𝗴𝗿𝗮𝗲𝗹𝗹𝘀𝗶𝗮 𝗶𝘀𝗮𝗯𝗲𝗹𝗹𝗮𝗲
➥✱ alert :: attenzione per le persone che soffrono di emetofobia, c'è una menzione al fondo
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
Non sono mai stato tagliato, per lo studio.
Non sono mai stato il tipo che sta seduto tutto il giorno dietro un banco, una penna fra le mani e gli occhi incollati alla lavagna, a prendere sterili appunti di materie inutili.
Non sono mai stato... questo.
Atsumu Miya, talentuosissimo alzatore del liceo, ecco chi sono.
Chi ero.
Eccomi.
Accavallo le gambe sotto il piano di legno, il ginocchio che ci sbatte appena contro.
Non mi sento me stesso, qui.
Non mi sento niente.
C'è una noia che non saprei definire, nello stare rinchiuso nelle quattro mura dell'università.
Come una melassa grigia e lenta, pigra, che non vuole andare avanti. Un banco di nebbia fitta che avvolge tutto e lo rende distante, incomprensibile.
Mi sento... alienato.
Vuoto.
Pigro.
I miei muscoli fremono dalla voglia di scattare, li sento.
Mentre fisso il professore che indica chissà quale parte di chissà quale slide, un po' il mio pensiero vaga, ai giorni felici in cui non dovevo infilarmi nei canoni di una vita già scritta per un bene più grande di me.
A quando ero un ragazzino che rideva forte e batteva la palla oltre la rete, a quando mi divertivo senza freni nel marasma di sudore che ti si appiccica alla fronte e nelle urla, a quando ero quello che mi piaceva essere.
La mia situazione mi ricorda certe cose che le persone fanno quando sei piccolo.
Paffuto nell'infanzia, il tuo viso morbido, senza le linee dure della maturità, che guardi il mondo dal basso con una magia di scoperta e mistero.
Quando ero piccolo, succedeva qualche volta che un parente lontano, uno zio o una zia che vedevo solo a Natale per le feste con tutta la famiglia, si avvicinasse viscidamente e mi ponesse questa domanda con la voce schifosa della vecchiaia.
"Preferisci la mamma o il papà?", chiedevano sempre.
Ai bambini, certe domande, non vanno fatte.
Ricordo di aver pianto come una fontana, la prima volta che ho pensato davvero a cosa avrei potuto rispondere ad un quesito del genere.
Che cosa devi dire? Quello che senti? Quello che è giusto? Ma, questa scelta, è corretto che tu la faccia? Quando sei piccolo, quello è il tuo mondo. I modi burberi di mio padre e il profumo dei capelli di mia madre, quelli erano tutta la mia felicità.
Si chiede a qualcuno di scegliere fra i motivi della sua gioia?
Non si fa.
Ho imparato col tempo, invece che questa è una domanda che certe volte non puoi ignorare. Non è quel tipo di domanda che infili timidamente nell'angolino del tuo cervello e fingi di non aver sentito, quando ne va del tuo futuro.
Arrivano momenti, in cui delle cose che ti rendono felice, devi sceglierne una.
Avevo diciannove anni, la prima volta.
Ricordo con precisione i polpastrelli delle mie dita che si appoggiano sul cuoio rigido della palla, le mie braccia che si tendono, il sudore che scivola sulle mie tempie e i muscoli che si flettono in aria.
Avevo chiamato il nome della persona che volevo schiacciasse quella palla.
Ma quella persona, a schiacciarla, non è mai arrivata.
Che cosa ho pensato quando Sakusa si è rifiutato di toccare qualcosa che avevo toccato anch'io? All'inizio, puro, deliberato fastidio. Una sensazione di prurito quasi, lungo tutto il corpo, di odio e rancore.
Che cosa ti fa schifo, Kiyoomi? Io? La persona che guardi di sbieco con un'aura adorante e dici di amare? Il mio sudore? Che cosa, di me?
Non ero io.
Era la pallavolo.
Rimanere chiuso in un campo con altre persone, limiti sotto forma di strisce bianche a rinchiuderlo in uno spazio con altri che respirassero la sua stessa aria.
In quel momento, è arrivata la scelta.
Non che qualcuno mi abbia chiesto di farla, a dirla tutta, me la sono imposta da solo.
La "mamma" e il "papà", su, bambino, scegli.
Di' chi preferisci.
Onestamente.
Rovina i ricordi di un'infanzia bilanciata fra l'uno e l'altro prendendo una decisione.
Non potevo giocare a pallavolo senza Sakusa. L'avevo già fatto, in passato, e tecnicamente avrei trovato un modo di farlo ancora, ma il suo sguardo, la ferita nei suoi occhi, quella non potevo far finta di non averla notata.
Non mi ha spinto a scegliere.
Inconsciamente, forse, però, l'ha fatto.
Ho scelto la cosa che amavo di più.
Ci ho ragionato intere settimane, giorni, notti insonni a contare pro e contro, dita che scavano contro i palmi delle mani, sangue sulle mie braccia.
Della mia pessima tendenza a inferocire la vita che mi blocca su me stesso, però, parlerò un po' più avanti.
La cosa che mi ha fatto scegliere, in fondo, alla fine, è stata l'immagine di me stesso nella vecchiaia. Prima o poi i miei muscoli sarebbero degenerati, la mia resistenza fisica sfumata, e che cosa sarebbe stato di me, solo, senza l'amore che non avevo voluto tenermi stretto?
Ho scelto Sakusa piangendo.
Ho scelto Sakusa col cuore di pietra.
E lui, per quanto volesse, in fondo in fondo, dirmi che non era questo, quello che voleva per me, alla fine l'ha persino accettato.
Ed è in breve come sono arrivato qui.
Come sono arrivato con il culo su una sedia di legno, dietro ad un banco troppo stretto, a fissare il movimento morto di un led su una slide proiettata di fronte a me.
Economia è una scelta sicura.
Non ho mai apprezzato la sicurezza come valore in sé, l'ho sempre trovata piuttosto noiosa per l'esplosione di allegria che è il mio carattere, ma dovevo pensare al futuro, ed economia è un futuro battuto e scritto.
Non mi piace.
Mi fa schifo.
Non sono bravo in matematica, dei soldi mi interessa solo quando posso spenderli e c'è troppa filosofia in questi quattro conti da rincoglioniti.
Sono indietro con gli esami.
Sakusa è più bravo di me, a studiare.
Letteratura, il suo sogno, la sua passione. Non fatta per ripiegare di un futuro che stava buttando via, no, lui ha davvero talento, in questo.
Pensare che abbia dovuto gettare in pasto al passato un sogno per una malattia invisibile, mi infastidisce come non mai.
Ma le cose vanno prese come ci vengono date, vanno elaborate e interpretate quando non possono modificare, è necessario capirle.
Incazzarsi col mondo per un destino infelice risolve ben poco.
Certe volte la rabbia mi calma quasi, devo dire, perché mi fa sentire quantomeno che ci sono ancora.
Dicono che è quando lasci tutto che poi diventa dura, andare avanti, quando l'accidia ti permea in un abbraccio di lentezza asfissiante.
Non le voglio bene, alla mia rabbia, ma me la tengo stretta.
Rumore di dita sui tasti di un computer vicino a me, ticchettante e battuto, respiro di persone attente, luce del sole che è basso e scuro in questi giorni d'autunno che colpisce di sbieco il muro dell'aula.
Sakusa e io non ci tocchiamo da dieci giorni.
Abbiamo fatto sesso un mese fa.
Sembra un'era, per un ragazzo, immagino. Avere ventidue anni e non poter fare certe cose col tuo ragazzo ti distrugge, sotto un certo punto di vista, ma dall'altro c'è, e questo basta.
Basta?
Immagino che basti.
Mi soddisfa, nell'egoismo puro del termine, che ci stia male quanto me. Mi fa capire che non è lui, ad odiarmi, ma la misofobia che rimane nascosta nell'angolo più intoccabile della sua mente.
Almeno non ti odia, mi ripeto spasmodicamente.
Almeno non ti odia, Atsumu.
Sicuro non quanto tu odi la microeconomia.
Andiamo, ma è davvero utile questa roba? Serve davvero a qualcosa? Pura masturbazione mentale, secondo me. Inutile passatempo di qualche folle idiota che pensava che studiare fosse una passione.
Chi sceglierebbe questo per passione?
Sprecare ore ed ore di fronte a righe sterili su libri scialbi.
Solo un idiota.
Mi sa che sono un idiota.
E anche questo, lo sapevamo già tutti.
Corro con lo sguardo all'orologio digitale al mio polso.
Cinque minuti.
Cinque minuti e posso mandare a fare in culo questo strazio senza fine.
Pensa a cose felici, Atsumu, pensa, falli passare in fretta.
Ah, le dita che si piegano in aria, le urla del pubblico, il rumore della palla che sbatte contro il pavimento di ardesia.
La vampata di emozione che ti corre nel petto quando le persone chiamano il tuo nome, la fierezza di guardare il tabellone e dire che l'ho fatto io, quel punto per la vittoria, io e nessun altro.
Quanto mi annoiava, poi, rientrare pimpante nello spogliatoio a cambiarmi. L'effetto fisico dell'adrenalina che scende a picco, immagino, e comunque ora non so cosa darei per riaverla, quell'emozione che sfuma.
Darei tutto.
Tranne l'unica cosa che ho scelto.
Darei tutto tranne Sakusa.
Darei tutto tranne l'amore mutilato che abbiamo, e so che è da pazzi, so che è folle e sminuente, so che faccio male.
Ma so anche che ho scelto da solo.
Ho scelto il mio futuro, quel giorno.
Ho scelto Sakusa, e l'ho scelto con il cuore di metallo ma l'anima di polvere, perché l'amavo e lo amo anche adesso, ed è vero che quando c'è lui la pallavolo non mi manca.
È quando lui non c'è, il problema.
Quando sono rinchiuso a seguire lezioni di cui mi interessa meno di zero.
Ah, eccolo.
Il minuto scatta.
− Bene, ragazzi, ci vediamo domani per la prossima lezione. Buona serata. - dice il professore, con il suo tono monotono e annoiato, e registro le parole come se le sentissi attraverso una galleria, alienate e distanti.
Ma le sento lo stesso, e vanno bene.
Non ho molto da mettere via, a dirla tutta. Una penna smangiucchiata sul fondo e il foglio bianco dei miei appunti non presi, un libro che ho comprato usato e non ho mai aperto mezza volta, la borraccia vuota dell'acqua che bevo per noia.
Prima o poi lo darò, questo esame.
Se decido di darli, di darli bene, mi impegno e studio, e con un ventuno risicato di solito riesco a sfangarla.
Ma per microeconomia questo impeto di decisione ancora non l'ho avuto.
Arriverà il momento anche per lui.
Caccio tutto nella borsa, appoggio la tracolla contro la spalla, mi alzo e filo via dall'aula.
Non sono nessuno, in questo posto.
Mi piace, di solito, essere al centro di tanta attenzione, di tanti occhi che si girano solo per me, come quando giocavo.
Ma l'appartenere ad un luogo che mi disgusta, ha spento la mia voglia di farmi notare, e ora sono una pallida imitazione dell'Atsumu Miya del liceo, solo i bordi sbiaditi di un'immagine chiara nel passato.
Non conosco nessuno.
Non mi sono fatto degli amici.
Forse è sbagliato, che abbia deciso di rinchiudere me stesso in un'immagine opprimente, ma ho trovato la mia dimensione nella mia scelta.
Io sono Atsumu Miya quando sono a casa mia, nel nostro appartamento, a guardare gli occhi scuri e i nei di un uomo che amo e che mi ama, il resto l'ho gettato al vento, e non m'importa.
La scelta era fra la vita al di fuori di Sakusa e quella con lui.
E ho scelto lui. Lo sceglierei ancora, nonostante la sensazione di inutilità che mi pervade, e lo sceglierei ancora perché seppur brevi come lampi di luce che sfugge, i momenti della nostra felicità, quelli brutali e puri e non ripuliti da un contesto difficile, sono i migliori della mia vita.
Sfuggo.
Come acqua di un ruscello, da questo luogo, sfuggo.
Un passo alla volta, svelti, decisi, verso il maniglione antipanico dell'uscita.
Voglio tornare al mio luogo, voglio tornare ad essere l'interezza di me, non quest'ombra grigiastra.
Metri, centimetri, millimetri, minuscoli spazi di aria.
Allungo la mano.
E poi la mia tensione cede quando, invece di respirare l'aria pulita dell'esterno - che chiamarla pulita nel centro città rimane comunque un crimine - sento pressione sulla spalla.
Ci sono delle dita sulla mia maglietta.
Qualcuno mi sta toccando.
− Miya? - chiede una voce.
No.
Cazzo, no.
Compagno di corso numero venticinque, anonimo e noioso, polo sempre di colori ridicoli e colletto tirato su come un cinquantenne senza valori, pantaloncini cachi nove mesi l'anno e ridicolo taglio di capelli squadrato.
Capocorso.
Responsabile del progetto di gruppo di microeconomia.
Avrò perso la mano ma la mente analitica da alzatore ancora reagisce, alle volte.
− Oggi avevamo il lavoro di gruppo, dove vai? - riprende.
Miseria.
Cazzo, cazzo, miseriaccia.
No, e chi ce l'ha la voglia di mettersi a fare questa stronzata?
Tiro le mie guance in un sorriso forzato.
− Ho un impegno. Col mio ragazzo, a casa. Se mi dite cosa devo fare vi mando la mia parte entro domani. - tento di rispondere.
Sospira.
− Già usata, la scusa del ragazzo. -
Alzo le spalle.
− Che ci posso fare, è appiccicoso. -
Che ironia questa scusa.
Di tutte le cose, alcune fantastiche e altre meno che Sakusa è, appiccicoso è decisamente l'ultima della lista.
Anzi.
− È la sesta volta che scappi all'ultimo, abbiamo la consegna fra dieci giorni. Sono sicuro che il tuo ragazzo capirà. -
Certo che capirebbe.
Ma se oggi si sentisse bene? Se oggi fosse in forma e volesse toccarmi?
Se oggi si fosse svegliato dal suo pisolino pensando che non vedeva l'ora di vedere la mia faccia?
Posso permettermi di sprecare un'occasione del genere?
Dio, no.
− Se non torno a casa si incazza davvero. - provo a enfatizzare.
Mi sa che questa volta, però, non ce la faccio a sfuggire.
Alza gli occhi al cielo, lo sguardo che diventa più meschino in un istante, in un modo che mi fa quasi schifo. A chi mandi quell'aria di superiorità, idiota? Guarda che sarò anche sottotono, ma continuo ad essere Atsumu Miya, infame.
− Senti, Miya, ci siamo stati perché sembravi tanto convinto e visto che sei sempre da solo ci spiaceva fartelo pesare, ma questa storia del ragazzo non regge. Non so quale sia il tuo problema, ma se non vieni a fare il lavoro di gruppo dico al relatore che non hai partecipato e puoi salutare con la mano i tuoi crediti universitari, intesi? -
Mi sembra quasi di sentire una vampata del me di qualche anno fa.
Quell'Atsumu si sarebbe incazzato, Dio, come si sarebbe incazzato. Sarebbe esploso in qualche ridicola espressione di rabbia, sarebbe avvampato come lapilli di lava incandescente in chissà quale improperio poco consono all'ambiente.
Si sarebbe difeso dicendo che uno che non ha toccato altra donna all'infuori di sua madre non aveva alcun diritto a dire che la mia storia non reggeva, che i problemi erano suoi, che sono sempre solo perché la solitudine è di gran lunga meglio del passare il mio tempo con loro, mandria di inutili vermi.
Ma questo Atsumu, questo non vuole perdere tempo.
Vede le priorità.
Come si cambia, crescendo.
Devo tornare a casa a vedere se Sakusa mi vuole, oggi, e devo farlo il prima possibile.
Cercando anche di non rovinare la mia carriera universitaria nel mentre.
− Solo un'ora. - provo a dire.
− Solo un'ora. - risponde.
Prendo il cellulare dalla tasca, cerco il nome di Omi per scrivergli che tornerò tardi.
Si spegne lo schermo.
È scarico, merda.
− Hai il caricabatterie del telefono? - chiedo all'inutile di fronte a me.
Annuisce.
− Di là. -
Sbuffo, meritandomi un'occhiataccia.
− Fai strada. - borbotto.
Alza un angolo della bocca in un modo che mi fa venir voglia di mettergli le mani addosso e farlo rimpiangere di essere nato.
− Bravo, Miya. -
Già.
Bravo.
Davvero bravo.
Avete presente quando ho parlato di un'ora sola?
Cazzate.
Rientro a casa la bellezza di quattro ore e mezza dopo.
Come mi sono fatto convincere a rimanere così a lungo?
Mi vergogno a dirlo, ma mi mancava il contatto umano. So che non ho valore per loro e che loro non hanno valore per me, ma la schicchera di adrenalina pura che mi è corsa nelle vene quando qualcuno ha parlato con me, ha chiesto la mia opinione, la mia idea, me l'ero dimenticata.
Sakusa dice che sono un animale sociale.
Lo sono?
Forse.
Quattro ore e mezza a parlare, ho passato. Di microeconomia, quando di microeconomia mi importa davvero nulla, solo per il gusto di avere un po' di luce puntata su di me.
Sono incorreggibile.
Sono sfinito, quando rientro.
La socialità è più stancante di quanto sembri, devo ammettere.
Me n'ero persino dimenticato.
Appena entro nell'ascensore, me ne ricordo.
Cazzo.
Il cellulare.
Non l'ho attaccato.
Mi sono così egoisticamente concentrato nel guardare me stesso brillare della luce riflessa delle persone che ho avuto tanta paura di avvicinare, che mi sono completamente dimenticato di...
È questo, che sono?
Un egocentrico del cazzo?
Passo due minuti con altre persone e mi dimentico subito delle cose importanti?
Così poco, valgono?
Cazzo.
Atsumu Miya, cazzo.
Stupido idiota, egoista egocentrico vanitoso.
Inutile, stronzo, arrogante.
Strafottente.
Hai sacrificato tutto per Sakusa e ora ti permetti di gettare alle ortiche l'attenzione che hai pagato così cara per un'ora di chiacchiere?
Mi bruciano i polpastrelli delle dita, le braccia.
Cazzo, idiota, idiota.
Corro.
Quando le porte dell'ascensore si aprono corro verso la porta, tiro fuori le chiavi di botto, l'ansia che cresce nel mio petto come un fiore, sboccia nella mia trachea, mi ostruisce il respiro, mi fa battere forte il cuore.
Apro.
È buio.
− Omi? Omi-Omi, sono tornato! - provo a dire, ma il mio stesso tono di voce tradisce la mia insicurezza, il mio senso di colpa.
− Oh, finalmente. Ti sei degnato di arrivare. - sento rispondere da una voce...
Priva di equilibrio.
Trascinata.
Arrabbiata.
− Omi? -
− Vai a lavarti, Atsumu. -
Lo cerco. Lo cerco con lo sguardo in tutta la stanza, ma questo buio del cazzo rende difficile la cosa, non riesco a definire i contorni della sua figura, non riesco a vedere i suoi occhi.
− Omi, ti prego, dimmi almeno che non mi detesti. - mi scappa, in un tono più lamentoso di quanto vorrei.
Una risata.
Sporca, grottesca, come se fosse una di quelle risate che non nascono da un vero divertimento quanto da una sensazione quasi incredula.
− Non ti detesto. Ma sono incazzato, Atsumu. Lavati. -
− Incazzato per cosa? -
Sono un cretino.
Un cretino che ci prova, un cretino che si sforza, un cretino che la perfezione la vuole ma non la raggiunge mai, un cretino ingenuo che fa domande di cui sa già la risposta.
− Dov'eri? -
− Ho fatto un progetto di gruppo, è da consegnare per... −
− Tu non fai mai queste cose. E potevi comunque mandarmi un messaggio. -
Appendo la borsa sull'appendiabiti sulla porta, ma non mi muovo.
Sporco da fuori, l'unico angolo di mondo su cui posso rimanere, distante da lui, è lo zerbino.
− Avevo il cellulare scarico. -
− Nessuno aveva il caricabatterie? -
Ingoio la saliva.
Mando giù e mi sembra di sentire sabbia che raschia la mia gola.
− Mi sono dimenticato. -
Lo vedo perché passa una macchina per strada e la luce dei fanali riflette per un istante contro il vetro.
È seduto sul tavolo della cucina, ha in mano un... bicchiere.
Ecco, cos'era.
Sakusa ha bevuto.
Non beve mai.
Beve quando vuole annegare qualcosa.
L'ho visto ubriaco la prima volta che si è dichiarato, in un modo tenero e spaventato. L'ha rifatto da sobrio, la mattina dopo, ma non riusciva ad elaborare l'attrazione, all'inizio.
L'ho visto ubriaco quando abbiamo lasciato la pallavolo.
Fine.
− Ti sei dimenticato? -
− Mi sono dimenticato. - ripeto.
Mi vergogno, cazzo, quanto mi vergogno. Mi vergogno al punto che mi brucia la pelle, al punto che vorrei sprofondare intero dentro le assi del parquet e marcire nella solitudine del rammarico di quello che ho fatto.
Mi imbarazza da morire.
− Di me? -
− Cosa? -
Passa un'altra macchina, carpisco il luccichio incazzato dei suoi occhi una volta ancora.
− Ti sei dimenticato di me? -
Mi prende alla sprovvista.
Sakusa è una farfalla, ma è di quelle che si mascherano nel crepuscolo da falene, di solito. Non è di quelle che brillano sfacciatamente, non di quelle che si mettono in mostra nella loro bellezza.
Sakusa non chiede cose che pensa, non chiede come se volesse sapere, non espone.
Sakusa non mette in mostra.
E Sakusa che mi chiede una cosa così esplicita, Sakusa che mi chiede come se non ci fosse altro da sapere, se mi sono dimenticato di lui, mi prende alla sprovvista.
Apro la bocca e la richiudo.
− Allora? Dimmelo, Atsumu, su. Ti sei dimenticato di me? Con chi eri, eh? -
Un brivido lungo la spina dorsale.
− Non mi sono dimenticato di te. Ho fatto... il progetto... con i miei compagni di corso... −
− Chissà se quegli stronzi ti hanno toccato. Mi fa ribrezzo il solo pensiero. -
Il pensiero mi colpisce.
E mi colpisce in un modo ambivalente, caotico, che ancora non distinguo in maniera chiara e definita.
Da una parte... mi detesto. Per aver permesso a qualcuno di toccare qualcosa di sacro per lui, di aver contaminato un posto sicuro.
E dall'altra il mio cuore scoppietta di una gioia incontrollabile, all'idea che la sua furia, il motivo per cui ha cercato di annegare le sue preoccupazioni siano nati dalla paura che qualcuno stesse avendo a che fare con me.
Stare con una persona che non dimostra, che non può dimostrare, non è facile. Certo, ci sono le parole, fiumi di parole, ma alla fine al loro significato, come fai ad aggrapparti?
Come fai a credere con tutto il tuo cuore a qualcosa che non vedi?
A qualcosa che non tocchi?
Ci provi, perché provarci ci prova, il piccolo, indifeso, scialbo Atsumu che sono diventato.
Ma ci riesce sempre?
E questo non è certo la dimostrazione che attendevo e che bramavo, e lo so, ma invece sotto un certo punto di vista lo è.
Reazione.
Irritazione, furia che sia.
È qualcosa oltre la coltre di nebbia della nostra monotonia.
− Lavati, Atsumu. - ripete, dopo qualche istante.
Mantiene le parole scandite, anche nell'ubriachezza, che Sakusa non è uno sbronzo che non si controlla. No, Kiyoomi, il mio Kiyoomi è uno di quelli che perde, con l'alcol, solo l'inibizione.
Non barcolla, non biascica, non traballa.
Diventa... diretto.
− Vado. - ribatto, con un filo di voce.
Metto piede nel bagno con le gambe che tremano, accendo la luce e lo vedo riflesso nello specchio del bagno dalla porta aperta.
I capelli corti, più mossi e lunghi sopra, spessi, che sanno di buono.
La pelle bianca, le guance appena arrossate, gli occhi che... brillano.
Sembro un vecchio sposato da anni, quando lo dico, ma quanto era che non recepivo quella vena vivida nel suo sguardo?
Da quanto non sentivo questo formicolio che attende sulla pelle?
Come quella torta che tua madre cucina solo il giorno di Natale, come la notte degli Oscar che rimanevi alzato da bambino tutta la notte a vedere gli attori di Hollywood sfilare, come Capodanno in cui bevi senza freni nella felicità di qualcosa che non ha senso, come i ciliegi che fioriscono quel giorno specifico di primavera.
Raro, ed eppure così dannatamente bello.
Tolgo i vestiti, uno ad uno, come sempre, come al solito, ed eppure in modo così diverso.
Sapone sulle mani, sulle braccia, sul collo.
− Lavati tutto. - continua, dal salotto.
Tutto.
Tutto... tutto?
Doccia.
Mi infilo che nemmeno chiudo la porta, apro l'acqua e non mi accorgo che è gelida, mentre nella foga del momento le mie dita corrono al bagnoschiuma, lo strofinano in ogni angolo di me con sempre, sempre, sempre più attenzione.
Pulito, pulisciti, togli lo schifo del mondo di fuori.
Sfrego così forte che la pelle inizia a bruciare.
Piccole cicatrici che fingo di non vedere che brillano nel loro bianco orrendo sulla tela della mia pelle.
Acqua sui capelli, non ho voglia di fare il balsamo, non ne ho bisogno, chi ha tempo da perdere?
Shampoo, ciocche umidicce, acqua che scola.
Non l'ho fatta scaldare.
Non ho girato la manopola.
Trema, la mia pelle, trema del gelo e del freddo di questa doccia che non potrebbe essere più breve ed eppure nemmeno più lunga.
− Muoviti, Atsumu, sono ancora incazzato. - sento di nuovo, più vicino, questa volta, più vicino ancora.
Muoviti, Atsumu.
Muoviti, stupido idiota.
Le unghie graffiano quasi nei movimenti secchi, frettolosi, ma non m'interessa.
Muoviti.
Ancora lì, dietro le orecchie, fra i capelli sulla nuca, l'incavo delle spalle.
Acqua, sapone, acqua, sapone.
Pulito.
La mia pelle è ruvida da quanto è pulita, fa attrito persino con le mie dita.
Spengo il getto della doccia.
Mi fiondo fuori, spalanco lo sportello con una mano, mi getto in avanti.
Mani sui miei polsi, io che gocciolo su un pavimento freddo, luce al neon che riflette colori scuri.
Cortocircuito.
Mi sta toccando.
Mi sta... toccando.
Mi sta toccando?
Dita forti sulle mie braccia che sembrano così sottili, sguardo d'acciaio.
Mi sta toccando.
− Dove credi di scappare? - mi chiede, un filo di voce, le labbra che sono così vicine alle mie.
Mi ci perdo.
Non ho intenzione di ritrovare la via, quando mi lascio avvolgere dall'oscurità che è il suo sguardo. Non voglio uscirne, voglio rimanere qui.
Lasciatemi affondare, vi prego.
Non chiedo altro.
Annegare nel buio di qualcosa che amo e che non posso avere quando voglio.
Datemelo per sempre.
− Non vorrei scappare nemmeno se volessi uccidermi per davvero, Omi. - rispondo, alla fine, la mia voce che risuona nell'aria dopo minuti interi che l'ho soppressa nella mia gola.
Ci guardiamo per un attimo che sembra durare un'eternità.
Quando lo dice è davvero la cosa migliore che abbia mai sentito.
Migliore di tutto, anche se è ubriaco, anche se non è in sé, anche se non so quanto di vero ci sia, in questo, quanto di reale e tangibile nelle sue mani che tremano di paura, di solito.
− Sei mio, Atsumu, intesi? Non ti permettere un'altra volta di fare una cosa del genere o mi incazzo sul serio. - sbotta.
Non lo pensa davvero.
Sa che non sono un oggetto.
Ed eppure questa è la voce del suo cuore, questa la voce della sua mente libera dalle inibizioni della vita vera, ed è così... possessiva.
Possessiva per qualcuno che teme di stringermi.
Ironia della sorte, becera cattiva ironia, smetterai mai di inseguirmi come un'ombra?
− Sì, Omi, sì, certo. - affermo.
− Sì? -
− Sì, te lo prometto. Non lo farò mai più, giuro, mai, mai, mai più. -
Lascia i polsi e vorrei dirgli di no, di non smettere, di stringerli ancora e di serrare un'altra volta le dita sulla mia pelle.
Ma poi mi afferra il mento con una mano che è salda, di ferro quasi, e le incertezze scompaiono nel nulla che è la mia mente.
− Mi piaci di più quando obbedisci, Atsumu. - commenta.
Alza un angolo della bocca.
Le palpebre sono pesanti, le ciglia folte, lo sguardo fisso solo su di me, nudo, fradicio della doccia, ridicolo nel mio non essere niente e nell'essere tutto, quando mi guarda così.
Non era l'attenzione dei miei compagni di corso, che volevo, forse.
Non ha nessun valore.
Pensare di aver goduto della loro presenza per un attimo, ora, mi sembra così idiota.
Che cosa c'era di così meraviglioso, in quell'attrazione così momentanea?
Guardate questo. Guardate questo modo violento e duro di volermi, questo amore cattivo e ubriaco, privo di domande e di filtri.
Questo, è il centro dell'attenzione.
Questi, sono i riflettori.
Questo.
Sofferente e sbagliato, ma questo.
Quando dico che la pallavolo non mi manca, quando sono con Sakusa, e che la sua veloce felicità, quegli sprazzi della realtà che mi offre sono migliori in tutto, non mento.
Eccolo, il mio minuscolo granello di gioia.
Eccolo, guarda come lo afferro e lo stringo a me.
− Ti amo, Omi. - dico alla fine.
− Anche io ti amo, 'Tsumu. -
Baciarci?
Proibito e bello, meravigliosamente raro.
Le labbra si impastano insieme e c'è un bisogno che riconosco, ma anche una foga diversa, mani che mi stringono come fossi aria da respirare, dita fra i capelli.
Non mi lascia staccare per prendere fiato.
Sakusa comincia a baciarmi finché non sono costretto a strattonargli la maglietta.
Respiro profondamente.
− Tutto bene, Omi? -
− Non va bene un cazzo. Sei nudo e non siamo ancora stesi su un letto, cosa dovrebbe andare bene, esattamente? - mi risponde.
Ridacchio.
− Devo asciugar... −
Mani sulla... vita?
Braccia forti, le sue che mi si chiudono attorno alla vita.
Mi tira su come se fossi una piuma.
− Non hai bisogno di asciugarti. Hai bisogno di stenderti sul cazzo di letto, aprire le gambe e chiudere la bocca, 'Tsumu. -
Scoppio a ridere.
Scoppio a ridere come un normalissimo ragazzo della mia età, a farmi trascinare grondante di acqua gelida fino alla camera da letto.
− Oggi sei proprio infiammato, eh? -
− Sono incazzatissimo. -
Mi lancia, sul letto.
Mi lancia di schiena e rimbalzo una volta, prima di aggrapparmi con le mani alle lenzuola.
La luce viene da fuori, ma rende tutto visibile.
Non avevamo i soldi per un appartamento in un bel posto in centro, non con tutte le cose che abbiamo dovuto scegliere per permettere a Omi di essere tranquillo in casa, per cui ci sono elementi su cui abbiamo puntato per pagare poco.
Le insegne luminose del centro commerciale di fronte sono uno di questi.
Sono brutte, di cattivo gusto.
Ci sono sempre piaciute, in ogni caso, le luci al led colorate che brillano della loro tonalità fredda dalla finestra.
Si sposano con l'oscurità dei suoi occhi, con i nei che si appoggiano sulla pelle come tinte di china pennellate ad arte, e con le mie gambe lunghe sul letto, le gocce sulla carne.
Mi sembra di essere in uno di quei dipinti francesi di inizio Novecento.
Gli artisti maledetti, li chiamavano, vero?
Eccoci, nella nostra dimensione minuta, nel nostro angolo di libertà, rinchiusi e rifiutati da tutto, soli nella paura ed eppure strenuamente legati ad un filo di seta che ci collega, poetici nel dolore di una vita che non ha il romanticismo dei sogni.
Certi giorni vince il dolore, vince la rabbia.
E altri, l'amore.
E oggi, vince quello, quando Omi scende con le ginocchia sul materasso, appoggia i palmi delle mani vicino al mio torso, mi guarda negli occhi.
− Sono così fortunato, ad averti. - sussurra, di una dolcezza che male si mescola con la cattiveria della sua ubriachezza, prima di baciarmi ancora.
Di nuovo, non c'è aria in questo bacio.
Non c'è scampo.
Ma non lo voglio.
Mi soffoca con le labbra che chiudono le mie, mi spinge contro il letto e mi fa affondare nel materasso morbido.
Chiudo le cosce attorno alla vita.
− Ti amo, Omi. Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo... − ripeto, ogni istante che riesco, ogni secondo che ci stacchiamo.
Mi bacia ancora, e ancora, come se non ne avesse mai abbastanza, come se non fosse dell'alcol che è ubriaco, ma di me.
Mi bacia le labbra e il viso, il collo, le clavicole, le spalle, le guance e le sopracciglia, la fronte, i capelli.
− Anche io, 'Tsumu, così tanto. -
− Non mi lasciare mai. -
Inspira, espira, mani che si chiudono attorno a me e occhi che mi pugnalano nella durezza della serietà.
− Mai nella vita. -
Sono fradicio, ancora, ma non m'importa.
Lo aiuto a lasciar scendere i pantaloni con le mani, tiro su l'orlo della maglietta.
Omi non gioca da anni, come me, ma è sempre stato ben piazzato e non ha perso le fattezze.
Ha le spalle larghe, più delle mie, tanto da rinchiudermi, e i muscoli definiti da linee che sembrano quasi scolpite.
Appoggio una mano aperta sulla parete degli addominali, scorro i polpastrelli su ognuna delle minuscole increspature della pelle, poi sul fianco, i nei che cambiano la consistenza della morbidezza che afferro.
Lo stringo verso di me.
− Ora, Omi, ora. Facciamolo ora, ti prego... − mi lascio scappare.
Forse avere fretta è un'idiozia, che avrò poco da ricordare, poi.
Ma voglio tutto, e lo voglio ora.
− Prendi il lubrificante. -
Mi allungo verso il comodino, tiro fuori la bottiglietta che rimane inutilizzata troppo, troppo tempo per essere in questo posto così vicino alle mie mani, tremo.
Brillano, le ferite sulla mia pelle, con queste luci.
Deve averle viste.
Fa' finta di nulla.
Ah, ma non è vero, non sta facendo finta di nulla solo lui.
Stiamo reciprocamente mettendo in pausa tutto.
Stiamo limitando il dolore che può farci il mondo reale per stare insieme.
Che lui per farlo abbia bisogno di aver bevuto, nemmeno mi disturba quanto si penserebbe. Basta solo stare insieme, a che prezzo non importa, no?
No...?
Gli passo il flacone che lascio vagare il mio sguardo su tutto il suo corpo.
Sorride.
− Che guardi? -
− Te, Omi. Sei bello, cazzo. -
Si lecca le labbra come per inumidirle in un attimo, il lubrificante fra le mani che apre con i denti.
− Lo dicono in tanti. - scherza.
Mi imbroncio.
− Chi? Li investo con la macchina. -
Spreme un po' di liquido gelatinoso fra le dita, lo scalda fra i polpastrelli con movimenti appena circolari, ridacchia.
− Non hai la patente. -
− Serve la patente per investire qualcuno? -
− Serve la macchina, cretino. -
Alzo gli occhi al cielo.
− Antipatico. -
− Ora spalanca le cosce, per questo antipatico. - ribatte, con una vena maliziosa che mi fa davvero fremere, nella voce.
− Forse. -
Lo faccio.
C'erano dubbi?
Lo faccio e basta, le cosce chiare che si aprono nelle luci colorate della notte.
Mi guarda come se fossi d'avorio, un oggetto raro e prezioso e nascostamente bello nelle fattezze eburnee di una pelle che non è né diafana né impeccabilmente liscia, ma risulta di una bellezza elegante riflessa nel suo sguardo.
Mani dentro di me.
Dita, dentro di me.
Fa un po' male.
Non lo facciamo da troppo tempo.
È delicato, ma impaziente, quando spinge appena di più, sempre più a fondo, sempre più a fondo, sempre più a fondo.
Il palmo della sua mano mi sfiora il corpo, alla fine.
Brucia.
− Com'è? - mi chiede.
Il lubrificante rende tutto scivoloso, ma non negherò che ci sono cose per cui è necessaria una certa costanza.
Questa è una di quelle.
Forse un po' tristemente pragmatico, farlo notare, ma si può perdere l'allenamento ad una cosa del genere, se non la si fa spesso, e io e Sakusa, più per un destino infausto che ci incatena, non lo facciamo quasi... mai.
È per questo che non mi permetto lamentele.
Perché chi ha poco sa di non potersi lamentare quando gli viene dato qualcosa, che sia grezzo e ruvido come il sesso che stiamo per fare o sottile e delicato come l'affetto che mi dà.
Non posso permettermi pretese.
Non m'interessano.
− Be... bene. - borbotto.
Allarga le dita piano.
− Sei stretto, non dirmi stronzate. -
Escono lentamente, più lubrificante, movimenti pacifici dentro e fuori, dentro e fuori.
− Sakusa, ti prego, non stare qui a... −
− Sta' zitto, 'Tsumu. Fammi fare. Non voglio farti male. - taglia corto, prima di aprirmi bene una coscia con la mano, e farmi tacere con il movimento delle falangi che si piegano verso l'alto.
Questo è invece, qualcosa che non si disimpara mai.
La chimica, la bellezza dell'intreccio che conosciamo.
Che cosa e dove mi piace.
Mi sembra di essere percorso come da una scarica elettrica, complice il fatto che è da tanto che l'esperienza mi manca probabilmente lo sento di più, mentre il mio corpo si inarca elegantemente all'indietro e un verso danza fuori dalle mie labbra.
− Omi... − gemo.
Inarca un sopracciglio.
− Vedi? Fammi fare. -
Le piega un'altra volta, uno spasmo colpisce il mio corpo.
− Ancora, ancora, ancora... − lo prego, e mi asseconda, nel momento così silenzioso della notte.
Mi asseconda con urgenza ma allo stesso tempo con calma, con gli occhi che luccicano e il respiro mozzato.
Mi osserva come un'opera d'arte, inarcarmi e flettermi sotto l'azione delle sue dita, indugia nell'immagine e si prende il suo tempo.
Aggiunge un terzo dito quando il movimento diventa più fluido, e il dolore brucia per un istante, questa volta, ma non mi lamento un'altra volta.
Che forse mi fa sentire vivo, questo dolorino al fondo della pancia, e forse voglio essere barcollante e con le gambe molli domani e dimostrare al mondo e a me stesso che non è "una storia che non regge", il mio Kiyoomi, ma l'amore della mia vita.
Forse voglia di mettere in mostra, infantile e priva di senso.
Forse possessività, forse eccitazione, forse una punta di masochismo e forse tanto altro.
Eppure, non un verso che non sia di piacere lascia le mie labbra.
Mi aggrappo al suo polso, alla sua mano, che non smette di muoversi, e sento il piacere accumularsi mattone a mattone, costruirsi e inerpicarsi come un'edera sulla mia pelle.
Spalanco gli occhi e li chiudo l'istante dopo, getto la testa all'indietro, il mento che sale e il centro della schiena che si solleva dal materasso lasciando libero un arco di spazio, le mie cosce iniziano a spingere verso l'interno.
− Cazzo, 'Tsumu, cazzo, sei... − sento dire da Kiyoomi, e mi costringo a guardarlo un'altra volta.
Bella, la mia farfalla, forte e brillante nella notte che svanirà domani mattina nel nulla.
La adoro.
E forse, in fondo in fondo, come un fiore di cui si nutre o un petalo su cui si posa per un minuscolo tratto della sua vita che più non è che un respiro, mi adora anche lei.
Potrei dire di sentire le mie pupille dilatarsi.
Non consciamente, ma è una sensazione che distinguo.
Il gemito che esce dalle mie labbra è meno forte degli altri, quando vengo non sono il tipo che urla.
Anzi, i miei occhi tendono a rotolare all'indietro, il collo a stendersi.
− ... bellissimo. - è quel che mi butta dall'altra parte, sussurrato e pensato e delicato nel momento che invece è così sgrezzato dalla nostra fretta.
Vengo con gli occhi aperti, le labbra che cadono distanziate, le lacrime che non contengo e il corpo in tensione, le ciglia che mi solleticano la pelle, la mano di Sakusa dentro di me.
Liberatorio.
Effimero e liberatorio.
Veloce e avvampato, bruciante come un'ustione, violento, sofferto.
Il mio orgasmo mi bagna la pancia.
Ed eppure il modo in cui Sakusa lo guarda, in cui guarda me, che sono un misto di me stesso, l'acqua non asciugata della doccia e una patina di onesto sudore, mi fa sentire tutto tranne che sporco.
Mi fa sentire prezioso.
Tremo, continuo a tremare, cerco di riprendere fiato con calma.
− Omi... − lo chiamo, con il tono incerto.
− 'Tsumu. -
− Omi, ora... fallo, ti prego... −
Ride, ma non nel modo strafottente di quando sono tornato a casa né in quello ironico di quando mi prendeva in giro, no.
Ride come se stesse ridendo in modo onesto e genuino.
− Sei davvero insaziabile, 'Tsumu. -
Sorrido, nella stanchezza.
− Solo di te. -
− Solo di me. -
Non sto mentendo, lo sappiamo entrambi. Non sto dicendo nulla di falso, non sto inventando parole per soddisfare il suo ego.
Sto dicendo la verità.
Dicono che una persona che sta per morire di sete, quando beve, ristori il corpo ma non la sensazione bruciante di volerne ancora.
Se sei un assetato, le gocce d'acqua che ricevi, aumentano la tua sete.
Ho l'impressione che sia proprio questo, il punto.
Che questo ora mi faccia stare bene, che calmi una voglia muta dentro di me.
Ma domani?
E chi se ne frega, del domani.
Sakusa non aspetta altro tempo, non indugia, non tergiversa, anzi, mani sulle mie ginocchia, aperte completamente contro le lenzuola.
Offerta.
Immagino di avere l'aspetto di un'offerta.
La sensazione la conosco ed eppure non mi sono mai abituato, che la rarità con cui ne ho esperienza la rende confusa nei miei ricordi.
Completo.
Mi sento egoisticamente completo, quando Kiyoomi, con un gemito basso e una piega che appare e scompare sulla sua fronte, entra dentro di me.
Mi sento intero.
Felice.
Euforico, persino.
Sono sensibile, sono venuto pochi minuti fa, ma non ho il cuore di preoccuparmi di dettagli tanto irrilevanti.
Che mi faccia male o bene, questo, lo voglio e basta.
Un centimetro alla volta, piano, eccolo, là. Là dov'è che deve stare, là dove si confondono i nostri corpi nelle luci al neon delle insegne fuori dalla finestra, là dove sento che c'è e che mi vuole.
Integro.
Pronto per diventare granelli di nulla distrutto da mani che si spaventano al contatto.
− 'Tsumu... − mi chiama, con la voce che trema, bassa e gutturale.
Non sono l'unico che pativa la mancanza di questo, a quanto vedo. Non che non me l'aspettassi, Sakusa ha una vena irrequieta, dentro di sé, ma vederlo mi dà quella stessa vampata di adrenalina delle parole di gelosia di prima.
Mi sento come se avesse bisogno di me.
Per qualcuno che deve costantemente combattere con l'emozione del rifiuto, anche se inconsapevole e involontario, è come una droga.
− Muoviti, Omi, muoviti, cazzo. - sbotto.
Si appoggia meglio sulle ginocchia, alza il mio bacino con le mani quel che basta per angolarmi meglio, le mie dita scendono sui suoi fianchi, si ancorano e si fissano sulla pelle lattiginosa.
− Ti amo, Omi. - ripeto, e non so perché, ma c'è bisogno di saperlo per davvero?
Sorride.
Il primo movimento è meno piacevole di quanto ricordassi, nel senso puramente fisico del termine. Ha una violenza che non ricordavo, un dolore bruciante che mi sembra dar fuoco a tutto me stesso.
Il gemito che esce è quasi più di dolore.
Si ferma.
− Male? -
Sì, fa male.
Mi escono le lacrime dagli occhi, da quanto fa male.
− Continua. - rispondo, e basta.
Non lo faccio perché mi piace il dolore, a dirla tutta. Nemmeno ho mai capito perfettamente che soddisfazione si trovi a mescolare il sesso con la sofferenza fisica, in realtà.
Ma questo è quello che posso avere di Sakusa, e, Dio, me lo prenderò, perché è meglio di qualsiasi altra cosa del mondo di fuori.
− Sicuro? -
− Continua. - ripeto, nascondendo un singhiozzo.
Si muove un'altra volta, un'altra dopo quella, un'altra ancora.
Penso cerchi di essere delicato, ma ad una certa perde l'inibizione, forse l'alcol in circolo o l'eccitazione che si impadronisce di lui, ma il ritmo diventa serrato.
Piango ancora, inizia ad essere sempre meno doloroso e sempre più piacevole, nonostante la sofferenza rimanga in quella stilettata fra le costole affilata e cattiva.
Glielo faccio sentire.
Quando mi piace.
Glielo faccio sentire senza vergogna.
A che servirebbe, la vergogna?
So che la dignità è una di quelle cose a cui la gente di aggrappa per mantenere una presa salda sulla realtà e sulla propria persona, ma io, che non ho niente, ne ho bisogno?
La vita mi ha umiliato.
E chi non ha nulla da perdere, della dignità, se ne fa ben poco.
Le mie cosce si stringono attorno a fianchi forti, talloni che premono sul fondo di un'altra schiena, più ampia e muscolosa della mia.
Affondo le unghie sulle scapole, getto la testa indietro.
Sakusa mi bacia il collo, poi morde forte, sempre più forte.
Uscirà sangue?
− Mio. - sussurra poi, con un filo di voce, prima di gemere un'altra volta in qualsiasi cosa si stia scontrando contro di noi.
Lo posso quasi sentire, il contorno scuro delle sue labbra che si imporpora sulla mia pelle.
Appoggio una mano sul segno.
− Tuo. - rispondo.
Alza il torso, sposta i capelli con una mano e la visione mi si scolpisce nella memoria, i muscoli tesi dell'addome e le sopracciglia lievemente aggrottate nello sforzo, le labbra gonfie per i baci che ci siamo dati e la pelle sudata.
− Ti amo, Omi. - dico un'altra volta.
Mi lascia un sorriso a metà, appeso.
Chiude le dita sui miei fianchi, le stringe forte, come a volermi marchiare anche lì.
− Ti amo anch'io, 'Tsumu. -
Non si controlla più.
Non pensavo lo stesse facendo prima, ma ora di certo smette di porre qualsiasi tipo di freno a se stesso, si libera.
Fa male.
Fa male ma è così bello, perché il dolore mi ricorda almeno che lo stiamo facendo davvero, no?
Una spinta, due, tre, quattro, cinque, sei...
Non conto.
Mi inarco, un'altra volta, affondo i denti sul labbro inferiore per trattenere qualsiasi cosa voglia uscire dalla mia bocca.
− Insieme... − mi chiede, con la voce che è bassa e roca, violenta... disperata, al fondo.
Annuisco, per quanto riesca a fare in queste condizioni.
L'attimo dopo le mie cosce sono spiaccicate aperte contro le lenzuola, il mio fiato spezzato e i miei muscoli tesi.
Quello dopo Sakusa trema... dentro di me.
Alla fine lo facciamo davvero.
Di venire insieme, intendo.
Meglio di prima, più caldo, più violento, coronato dalla sensazione di sapere che ora, in me, c'è lui, dipinto nella disperazione di due ragazzini soli di fronte a problemi troppo grandi, tinteggiato nell'ombra di una notte che ci nasconde dalla realtà.
La mia voce non la controllo né la ascolto, non so in quale volteggio imbarazzante si esibisca, ma il tono di Sakusa che chiama il mio nome, il tono senza controllo, quello si imprime nelle mie orecchie come ci fosse marchiato a fuoco.
Attimi lunghi, minuti interi, mi sembra di continuare a venire.
Ogni secondo in cui mi rendo conto di Kiyoomi, Kiyoomi dentro di me, Kiyoomi che mi tocca e non si scosta schifato, Kiyoomi che è solo Kiyoomi, è migliore.
Libero.
Mi sento libero.
− Vieni qui. - chiedo, tendendo le mani.
Non esce da me, sa che non voglio che lo faccia.
Si tende.
− 'Tsumu, 'Tsumu, 'Tsumu... − ripete, come un mantra.
Il mio nome, che bello che è, nella sua voce onesta e sfatta dal sesso che non ci concediamo mai.
Appoggia il naso sul mio, le labbra increspate di un sorriso contro le mie, il suo respiro che mi batte sul viso.
Mi bacia con calma.
Senza fretta, senza paura.
Mi bacia e basta.
E io mi lascio baciare, che questa notte è nostra, nostra e basta, e non ho alcuna intenzione di distruggere tutto con i miei dubbi e le mie paure.
So che dovrei preoccuparmi.
Che dovrei mandarlo a lavarsi, che prima o poi l'aura inibita dell'alcol sparirà e tornerà tutto.
Ma...
Voglio Sakusa per me.
Voglio essere egoista.
Me lo merito, no?
Forse no.
Forse... no.
Mi rendo conto della risposta esatta alla mia domanda solo alcune ore dopo.
Ci siamo continuati a baciare per minuti, ore, forse, ieri sera. Stretti nel sudore e nell'appiccicaticcio di noi stessi, senza paure e senza limiti.
Ci siamo addormentati abbracciati, e quant'era che non lo facevamo?
Ma la mattina dopo, la mattina dopo c'è la luce, che filtra dalle finestre.
C'è il giorno, c'è la realtà.
Mi sveglio per un rumore.
Non ricordo immediatamente tutto, anzi, mi rendo conto di essere dolorante in ogni angolo del corpo, ma le informazioni sono annebbiate nella mia testa.
Si sommano poco a poco.
Il letto vicino a me è... vuoto.
Appoggio una mano sulle lenzuola.
Calde.
Sorrido, quando mi tornano alla mente le immagini di noi due ieri sera. Sorrido degli strascichi di una felicità che ora si dipinge nel ricordo.
Mi fa fatica, alzarmi, le mie gambe tremano e sono molli, ma voglio vedere se magari posso risicare qualche altro minuto di affetto, oggi.
Magari l'ho guarito, ieri sera.
Magari l'ho rimesso a posto.
Infilo la maglietta di Omi che giace ancora per terra da ieri sera, scosto i capelli arruffati dalla visuale, stiracchio le braccia.
Il rumore lo sento ancora.
Che rumore è?
Al... bagno.
Con un sorriso ancora stampato in faccia, con un sorriso stupido, idiota, di un folle che spera nonostante la speranza gliel'abbiano strappata da tempo, pieno di una gioia che non ha motivi, vado in bagno.
Certe volte mi capita di sognare di cadere nel vuoto.
Di sentire la pancia svuotarsi e gli arti farsi molli nel nulla, di essere inghiottito dall'oscurità.
Mi sveglio coi sudori freddi, quei giorni.
Mi sveglio cercando scampo dalla gabbia di filo spinato che ha creato la mia mente.
Non posso svegliarmi, ora.
Sono già... sveglio.
Sakusa ha una mano per terra, i capelli tirati indietro, le mutande e null'altro addosso, la pelle... bianca.
Non bianco eburneo della sua carnagione.
Bianco e verde, nausea.
L'odore lo riconosco.
Ha...
Sakusa ha...
Mi guarda.
Scusa, mi chiede.
Scusa con gli occhi, mentre cerco di elaborare la situazione ma non riesco, mi rifiuto, che la realtà è orrenda e mi fa schifo, non la...
Io non la voglio.
Voglio... fuggire.
Non mi arrabbio con lui.
No, lui cosa ne può?
Mi arrabbio con me stesso.
Perché ci hai creduto ancora, Atsumu? Perché ti sei dato una chance? Che persona sei, tu che eri perfettamente sobrio, tu che sapevi che cosa sarebbe successo, come ti sei permesso?
Guardalo.
Ha... vomitato.
Gli è venuta la nausea perché si è svegliato sporco aggrappato a te.
Non perché ha bevuto, lo sapete entrambi. Non vomita mai quando beve, non ingurgita mai alcol che il suo corpo non può tollerare.
Si è reso conto di essere diventato uno con te, e la cosa gli ha fatto... schifo.
Ma lo fai, in fondo, schifo.
Egoista.
Solo a te stesso, pensavi, Atsumu. Solo a te stesso quando ti prendevi qualcosa che avrebbe rifiutato se fosse stato sobrio.
Hai approfittato della sua distrazione per tradire la sua fiducia.
No, non te lo meriti, di essere egoista.
Ma ti meriti questo, ti meriti l'amore della tua vita che ti guarda desolato e dispiaciuto di fronte alla realtà che si è alzato con te, e ha vomitato perché c'eri tu, vicino a lui.
Ti meriti che la realtà sia crudele, con te.
Perché non hai imparato niente, nel dolore che hai.
Non sei diventato altruista, non rispettoso, non gentile.
Sei solo il solito stronzo che pensa solo a se stesso.
Dove ti ha portato?
Piccolo, giovane ragazzino ingenuo.
Di cosa sorridevi, prima?
Non c'è, la felicità che cerchi, in questa vita.
Forse è il momento che te ne renda conto anche tu.
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
➭ ✧❁ il titolo del capitolo si riferisce a questa farfalla, detta "farfalla luna spagnola" o col nome scientifico "graellsia isabellae", della famiglia delle saturniidae, che vive nell'europa sud-occidentale
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top