Prologo
Sembrava come se niente stesse accadendo, come se lì fuori fosse tutto pacifico e tranquillo, come se la pace regnasse davvero; eppure, fuori impazzava la guerra.
Scintillanti lampadari regnavano con pesantezza sulle loro teste e appesi al soffitto illuminavano tutta la sala dove il ricevimento aveva preso vita – tutto brillava, ma non era la luce delle bombe, non quella sera per lo meno, perché i tedeschi festeggiavano in preda ai più scatenati balli e tutta l'apprensione per la conquista era stata messa a tacere.
Le signore agghindate avevano nelle loro delicate mani – ricoperte da guanti di seta – bicchieri di prezioso champagne e tra un sorso e un altro si facevano fintamente abbagliare dall'adulazione degli altri ufficiali in carica. Tutto quello era volto al riformare la razza tanto pura che andavano decantando, una razza a cui Ludwig non credeva affatto: non esisteva una razza, esistevano solo esseri umani con uno spirito e un'anima che alle volte poteva essere gentile, mentre altre feroce.
Era estraneo a quelle cose pur trovandosi lì in mezzo, troppo lontano dallo sfarzo che lo circondava – seppur nobile e decorato anche lui. Lo definivano tedesco, ma non si sentiva affatto appartenente a quella nuova generazione di sterminatori, quindi se ne stava lì, svogliato ma attento nell'ascoltare tutte le parole che si scomponevano dalle note musicali di quella classica melodia – rigorosamente tedesca.
A lui piacevano i compositori russi, paradossalmente: li trovava più angoscianti e ricercatori di quel mal dell'anima che li affliggeva, lo stesso del quale non si era mai liberato. In un certo senso lo facevano sentire meno solo in una distesa di neve, meno solo in quel caos che disapprovava completamente e dal quale non poteva sottrarsi.
Un attento osservatore avrebbe potuto scorgere un malessere taciuto solo guardandolo negli occhi, una sofferenza e un dolore fortificatore che, negli anni, l'aveva ormai reso inespugnabile – era come se fosse avvolto da un'inesorabile fortezza, colpevole dall'immunità complessiva che lo identificava in ogni cosa. La sensibilità, però, gli era rimasta e si può certo dire che fosse l'unica cosa che lo teneva in vita.
Sospirò appena, mentre sorseggiava anche lui dello champagne come per staccare la spina da tutta quella superficialità che lo attorniava; a suo dire, quella non era neanche superficialità, bensì certezza o convinzione di far bene – sì, doveva assolutamente bere qualcosa o non sarebbe riuscito a sopportare quella situazione ancora per molto.
Era da anni ormai che, facente parte delle SS, era costretto a mandare giù troppi bocconi amari – ma lui era un uomo di etica, lui aveva una morale: sua e non ariana. Eppure, eccezion fatta per quelle caratteristiche fisiche che distinguevano la razza, era proprio quello che la Germania voleva ricreare da capo: un modello d'uomo colto e bello che portasse alto e saldo l'orgoglio della patria; l'individuo perfetto che non esprimeva le sue emozioni, che non piangeva, che non rideva quasi mai e non parlava a sproposito.
Ludwig aveva origini italiane, ma non era tipo da affaticarsi per raggiungere un prototipo come molti: quell'istruzione e quelle capacità gli erano state impartite dalla sua famiglia, sostenitrice di una rigida etichetta.
Colto, affabile, autoritario, austero, ma soprattutto affine alla perfezione che molti avrebbero dovuto seguire, moriva dentro senza neppure poter pronunciare una parola – dava sfogo alla sua emotività solo internamente, mentre leggeva un libro o guardava un quadro. Poteva decantare la bellezza d'un dipinto, ma doveva farlo in maniera pressoché sterile, senza metterci quel pathos che un vero estimatore avrebbe elargito, senza andare oltre la soglia della pacatezza.
Dovere. La sua vita era fatta esclusivamente di doveri: verso la sua patria, verso il suo popolo, verso la sua famiglia – e personalmente non sapeva quale delle tante fosse la più disastrata.
Improvvisamente venne riscosso e trasalì, avvolto com'era dai suoi pensieri – ma lo fece muto e immobile, senza dare all'esterno nessuna percezione. Era stato distratto talmente tanto repentinamente che si sentì scuotere come se fosse un pianoforte, come se qualcuno avesse toccato ogni tasto solo per sentire la melodia che produceva: impudentemente.
«Voi non ballate, Standartenführer?»
«No, gradirei restare immobile, se non vi dispiace. Stasera propendo più ad ascoltare la musica che a ballare.»
«Ma come, eppure mi hanno riferito che siete un ottimo ballerino...»
Quella era la moglie di un altro soldato, un suo sottoposto, probabilmente, ma comunque alto in carica, che tentava di raggirare Ludwig per far fare carriera militare a suo marito – un tipo subdolo che Ludwig non amava particolarmente: non poteva mancare di mettersi a suo paragone, in fondo, perché dopo aver affrontato la Prima Guerra Mondiale non tollerava certi sotterfugi.
«So ballare, meine Frau.»
L'appellativo mia signora l'aveva usato come segno di cortesia per non essere del tutto maleducato nell'aver rifiutato il suo invito, ma c'era anche un po' di cinismo nella sua affermazione, anche perché non considerava affatto quella donna una signora.
«Avanti non fatevi pregare, Standarteführer...»
Senza neanche farlo a posta, La Tosca con E lucevan le stelle, arrivò a salvarlo – come si poteva ballare un'aria del genere? Quella lo straziava più di tutte, gli ricordava ogni dolore, ogni sconforto, e arrivava sempre puntualmente o per maledirlo o per benedirlo.
«Come potete sentire, meine frau, siamo costretti a rimandare il nostro ballo.»
La musica si estendeva leggiadra e corposa, si innalzava dal grammofono, inondando la sala con la voce del tenore. Improvvisamente, una cupa nuvola aveva colto tutti, ma fortunatamente rimasero ad ascoltare estatici, mentre qualcuno si era spinto fino a salvare Ludwig mettendo quel disco – forse una persona che poteva ritenere amica, si disse, un suo sottoposto che gli guardava sempre le spalle; non a caso, lui faceva altrettanto.
Si sentiva ristretto in quella divisa nera, ampiamente decorata dai suoi gradi militari e dalle medaglie all'onore – già, quella divisa era la sua massima rappresentazione d'apparenza, perché lui non era così; eppure doveva esserlo. Gli obblighi lo castravano, lo costringevano a quella vita, e lui non ne poteva più.
«Giurate, Standartenführer, giuratelo sul Reich che la prossima volta ballerete con me.»
Odiava quel tipo di giuramento, lo odiava perché lo costringeva a compiere qualcosa che non desiderava fare: doveva – anche perché qualcuno lo avrebbe potuto additare come traditore della patria.
«Lo giuro.»
Disse solamente, con la sua solita espressione incolore, percependo la nausea nell'obbligo di dover ballare con quella donna.
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