Extra: Scommessa - Parte 2
«Sei sicura di quello che fai?» domandò Valhalla con un cipiglio preoccupato. In quel momento le ricordò Konell. Aura sapeva che si era trasferito a Bura e lì si era sposato. Aveva chiesto a Sylia di mandarle una sua lettera insieme a quelle che cercavano di scambiarsi regolarmente. La guerra non aveva fermato il tempo, e il tempo aveva trovato lo stesso il modo per andare avanti.
«È solo una corona, ne faranno una nuova» fece spallucce, alla fine era davvero solo un dannato copricapo: un pezzo di metallo e nient'altro. Se lo ripeté di nuovo con la speranza che la morsa allo stomaco si affievolisse. «L'importante è che mi vedano e non pensino che siano stati gli Oros, non vorrei che qualcuno lo prendesse come un affronto alla pace e al sangue versato per ottenerla» rispose al ragazzo. «Per favore, aspettami alla nave e tieni accesi i motori per partire in casi...».
Aura non completò la frase, non voleva che le sue parole le portassero sfortuna. Era diventata superstiziosa e Valhalla, prima di partire, aveva fatto il suo solito "giochino" del futuro. Aveva scosso le rune di pietra rossa nel sacchetto di cuoio, per poi tirarne fuori due e gettarle sulla superficie di un barile. Aura non conosceva il significato di quegli strani simboli e non conoscere le cose la faceva sempre innervosire, ma Valhalla aveva scosso la testa amareggiato da un risultato nefasto, dicendole soltanto che se voleva desistere dall'impresa quello era il momento buono.
Lei aveva scosso la testa ed erano partiti. La vicinanza di quel giovane le dava un pizzico di sollievo, se non fosse tornata indietro almeno qualcuno avrebbe potuto avvisare il resto della ciurma e suo padre avrebbe saputo che era a Liberia.
Il ragazzo tenne le mani strette al timone dei comandi, dove svariati ingranaggi continuavano a cigolare e pulsanti luminosi si accendevano a intermittenza. «Sei tutta matta. Non dovresti dare ascolto al vecchio Barf, come hai detto tu, quello è soltanto un vecchio tricheco».
Aura alzò spazientita gli occhi verso la vela maestra. Le bastava già quella sua vocina interiore che voleva farla desistere a tutti i costi, non le serviva che si aggiungesse anche lui. «Ti sei rammollito? Per caso uno spirito si è impossessato di te? Sei o non sei il figlio di un pirata?».
«Ma mio padre ora fa l'oste».
«Sì, su un'isoletta nebbiosa e fuori dalle mappe, in una stamberga per soli pirati!».
Valhalla vociò: «Stamberga? Non ti permettere!». Estrasse un corto pugnale ricurvo che portava sempre alla cintura e lo puntò verso la ragazza.
Aura gli sorrise, non era la prima volta che le puntavano contro un'arma e una scarica di adrenalina la riportò a pensare al motivo per cui erano lì. «C'è di mezzo il mio onore, Val. Sai quanto è importante l'onore per una donna? Accidenti!».
Il ragazzo borbottò qualcosa contrariato.
Lei si mise a frugare in una sacca che aveva messo sotto al sedile. Ne estrasse una maschera tribale fatta di corteccia scura che lasciava scoperte soltanto due piccole fessure per gli occhi e terminava con decori di piume colorate ai lati e due corna nere che salivano come protuberanze per poi incurvarsi dietro la nuca. L'aveva trovata su un isolotto disabitato e solitario. La indossò per celarsi il volto. «Come mi sta?».
Valhalla non le rispose, si limitò ad intrecciare le mani dietro la nuca e osservare il cielo.
«Un incanto» lo sentì dire infine, mentre lei si calava con una corda dallo scafo.
Sembrava una buona idea, ma adesso aveva anche paura. Non era stato facile insinuarsi in uno dei passaggi sotterranei. Avevano aumentato a dismisura i controlli. Più volte il cuore le era martellato nel petto per poi salirle in gola, più volte era stata sul punto di essere scoperta.
Non poteva far sapere a nessuno che era tornata. Si era appiattita alla parete, trattenendo il fiato, nascondendosi dietro al mantello, dove le fiaccole appese alle pareti non arrivavano a illuminare i sentieri sotterranei.
Si maledì ad ogni vicolo cieco. Molte porte erano state chiuse, compresa quella che un tempo aveva fatto costruire proprio suo padre.
Si chiese cosa fosse accaduto se qualche soldato per caso l'avesse vista e riconosciuta, o peggio se qualche giovane nobile con cui aveva condiviso il letto l'avesse incontrata in giro. Era così stupida ad accettare la scommessa di Konell quel giorno. Sembrava proprio passato un secolo. Vediamo chi seduce più persone, ti va? Le aveva detto, cercando di tirarla fuori dalla biblioteca in un pomeriggio particolarmente caldo e assolato, e se c'era qualcosa che le piaceva tanto quanto i libri erano le scommesse. Ovviamente aveva vinto lui.
Procedeva lentamente, troppo lentamente per i suoi gusti e i palmi delle mani le cominciavano a sudare, così come i piedi negli stivali.
Forza Aura, non succederà nulla di brutto.
Conquer or die... Conquer or die... Conquer or die...
Si ripeté in testa per farsi coraggio, lo faceva sempre ma non lo aveva mai detto ad alta voce. Suo padre le aveva insegnato tante usanze Oros, comprese quelle parole. Il suo Conquer però non rappresentava una conquista sanguinosa, ma semplicemente un obiettivo personale.
Si concesse di tirare un sospiro di sollievo solo quando ormai era al sicuro dentro la città.
Scivolava come un'ombra per le strade della città bassa, avvolta nel mantello nero, la maschera per ora celata in una tasca interna. Delle bambine si erano attardate a giocare in strada. Due di loro le conosceva di nome e di fama: Violet la bambina che la Oros Meropa aveva tentato di proteggere a costo della vita, e quella che saltava la corda agilmente, come se nemmeno toccasse terra era l'acrobata del circo, Lucinda.
Prese dal loro divertimento non si accorsero di lei.
Svoltò l'angolo e trovò le bancarelle ormai sgombre lungo la via del mercato. Le lanterne delle botteghe ancora accese, ma nessuno per strada. Erano tutti rintanati nelle proprie dimore per la cena. Senza accorgersene si sentì a casa.
Ora ne aveva due, una era Liberia e l'altra il vascello di suo padre.
Continuò ad avanzare fino alla città alta, dove la fontana più grande di Liberia troneggiava sulla piazza principale. Era stata risparmiata da qualsiasi attacco e forse era l'unica cosa rimasta immutata da come se la ricordava.
Il castello era diverso. Non aveva idea di dove fosse la sala del tesoro, non più. Perciò si mise a vagare a vuoto per un po', ricordandosi la vecchia disposizione, sperando che le fosse d'aiuto. Continuava a guardarsi freneticamente attorno, cercando di seguire gli spostamenti delle vedette in perlustrazione nei giardini.
Una fila di querce le fece venir voglia di essere agile e scattante per saltare da un ramo all'altro come facevano gli Oros. I componenti della ciurma di suo padre erano formidabili, saltavano come grilli da una vela all'altra, a volte senza nemmeno usare le funi per sostenersi, come se con un balzo potessero spiccare il volo. Dai cespugli verdi si rincorrevano schiere di lucciole assomigliando a piccole stelle danzanti.
Liberia era caduta, ma non era mai stata così bella.
Stava camminando al fianco di un muro quando inciampò in qualcosa rischiando di finire per terra. Fece appena in tempo a mettere un piede davanti all'altro per evitare di cadere.
Sbatté le palpebre, concentrandosi sulla sagoma della scarpa che spuntava dai cespugli di rose. Non poteva crederci, era inciampata in un piede!
Il proprietario del piede grugnì spostando i rametti per osservare chi lo avesse disturbato. Era un Oros dalla pelle bianca e le squame grigie attorno agli occhi neri e una fila di branchie argentate che scendevano lungo il grosso collo.
La ragazza fece uno scatto indietro. L'aveva vista! Cosa doveva aspettarsi ora?
L'Oros spalancò le fauci emettendo uno sbadiglio e Aura si sventolò la mano davanti al viso per deviare il fetore che era fuoriuscito da quella bocca screpolata.
«Siete ubriaco» sussurrò riacquistando la calma.
«Ubri...aco?» biascicò lui, guardandola dal basso, disteso nel suo nascondiglio.
Aura aggrottò le sopracciglia. «Vi serve aiuto? Che state facendo?». Gli porse la mano, ma lui non l'afferrò.
«Mi ha detto di no, capisci?».
Parlava a denti stretti... e no, lei non riusciva a capirlo così bene ma annuì. Aveva gli occhi lucidi, lo sguardo perso nel vuoto come se non la vedesse veramente. Forse non si sarebbe ricordato del loro incontro. Era in armatura, la stessa dei soldati Liberiani, doveva trattarsi di un soldato, forse poteva aiutarla.
«Dove si trova la sala del tesoro, amico mio?» tentò.
Lui si imbronciò. «Siete tutti così, hic, voi donne».
Sarebbe voluta scappar via, o almeno tapparsi il naso, ma aveva paura di infastidirlo ancora di più.
«Se me lo dici farò qualcosa per te» riprovò di nuovo.
«Un bacio» sussurrò portandosi le mani squamate al petto: «Non desidero altro». Lo aveva detto come se tutto a un tratto fosse tornato lucido.
Aura sbuffò. «Un patto, va bene. Prima me lo dici, poi ti darò ciò che mi hai chiesto» disse poco convinta. Non sapeva se si poteva fidare, ma se avesse avuto fortuna magari quel soldato le avrebbe dato una mano sul serio.
«Prima io» protestò come un bambino di cinque anni.
Aura deglutì, ma dopo aver controllando che non stesse passando nessuno, si chinò tra i cespugli avvicinandosi al volto dell'ubriaco.
«Dio, il tuo fiato sembra il mercato del pesce. Ti consiglio di bere un po' di caffè prima di tornare in servizio» non riuscì a trattenersi, ma questa volta lui le sorrise beato.
Si aggiustò i capelli dietro le orecchie. Stringendo le palpebre in un moto di ribrezzo, si inginocchiò affianco a lui, e posò le labbra su quelle ruvide dell'uomo-pesce.
Lui tentò di aprirle con le sue e Aura temette che non l'avrebbe più lasciata andare. Strinse la bocca e scosse leggermente il volto.
Fu il bacio più drammatico della sua vita, ma lui non si mosse, come se fosse morto, senza nemmeno tentare di trattenerla quando dopo pochi secondi si ritrasse scioccata.
Lui ridacchiò per il solletico dei suoi lunghi capelli sulle sue squame.
Giurò a sé stessa di non baciare più nessun mutante, nonostante anche lei lo fosse per metà.
Lui chiuse gli occhi e bofonchiò qualcosa che non riuscì a capire. Sembrava che stesse facendo le fusa come un gatto.
Lo afferrò per il colletto della camicia.
«Avanti, mantieni la tua parte del patto e non prenderti gioco di me!» lo riscosse in malo modo.
«Ala O...vest.. porta se...conda... giù» sussurrò prima di riabbassare le palpebre.
Aura si rialzò completamente, pulendosi la bocca con il bordo della manica.
«Grazie» gli disse, lasciandolo lì prima di correre via per recuperare il tempo perduto.
Una porta intarsiata da vari motivi floreali in ferro era protetta da due soldati. Doveva essere quella. Ricordava che la vecchia porta era simile e si trovava in un corridoio buio e solitario.
Aura indossò la maschera e richiamò volutamente l'attenzione delle guardie che, prese alla sprovvista, puntarono le alabarde affilate contro di lei.
«Un demone?» domandò confuso uno dei soldati, ricevendo uno scappellotto dal compagno d'armi.
«I demoni non esistono, lo sanno tutti».
Aura tossicchiò, si schiarì la voce e disse con un marcato accento Liberiano: «E anche se lo fossi? Il bel demone della notte è venuto a prendervi!».
Entrambi i soldati si avvicinarono e lei lasciò cadere le ampolle che contenevano un potente sonnifero. Il vetro sottile si ruppe impattando con il pavimento. L'aroma della mistura della valeriana, dell'escolzia e della passiflora invase il cunicolo. Si sparse nell'aria del corridoio velocemente, in una nube di vapore giallastro. Aura si premette la maschera sul volto e trattenne il fiato, mentre i soldati arrancavano e poco a poco perdevano i sensi.
"Sogni d'oro" sussurrò mentalmente scendendo le scale, facendo attenzione a non calpestare i corpi svenuti.
La corona era lì, oltre la porta, come se la stesse aspettando. Era posata accuratamente sopra un cuscino di velluto nero e custodita in una teca di vetro, circondata da scrigni colmi di ori, monete e pietre preziose. La regina a quanto pare non aveva cambiato le sue abitudini di indossarla soltanto alle cerimonie importanti.
Dopotutto sembrava essere molto pesante, o tremendamente vistosa, pensò Aura.
Tamburellò le dita sul vetro. Doveva disinnescare il sistema d'allarme prima di tentare di aprirlo. Una piccola clessidra andava girata su un cerchio che formava un calendario e nel minuto in cui la sabbia scendeva bisognava sistemare delle pietre in solchi ottagonali. Anche quello era rimasto uguale.
Al secondo tentativo, con la data di nascita di Febo, il sistema crollò e le spie si spensero. Il vetro si abbassò nel piedistallo rendendo accessibile il gioiello.
Era stata una fortuna che fosse cresciuta curiosando nella biblioteca reale, tra libri, mappe, progetti... e anche scartoffie burocratiche.
Doveva sbrigarsi. Altre guardie sarebbero giunte, attirate dal trambusto provocato dai loro compagni o più probabilmente dal fumo che era risalito sulle scale, verso l'alto. Stava per afferrare il cerchio dorato tempestato di rubini, perle e ametiste, quando una piccola ombra cadde dal soffitto su di lei.
Si coprì la testa con le mani, piegandosi sulle ginocchia in cerca di un riparo e guardò oltre l'uscio giusto in tempo per accorgersi di una scimmietta che correva via, tenendo in alto la corona della regina fra le zampe.
«Ma che diavolo?». Si mise a in seguirla, udendo frenetici passi farsi sempre più vicini.
Lasciò la maschera accanto ai soldati svenuti come prova del suo passaggio, e deviò verso un piccolo corridoio laterale che non aveva notato, imboccato da quella piccola scimmia guastafeste.
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