare la padella sul gas e girarsi.
Sorride.
Rimango pietrificato.
Le parole mi muoiono in gola.
Che cosa sta facendo? Perché? Avrà paura, fra poco, e si sentirà morire. Perché lo sta facendo? Cosa spera di ottenere? Sto davvero sognando? Mi sveglierò con la gola secca e le lacrime negli occhi, non è vero?
Kiyoomi muove un passo.
La mano che posa sulla mia spalla mi sembra essere incandescente.
Brucia come acciaio liquido colato sulla mia pelle.
E poi...
Omi mi bacia.
Mi bacia sulle labbra.
Mette le labbra sopra le mie, il rumore che è appena percettibile, sale con la mano sul mio viso e mi tiene fermo.
Inizio a tremare.
Tremo come una foglia, sconcertato, spaventato, terrorizzato. Tremo e non voglio che smetta, non voglio che smetta di toccarmi.
Anche se una parte di me altro non aspetta.
Che mi scosti, che mi mandi via.
Quando sento sicurezza, da parte sua, tutto dentro di me si sfalda e si crepa, diventa morbido e molle e non capisco più niente.
Circondo il suo collo con le braccia, lo spingo verso di me più forte.
Questo Omi non esiste, lo so, è solo un sogno. E allora che cosa c'è di male se ne approfitto, cosa di male se fingo una volta ancora con me stesso che questa sia la mia vera vita, mi chiedo.
Stringo più forte, apro le labbra cerco le sue e... rispondono.
Respira la mia stessa aria, a pochi centimetri da me, aria che sembra mancarmi.
Mi avvolge.
E penso di esserci, ora, a "casa".
Ci sono.
Sono a casa.
Mi stacco con le lacrime agli occhi. Guardo Kiyoomi, il mio Kiyoomi, quello che ha paura ma che è bello nonostante questa, quello che risplende e che vola nonostante sia fragile come cristallo, la mia...
Farfalla, Kiyoomi, tu sei una farfalla.
Tremi col vento del domani, e scomparirai.
Ma quanto sei bello mentre risplendi, quanto mentre voli, quanto mentre ti posi su di me che inerme non posso far altro che guardarti.
Cosa sarà di me quando il tempo ti porterà via?
Cosa avrò io nel cuore se non l'idea di averti visto una volta e mai più?
Sei una farfalla, Kiyoomi, la più bella, la più nera. Sei la più splendente nell'opacità della notte. Sei la prima che scomparirà, perché la prima a brillare così forte.
− Sto sognando, vero? – chiedo, all'immagine forte di fronte a me.
Passo le mani aperte sulle spalle, sul petto, imprimo nelle mie mani la forma di quel che non posso avere, ma che amo comunque.
Omi scuote la testa.
− Sveglio. –
− Non è vero, non mentirmi. –
Prende il mio mento fra le dita, lo alza per raggiungermi. La luce dietro di lui lo illumina in un'aureola tenue di colore.
− Sei sveglio, Atsumu. Siamo svegli. Siamo io e te, svegli. –
Mi cade una sola lacrima.
− E allora perché mi stai baciando, Omi? Perché non ti fa schifo? –
Appoggia le labbra sulle mie una volta ancora, più dolci, più soffici, più... sue.
− Perché non c'è niente in te che mi faccia schifo. –
Non è vero, vorrei urlargli. Non è vero.
Fingi.
Menti.
Bugiardo.
Ma le menzogne sono così negative? Sono così malvagie, in fondo? Se ti fanno stare meglio, che cosa c'è di male?
Passi così tanto tempo a soffrire, Atsumu, che se gioisci per qualcosa che non c'è, cambierà molto?
Non ami così tanto l'onestà da rifiutare quel che hai di fronte agli occhi. Ami Sakusa, e Sakusa ti ama, ora, ti ama come vorresti facesse sempre.
Non hai il cuore per dire di no.
E non vuoi farlo.
Lo bacio di nuovo. Lo bacio più forte una volta ancora, aspettando che sorrida contro le mie labbra e intrecci la lingua alla mia e mi faccia sentire il sapore che amo e che sento così raro.
Non ricordavo come si facesse.
Baciare, dico.
Non ricordavo.
Ma me lo ricordo ora, mi tornano in mente le cose che so, l'amore che provo e come posso dimostrarlo in modi che esulino dalle semplici parole nell'aria, e metto tutto in pratica, cerco di avere quanto più posso di Omi di fronte a me.
Ho fame.
Mangio così poco, ultimamente. Ho lo stomaco chiuso e il cibo mi disgusta, mi fa sentire sporco e fragile. Tendo a controllarlo perché è l'unica cosa che posso in effetti controllare, in una vita che va a rotoli.
Ma ora ho fame.
Una fame mai provata prima.
Una fame che lascio libera.
Mi sento toccare e tocco anch'io, bacio e respiro a malapena, assaggio, assaporo il gusto di quello che non dovrei sentire così poco, ma che in effetti, quasi dimenticavo.
E quando mi stacco, la fame non si è calmata.
È diventata una voragine.
E voglio che questa voragine, Omi la rimetta a posto.
− Mi mancavi così tanto, 'Tsumu. – mi sento dire.
Annuisco.
− Anche tu, Omi. Anche tu. –
Vuole dirmi qualcosa, parlare, probabilmente, ma non gli lascio il tempo di farlo. Mi connetto alle sue labbra una volta ancora, come fossero l'unica cosa che può calmare questo buco che sento aprirmisi fra le costole, giù nello spazio dello stomaco.
Ho fame, Omi. Ho fame. Ho fame di tutto quello che rende questa vita così bella, così umana, così piacevole.
Ho fame di cibo, ho fame d'amore, ho fame di felicità.
Ride piano, mentre mi bacia, mi tiene forte fra le dita come potessi cadere in un mucchietto di misere ossa a terra e sparire nel nulla.
Rido, quando riprendo aria, rido anch'io.
Rido così forte.
− Sei felice? – mi sento chiedere, mentre non riesco a fermarmi, non riesco a tenere a bada il torrente di risa che mi esce spontaneo dal corpo.
− Sono felice, Omi, così felice! –
Che strana cosa, credo.
Che creatura piccola e misera che sei, Atsumu Miya, che creatura fragile. Così sottile, così minuta che basta nulla per renderti così allegro.
Ma pensarci, Atsumu, pensaci per un solo istante.
Chi vola più in alto cade più rovinosamente.
E tu puoi permettertelo? Puoi? Puoi permetterti di schiantarti a terra quando tutto questo sarà null'altro che un timido ricordo?
Reggerai il colpo?
O finalmente dirai che ti basta?
Omi mi arruffa i capelli, sorride in un modo che cancella tutte le preoccupazioni, annuisce.
− Sono felice anch'io, 'Tsumu. –
Indietreggia in un passo verso le padelle che sfrigolano ma non gli permetto di allontanarsi, anzi, lo seguo come fossi la sua ombra, una mano aperta sul suo corpo.
− Dove vai? –
− Devo finire di cucinare o bruceremo la casa, idiota. –
Deve finire di cucinare, Tsumu. Molla. Molla la presa, mollala, fai quello che farebbe una persona normale in una coppia normale, molla quella ma...
'Fanculo le coppie normali, le persone normali.
Spiaccico la fronte sul punto in cui il collo di Omi si attacca alla sua schiena ampia, chiudo le braccia attorno al suo corpo e lo stringo forte, fortissimo.
'Fanculo quel che dovresti fare.
'Fanculo il dolore che ti aprirà il cuore dopo.
'Fanculo.
− Non voglio che tu ti allontani. – borbotto.
Omi ride, sento la sua spina dorsale tremare contro il mio petto.
− E allora rimanimi vicino. –
Profuma il cibo ma profuma più ancora la sua pelle.
Sa di candeggina.
Solo negli attacchi peggiori ne spande un po' sulla sua pelle. Immagino che gli sia servita prima per prepararsi a... questo. Immagino che la sensazione di essere toccato l'abbia gettato così tanto nel panico che era l'unica opzione.
Ma non m'importa neppure.
Egoisticamente, preferisco. Preferirei che la tua pelle cadesse in squame secche e poterti toccare, invece proteggerti da lontano, Sakusa. E so che non mi odierai quanto lo faccio io per questo.
− Cosa cucini? –
− Pancakes. –
Il braccio si flette mentre ne fa saltare uno sulla padella. Non vedo, ma lo sento schioccare la lingua.
− Mi è caduto sul gas. –
− Lo mangi tu. –
Sbuffa.
− Lo mangerò io. –
Mangerà? No, non credo. Ma lo dice come lo facesse, e basta.
− Cosa ci mettiamo sopra? –
− Ho trovato dei cioccolatini in casa e li ho sciolti. Quindi cioccolato, credo. Spero non fossero scaduti. –
Bacio la sua pelle.
− Andranno benissimo. –
Non avevamo niente di dolce, in casa, non l'abbiamo nemmeno ora. A che pro? A che pro comprare cibo che andrà sprecato? Marmellata, miele, cioccolato fresco. A che servono?
− Quanto ci vuole ancora? Ho fame. –
Una mano grande, grandissima contro il mio fianco che diventa sempre più piccolino, mi afferra.
− Hai fame? –
− Famissima. –
Saranno cinque minuti, sei, quelli che passiamo così vicini ad aspettare che si cuociano. Non diciamo altro, solo ci abituiamo una volta ancora al calore dei nostri corpi, alla presenza reciproca, persino all'odore del cibo.
Come fossimo due belve feroci che si studiano l'un l'altra.
Tranne che nessuno di noi due è feroce e più che a grossi felini somigliamo a cerbiatti incastrati in tagliole che non vogliono aprirsi e lasciarci scappare.
− Se mi passi il piatto li metto sopra. –
− Quale piatto? –
− Quello bianco. –
Allungo un braccio, mi metto sulla punta dei piedi, prendo la ceramica fra le mani e gliela passo.
Appoggia una pila di pancakes sbilenchi ma tutto sommato umani, per qualcuno che cucina poco quanto lui, in mezzo al piatto, ci lascia gocciolare il cioccolato fuso sopra.
− Mi spiace che siano solo pancakes. Non ricordavo come cucinare altre cose. –
Sorrido che un po' di melanconia c'è, nelle mie labbra, ma la dimentico subito dopo.
A malincuore mi stacco per sedermi a tavola, quando però Sakusa si siede al mio fianco non ci metto molto ad avvicinarmi per tenere quantomeno le nostre spalle a contatto.
Non mi scapperà così facilmente.
Dovrà cacciarmi, per farmi andar via.
− Tieni, mangia. –
Vedo che ha una forchetta, in mano, e che ha tagliato un pezzettino dalla pila e lo tiene verso di me.
Mi si bagnano quasi gli occhi, mentre mi avvicino, apro le labbra, prendo l'impasto soffice dalla posata e inizio a masticare.
Non sono buoni pancake. Non sono spumosi e morbidi come quelli di Osamu, non dolci, non si sciolgono in bocca.
Il cioccolato ha un retrogusto economico che ricorda la plastica.
Ma non ho mai mangiato nulla di così buono. Mai nulla, niente, davvero. Non m'interessano tutti gli stupidi dettagli tecnici, non m'interessa un cazzo di niente.
Li ha fatti Sakusa.
Li ha fatti per me.
E questa è la cosa migliore che io abbia mai, in tutta la mia vita, avuto il piacere di assaggiare.
− Non mangi? – chiedo, con la bocca piena.
Scuote la testa in silenzio, non faccio domande. So la risposta, la so bene, e non è quel che voglio sentire in questo momento.
Aspetto che m'imbocchi ancora, come due fidanzatini delle medie, e lo fa.
Sorride soddisfatto quando mi vede leccarmi le labbra, le bacia sporche di cioccolato e non ne sembra nemmeno così disgustato, mi accarezza la coscia mentre mangio.
− Se mangi così in fretta ti strozzi, 'Tsumu. –
− Sembri mia madre. –
Ben presto mi lascia la forchetta, mangio da solo.
Mi tiene fra le mani, però. Mi afferra come fossi fatto di carta velina, scorre le dita sul mio corpo, cerca la pelle e mi osserva mentre mangio come fossi qualcosa di meraviglioso.
− Hai fatto... mh... hai fatto tutto questo per farmi mangiare? – chiedo, non riuscendo a reprimere questa domanda dalla mia testa.
− Anche. –
Mando giù.
− Poi vai a farti la doccia? –
Fa "no" con il capo.
− Vado domani. –
La domanda, la mia, era velata ma chiara, come la sua risposta. Fino a domani per stare con Sakusa, fino a domani per toccarlo e fingere che siamo normali, fino a domani per apprezzare tutto quello che non merito.
Fino a domani.
Quando sarà, domani? Quando ci addormenteremo? Allo scattare della mezzanotte, domani mattina, fra ventiquattr'ore esatte?
Vorrei chiederglielo, qual è il nostro limite.
Ma mi muore in gola la voce.
Meglio non sapere, Atsumu. Meglio non sapere, meglio illudersi che sarà per sempre. Meglio fingere che tutto sia sempre così, che avvizzire nell'ansia che il tempo ti porterà via questo rimasuglio di gioia che hai.
Facciamo finta.
Mentiamoci, per oggi. Che tanto non fai del male a nessuno.
− Cosa... cosa facciamo? – chiedo, la pila che si fa più esigua, più minuta, vittima della mia fame esistenziale.
− Ti direi "sesso" ma credo sarà per un'altra volta. Ti dispiace? –
"Non ce la faccio", dice il suo viso. Ma ce la fa a toccarmi ed è come se tutto fosse scattato in ordine e non riesco a dirgli che mi dispiace, perché tutto mi sembra andar bene lo stesso.
Scuoto la testa, mangio ancora. Ancora e ancora, finché non sento il rumore della forchetta che raschia contro il fondo del piatto, raccolgo il cioccolato e lo mando giù.
Rimango muto di fronte al piatto vuoto.
Quanto in fretta l'ho finito?
C'era prima il cibo, qua sopra, e ora non c'è più.
Svanito.
Sento un peso formarsi al fondo dello stomaco.
Se mangi poco quanto mangio io, quando ricominci senti le interiora attorcigliarsi fra loro come vipere, raccogliere tutto, assorbire ogni singolo grammo di zucchero dal tuo corpo, come un assetato di fronte ad una damigiana d'acqua pulita.
Ho fatto così male a me stesso?
Mi sono fatto questo davvero?
Sono affamato al punto che mangiare è doloroso?
Non m'interessa.
Faccio finta che non m'interessi.
Mi perdo negli occhi neri di Sakusa che non m'importa più nulla, del cibo che ho mangiato, non del mal di stomaco, solo di lui.
− Ora che facciamo? –
Il tempo scorre come se ogni secondo fosse una goccia d'acqua in un mare dentro cui sto annegando. Affogherò, quanto tutto sarà finito.
Ma lo farò col sorriso sulle labbra.
− Dobbiamo tagliarti i capelli. Quando ricomincerà la sessione non posso lasciarti andare in giro così, 'Tsumu. – commenta, prendendo una ciocca fra i polpastrelli e strofinandola come fosse qualcosa di prezioso.
− Non importa. –
− Sì che importa. Importa per me. –
Alzo gli occhi al cielo.
− Sei sempre così dispotico, tu. Che ti frega dei miei capelli? –
Le dita che sfioravano in quel modo impalpabile una ciocca timida e scolorita, si fanno più presenti. Si infilano fra i fili lunghi e spenti dei miei capelli, si muovono su di me.
− Voglio solo prendermi cura di te, 'Tsumu. Nient'altro. –
Prendo fiato lentamente.
− Sicuro? –
− Sicurissimo. –
Tagliarmi i capelli, decolorarmeli, è una cosa che facciamo in due da quando siamo venuti a vivere assieme. Ci ha sempre divertito mettere in piedi questo fittizio salone di bellezza nell'intimità della nostra casa, e immagino che ora non sia diverso.
Porto il piatto nel lavabo e lo sciacquo mentre va a prendere quello che usiamo di solito.
Un sacco della spazzatura nuovo tagliato e legato attorno alle mie spalle, un altro per proteggere la sedia del salotto, un altro ancora per terra, sopra il pavimento delicato.
Un pennello da parrucchiere comprato al discount sotto casa, il decolorante vecchio di mesi ma mai aperto che non cambiamo mai, le forbici da sarta.
Non si dovrebbero tagliare i capelli con lame non pensate appositamente per quello.
Ma poco m'importa.
Mi siedo appoggiandomi sullo schienale foderato e rido, quando mi sventola la mantella fatta in casa addosso e la lega fingendo esperienza quando non ne ha, non ne abbiamo.
Mi prende le guance fra le mani e le stringe forte, tirandomi il capo su, verso l'alto.
Mi guarda al contrario.
− Sei così bello, 'Tsumu. – mormora.
Sento le mie labbra tirare in un sorriso.
− Non mi ricordo nemmeno come sono fatto. –
− Non importa. Ti vedo io e ti dico che sei bello. Non basta? –
Inarco le sopracciglia.
− Avanza. –
Bacia la mia fronte, poi la punta del mio naso, poi ancora le mie labbra. Non stacca le mani aperte dalla mia pelle, anzi, le fonde con essa, mentre sembra non riuscire a separarsi dalla mia bocca.
E a me sembra di respirare.
Di aver trattenuto il fiato per così tanto tempo dentro la mia cassa toracica.
Di rinsavire.
Di tornare alla vita.
Si scosta con un sorrisetto.
Mi sembra ancora di essere perso e vagare in un sogno. Mi sembra davvero che tutto questo non sia reale, forse la stessa splendente felicità che provo, mentre lo guardo amarmi e sento di amarlo anch'io.
Si tira su.
Sakusa ha la mano ferma. L'ha sempre avuta.
L'ho visto tremare tante volte da dimenticarmene, quasi, ho visto le sue dita oscillare di terrore al punto da convincermi che fosse qualcosa di suo proprio, quel modo di reagire alle cose.
Non è così.
Mentre sento il suono delle forbici che tagliano, mi rendo conto che non sta tremando.
Sta facendo tutto con calma.
Le ciocche di capelli cadono una alla volta per terra, al mio fianco, le vedo a contrasto con il sacco nero di un colore giallo e spento.
Non erano così i miei capelli, prima.
Ero vanitoso, prima.
Li lavavo con l'antigiallo tutte le volte, li pettinavo e asciugavo.
Ma penso che siano solo l'ennesima riprova di quanto mi sia lasciato andare in questi ultimi, dolorosi tempi.
− Li facciamo come li portavi al liceo? – mi sento chiedere.
Chiudo gli occhi e ci ripenso. Mi piacevano, al liceo. Tutti i ricordi felici che ho sono con quell'esatto taglio, le partite di pallavolo e le serate passate a bere in bar di cui nemmeno ricordo l'aspetto, io che sveglio 'Samu e Suna che dormono, io che arrossisco quando uno schiacciatore troppo alto e troppo bello mi chiede arrossendo se volessi uscire con lui.
Quant'eravamo belli, quando eravamo al liceo.
Tu sei bello sempre, anche ora, Sakusa. Io sono solo un ricordo.
Ed eppure mi sembra di sentirle pulsare nel mio sangue, quelle immagini, tu e la tua felpa verde fluo di quel colore così appariscente e che così bene si sposava con l'oscurità dei tuoi tratti, i nei che spuntavano e brillavano in ogni angolo della pelle quando giocavi, i ricci intrecciati coi fili della notte, lo sguardo serio.
− Per favore. – rispondo.
Ride piano, ma non chiede altro.
Taglia altre ciocche, prende i miei capelli fra le dita e il pettine che ci passa attraverso sembra una piuma dalla delicatezza con cui lo stringe.
− Devo usare la macchinetta se vogliamo farti l'undercut che avevi al liceo. –
Alzo un sopracciglio.
− Abbiamo una macchinetta? –
− Te l'ha data 'Samu quando ci siamo trasferiti, scemo. –
Annuisco con fare cospiratorio.
− Se lo dici tu. –
Mi colpisce la fronte schioccandoci l'indice sopra e lo vedo andare in bagno. Quel bagno, quello dove credeva fossi morto.
Noto quel che non volevo notare, in lui, quando giro la testa. Ha paura.
Ma egoisticamente, in modo carico e pieno di speranza giovanile, penso che sia per quel che ci ha visto dentro, non perché gli sembri sporco. Credo, spero, immagino che sia perché ha paura per me, timore che potessi davvero sparigli fra le mani in quel luogo.
Scompare oltre la porta aperta.
'Samu mi ha portato la macchinetta, eh?
Che bravo, 'Samu.
Quando finirà questo, quando torneremo a brillare un pochino, perché nei momenti come questi mi illudo fallacemente che lo faremo, gli chiederò scusa. Gli parlerò di tutto, gli dirò che gli voglio bene.
Non ora, non credo di potercela fare, ora.
Ma lo farò.
Giuro che lo farò.
Torna con un miscuglio di cavi in mano che attacca alla presa della cucina.
Quando si rimette dietro di me sento il calore del suo corpo, vedo l'ombra che getta su di me e sorrido, sorrido a me stesso.
Ce la faremo, noi due ce la faremo. Ci meritiamo di farcela, no?
Siamo così rotti, ma ci amiamo.
Chi ama vince sempre, non era così che si diceva?
Sento la macchinetta accendersi e passano pochi istanti prima che l'appoggi sulla mia testa, che i capelli cadano come fiocchi di neve su di me e per terra.
È rilassante.
Il rumore bianco, il solletico sul mio cuoio capelluto.
− Spero di non lasciare righe. Alla peggio diciamo che è una nuova moda. – scherza Sakusa, e rido.
− Sarebbe anche plausibile, in effetti. Sai che sono un trendsetter. –
− Sicuramente. –
Mi bacia una spalla mentre si appoggia e continua il lavoro dall'altra parte del mio capo.
Non ci mette molto a finire.
L'odore del decolorante mi fa schifo, e quella merda prude in testa, ma non mi lamento un istante quando lo spalma delicatamente sulla mia ricrescita più lunga di quanto vorrebbe la decenza comune.
Sfoglia le ciocche come fosse esperto.
− Dobbiamo aspettare trentacinque minuti, ora. – mormora, quando ha finito.
Sbuffo.
− Che palle. –
− Non fare il bambino. –
Mi tolgo la mantella dalle spalle.
− Io sono un bambino, Omi. Credevo lo sapessi. –
Annuisce appena, convinto.
− Lo so perfettamente e continuerò a darti fastidio per questo. –
Gli faccio la linguaccia.
− Stronzo. –
− Infantile. –
Mi avvicino e concentro le sopracciglia l'una sull'altra.
− Te l'hanno mai detto che sei insopportabile? –
Ride, di una risata sfiatata ma onesta, mi prende le spalle con le mani aperte e mi scuote un po'.
− Solo tu, e sei inaffidabile. –
Mi metto sulla punta dei piedi per toccare la punta del suo naso con la mia.
− Ho ragione. –
− Mai. –
Mi piace dire che ho perso il conto di quante volte ci siamo baciati. Mi piace da morire, mi fa sentire così allegro e leggero.
Non so quante volte l'ho baciato oggi, vuol dire che sono tante, vero?
Se non si possono contare sulle dita di una mano sono tante.
Sono tantissime, miseria, sono tante, così tante, così tante.
− Ti amo, Omi. – borbotto quando mi stacco, col sorriso in volto più grande che ci sia mai stato.
S'illumina di una luce opalescente, il suo viso.
− Anche io ti amo, 'Tsumu. Tanto. –
Annuisco.
− Tantissimo. –
Mi fa male il viso.
Non sono abituato a ridere, a sorridere, alla gioia su di me.
Ma la voglio, Dio, quanto la voglio.
− Vorrei vederti sorridere così per sempre, 'Tsumu. – mormora, tracciando le linee del mio viso con i polpastrelli come fossero qualcosa di scolpito nel puro marmo bianco.
− So che le cose sono difficili, ultimamente, so che stare qui è difficile. Ma non mollare te stesso, ti prego. L'Atsumu Miya che conosco è uno testardo che vince sempre e so che quell'Atsumu Miya c'è, in te. –
La sua voce sembra seta.
L'Atsumu Miya che conosci non c'è più, Sakusa.
O forse c'è.
Non ci avrei giurato, me l'avessi detto quattro, cinque ore fa. T'avrei riso in faccia con il mio peso nel cuore, mi sarei sentito preso in giro.
Ma ora, ora che la gioia ce l'ho e la stringo, ora mi sembra vero, quel che mi dici.
Tu sorridi piano, Kiyoomi, sorridi come se fosse un crimine farlo, come se quel piegarsi del tuo volto potesse distruggerti. Non ridi, non in modo pieno, non con lo sterno che trema. Tu sei distante, tu sei bello e sei impossibile, sei fragile.
Tu sei onesto, Kiyoomi.
Onesto con me.
− Non saranno due mesi un po' difficili a tirarmi giù, Omi. – rispondo, certo di queste parole.
Mi bacia le labbra.
− Sei la mia forza, 'Tsumu. –
La tua forza?
Io, fatto di granelli di sabbia, mi sento cristallizzare in vetro a sentirglielo dire. Mi sento improvvisamente trasparente ma rigido, intoccabile.
La tua forza.
Sono la tua forza.
− Tu sei la mia. –
Ci guardiamo qualche istante, poi ci baciamo ancora, che non basta mai. Sakusa mi tira su come fossimo due sposini in luna di miele e mi dovesse trascinare per casa, mi appoggia sul bancone della cucina con le gambe aperte, infilandosi in mezzo.
− Forse potevamo aspettare che ti lavassi i capelli prima del discorso strappalacrime, però. Sembri un cretino. –
Sporgo il labbro inferiore.
− Hai iniziato tu e ritira subito quello che hai detto! –
− No. –
− Come no?! –
Mi colpisce il naso.
− No. Costringimi. –
Stringo le mani sulla sua vita. Sakusa Kiyoomi, quel Sakusa Kiyoomi, un metro e novantadue di Sakusa Kiyoomi, soffre il solletico.
Quando faccio il movimento di grattare in corrispondenza della sua pancia scatta come un gatto e fa un salto indietro.
Scendo dal bancone.
− Dove scappi? – chiedo, raggiungendolo.
Fa per rispondere ma lo stringo ancora e scatta ancora.
Lo inseguo per la casa finché non riesco a prenderlo per bene e le sue scuse sono dette con una voce stridula e per niente misurata e matura com'è lui, e finiamo per ridere forte tutti e due.
Sembriamo quasi una coppia felice, Omi. Non credi?
Il timer scatta che siamo intrecciati assieme e corriamo in bagno tutti e due. Lavarmi i capelli in una doccia senza spogliarmi è complicato ma no, non voglio spogliarmi.
Vorrei, ma Sakusa si sentirebbe peggio.
Questa bolla non voglio romperla per nulla al mondo.
Mi lascio sciacquare dalla mia mascolina e precisa parrucchiera per minuti interi, pettinare e sistemare, asciugare i capelli con lo stesso animo leggero e innamorato.
Mi faccio mettere la maschera al viso, mi faccio massaggiare la crema sulla pelle, mi faccio coccolare.
Ne avevo bisogno.
Di essere trattato come qualcosa di prezioso.
Mi sentivo d'ottone, di fronte all'oro brillante che splendeva fuori da me.
Mi sentivo inutile e piccolo.
Ora mi sento felice.
In fondo al mio cuore, in fondo, laggiù, c'è una fiammella che brucia. C'è una sensazione strana che si accende, ma che respingo, non ascolto.
Come farai quando tornerai ad essere lo stesso scarto che eri ieri?
Perché tornerai ad esserlo.
Sei così fragile, così miserabile che cose che dovrebbero essere di routine ti fanno sentire al settimo cielo, Atsumu, come se invece di vita quotidiana fossero un qualche evento plateale d'amore.
Sei così ridicolo.
Quanto ti odierai di più quando finirà?
Perché oggi?
Perché Sakusa ti ama, oggi?
Eri così penoso che persino lui è riuscito a combattere la malattia per te? Era così spaventato per te, eri così schifosamente alla ricerca d'attenzioni che gli hai fatto fare qualcosa per cui sai che tremerà di terrore fra qualche ora?
Dovrei essere felice, lo sono.
Ma il male di vivere funziona così.
Dicono che i depressi sembrino apatici, da fuori, sembrino accidiosi reietti dalla vita, inutili utilizzatori del tempo che gli rimane.
Non è così.
Chi è depresso sente tutto, per quello non reagisce a nulla. Perché le cose sono tante, così tante, così cattive, così in tempesta che non sai nemmeno più a quale dar retta, per cosa soffrire, che fare.
Sembri apatico perché dentro non sei nemmeno più intero, lobotomizzato della tua felicità.
Sono depresso anche mentre Sakusa mi ama. Un depresso felice, pur sempre un depresso. Sono gioioso, felice, emozionato, perché come sento più sgretolarmisi l'anima quando soffro altrettanto mi sento brillare quando sono felice.
Sono fragile.
Ed è questo che non mi esce dalla mente, mentre Sakusa mi ama, mi tiene come fossi un gioiello.
Sono troppo rotto.
Sono crepato a metà, credo.
Finiamo la serata sul divano.
Sono stanco, stanco morto, che essere felici è impegnativo, steso sulle cosce del ragazzo che amo. Mi pettina le ciocche chiare con le dita, sorride.
Mi vede, mi vede come mi vedesse intero.
Capisce.
'Samu non capiva, qualche mese fa, non capiva. Non capirà mai.
Ma Omi capisce, perché Omi è "casa".
− A che pensi? – chiede, e basta.
Sono crepato a metà, credo.
Sono rotto, distrutto, in ansia nonostante non ce ne sia motivo perché oggi Kiyoomi è felice. Sei in ansia quando non lo è ma lo sei anche quando lo è. Avrai mai pace?
− C'è qualcosa che non va? I pancakes non erano buoni o il taglio non ti piace o... −
− Ho paura. – taglio corto.
Parliamo sempre, io e Omi. Parliamo invece di toccarci per riempire gli spazi.
Ma dimenticavo quanto fosse diverso, farle entrambe, queste cose. Parlare e liberarmi mentre vengo abbracciato, tenuto. Mentre il calore mi scalda e i muscoli si muovono sotto di me.
− Di cosa? –
− Che domani torni tutto come al solito. –
Mi bacia la fronte piegandosi.
− Come al solito come? –
− Lo sai come, Omi. –
Percorre le mie occhiaie con le dita, sente i muscoli incavati degli zigomi.
− Non posso garantirti che non soffrirai, 'Tsumu. Non posso farlo. Ma vorrei, quanto vorrei proteggerti da tutto questo. –
Alzo un angolo della bocca.
− Proteggermi da me stesso la vedo dura. –
Bacia la fossetta accanto alle labbra.
− Troverai il tuo Sole, Icaro. –
− Chi? –
Indietreggia con lo schienale su divano, massaggia i miei capelli e lo cerco con lo sguardo che incontra il mio morbido e dolce.
− La conosci la mitologia greca? –
− Devo anche risponderti? –
Ride.
− La storia di Icaro è piuttosto famosa, Atsumu. Non credevo che fossi così analfabeta. –
Faccio il broncio.
− So chi è Icaro. Ma non so cosa c'entri un cretino che credeva di poter volare con me. Sai, al liceo mi hanno detto che esiste la forza peso. Forse a lui non l'avevano detto. –
− I greci pensavano che la terra fosse un cilindro, Atsumu. –
Scrollo le spalle.
− Comunque la storia di Icaro è diversa, se la chiedi a me. Non è un cretino che voleva volare, non solo, quantomeno. –
− E allora chi era? –
Mi sorride.
− Era un ragazzo che nessuno capiva, Atsumu. Era così giovane, così bello, così allegro. Rinchiuso in una torre per il peccato di suo padre, devastato da quello che c'era fuori. –
Le sento, le sue parole. Le sento nelle ossa.
− Icaro amava la vita, ma gliel'avevano strappata via. –
Si avvolge dentro di me, la sua voce.
− Icaro però guardava il Sole e il Sole lo faceva sentire felice. Lui amava il Sole perché splendeva senza chiedere nulla a nessuno, senza sottostare a nessuna regola. Il Sole lo faceva sentire forte. –
Rotolano nell'aria, le vocali e le consonanti legate assieme.
− Icaro non è morto. Icaro ha fatto quello che amava. –
Rimango in silenzio, mi sento morbido, soffice.
− E io sono Icaro? –
− Tu sei Icaro, troverai il tuo Sole. –
Mi sento arrossire il volto.
− Se io sono Icaro tu sei il Sole, Omi. –
Sorride.
I movimenti sono dolci, sul mio capo, e sono stanco, così stanco.
Mi tira su con le braccia, mi porta verso la camera da letto e mi mette sulla coperta come fossi fatto d'aria.
Non protesto, mi lascio trasportare.
Mi trascino le coperte sopra, aspetto lagnosamente a braccia aperte.
Spegne la luce.
Lo sento bere, non ricordavo avesse preso dell'acqua. Probabilmente l'aveva lasciata qui prima. Manda giù in un modo quasi rumoroso, poi viene finalmente fra le mie braccia e mi avvolge come non volesse lasciarmi scappare.
Mi bacia il viso, il naso e le guance, le labbra, gli occhi, la fronte.
Mi bacia che sembra persino disperato.
Già, che domani è domani.
Domani non ci tocchiamo, Omi.
Dovrei impormi di rimanere sveglio, di passare più tempo con lui, di amarlo ancora di più. Ma mi sento così caldo, qui, caldo e calmo.
Mi rilasso.
Sono a metà fra il sonno e la veglia quando lo sento parlare.
− Non sono il Sole, Icaro. Io sono la torre. −
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➭ ✧❁ il titolo del capitolo si riferisce a questa farfalla, detta "farfalla ali di vetro" o col nome scientifico "greta oto", della famiglia delle nymphalidae, che vive nell'america centrale
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