Capitolo 50
"Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti."
(A. Gramsci)
Il freddo di Dachau era impietoso, forse anche più rigido dell'anno precedente, ma Gustav non sembrava sentirlo. Avanzava, camminando sulla neve, lasciando orme dietro di sé, verso quello che era il comparto delle SS. Anche lui doveva mangiare.
Nella sala principale degli alloggi, a un tavolo lunghissimo, si sedevano tutte le SS armate.
Prese posto anche lui, con la sua solita compostezza; era perfetto in tutto, non trascurava mai un dettaglio, che fosse nel bene o nel male. Meticoloso, preciso, puntuale. Spostò la seduta e si accomodò. Tolto il cappello, lo poggiò sulle gambe.
Un suo collega entrò rumorosamente nella sala e si fece largo tra gli uomini ancora in piedi, puntando proprio Gustav. Tirò la sedia, la fece graffiare per terra e Gustav chiuse appena gli occhi, arricciò il naso, per il frastuono e la volgarità di quei movimenti.
«Eccoti, bastardo» lo apostrofò «quanti ne volevi vincere ancora, eh?» e puntò il dito contro di lui.
Gli altri, ancora seduti, si immobilizzarono: non volevano perdersi certi momenti.
«E perché sarei un bastardo? Ho passato tutte le selezioni, persino il colore dei miei capelli è il più elevato in purezza. Di bastardo non ho proprio niente». In effetti era così: Gustav incarnava la perfezione tedesca, quella ariana, e se ne vantava, perché i suoi colleghi non potevano dire lo stesso. Aveva i capelli di un biondo chiarissimo, lisci e folti, rasati sulla nuca, più lunghi sul capo, perfettamente pettinati. Era alto, slanciato, atletico con una muscolatura definita da far invidia a un olimpionico. Il viso maschile, con gli zigomi alti, e gli occhi algidi, celesti al pari del cielo in una giornata serena della Germania in inverno.
«Potevi lasciarmene almeno uno!» si lagnò il suo accusatore, sedendo pesantemente sulla sedia e incrociando le braccia neanche fosse un bambino di cinque anni.
«Gustav, ma di che cosa sta parlando?» intervenne il commensale SS davanti a lui.
«Prima ci siamo sfidati. Per ogni ebreo che esortavamo ad avvicinarsi al filo spinato, avremmo vinto un turno al bordello» spiegò blando «si dia il caso che ne abbia vinti ben sei e che lui rimarrà senza fino alla prossima settimana.» Un sorriso mefistofelico apparve sulle labbra di Gustav.
Il suo interlocutore scoppiò a ridere, «Ma sei proprio scemo, Hubert!» gli gettò perfino il tovagliolo addosso, per deriderlo maggiormente. «Lo sanno tutti che Gustav non va con le puttane ebree, tutti! Quindi ha solo voluto umiliarti.»
Hubert andò su tutte le furie, avrebbe voluto passarlo alle armi, e lo avrebbe fatto davvero, se solo avesse potuto; tuttavia si limitò a diventare paonazzo, consapevole dell'umiliazione ricevuta, usando come arma, soltanto una cosa: la parola. «Sei proprio un grandissimo figlio di puttana, lo sai?»
Gustav non voleva cedere alle sue umiliazioni, erano quelle, a suo dire, di un poveretto. Invece di perdere tempo con lui, prese il cucchiaio in mano e si preparò a consumare la sua minestra.
Hubert gli scaraventò via il piatto, facendolo rompere in mille pezzi a terra; e, con esso, sparse tutto il suo contenuto.
Gustav, imperturbabile, si alzò di scatto. Neanche gli altri se ne accorsero, quando, veloce, gli afferrò la testa e gliela sbatté contro il tavolo. Disse: «Volevo solo mangiare. E che cosa fai tu? Mi privi di questo, perché sei un patetico e inutile ometto che non è in grado di convincere due ebrei?» Lasciò la presa affinché potesse finalmente mettersi a mangiare qualcos'altro.
Hubert avrebbe ribattuto, ma vide tutti alzarsi in piedi e fare il saluto: aveva varcato la soglia della mensa il colonnello, era entrato Ludwig.
Si sedettero, quando lo videro sedersi a sua volta. Poco dopo di lui entrarono anche gli altri comandanti del campo. Passando, Ludwig vide ciò che restava del piatto in terra, così chiese spiegazioni a suo sottoposto, il quale non mancò di rispondere.
«Gustav Braun.»
Scattò in piedi, volgendosi verso il colonnello. «Comandi, colonnello.»
«Vorrei che mi raggiungesse nel mio ufficio subito dopo il pranzo.»
«Sì, signor colonnello.»
Gustav Braun arrivò dinnanzi all'ufficio di Ludwig, ma prima di bussare si preoccupò di essere perfettamente in ordine; alzò la mano, chiuse il pugno e colpì tre volte, quando si udì un:
«Avanti.»
Dunque entrò nell'ufficio e si richiuse la porta alle spalle. «Per servirla, colonnello. Mi volevate?»
«Prego, si sieda.»
Si avvicinò e si mise a sedere come gli era stato indicato, aspettando che Ludwig gli dicesse il motivo della sua presenza.
«Non so perché oggi vi siate messi a litigare...»
Gustav costatò quanto il colonnello fosse sagace e se ne compiacque: amava quando i suoi superiori erano persone capaci.
«... però non voglio che accada, non fin quando ci sarò anche io tra i comandanti. Non voglio che litighiate tra voi. Piuttosto, se dovessero provocarla, non ceda e me lo venga riferire direttamente.» Ludwig aveva bisogno di comprendere che tipi di lupi s'insinuavano nel suo gregge. Così, per essere più chiaro, proseguì: «Dovrà essere i miei occhi e le mie orecchie, riferirmi ogni cosa, Gustav. Ho avuto modo di osservarla, in questi giorni, e mi sembra il più attento e il più qualificato, per questo compito.» Considerava questa una mossa azzardata, ma doverosa: avere Gustav come suo fidato gli avrebbe consentito d'intervenire tempestivamente; d'altro canto, però, lo avrebbe sottoposto al rischio di essere beccato in qualche tentativo di magnanimità, che gli altri soldati e ufficiali del campo non vedevano di buon occhio.
«Sarà fatto, colonnello: per me è un onore e un dovere.» Gustav scattò in piedi dimostrando tutta la sua lealtà a Ludwig, il quale lo fece accomodare di nuovo, certo che non servisse tanto zelo; non in quel momento. Gustav provava una cieca ammirazione per l'uomo che aveva di fronte: suo padre lo aveva cresciuto a furia di racconti riguardo prodezze e tattiche del colonnello, "un esempio" lo chiamava, "un vero eroe di guerra", per come si comportava con i suoi compagni. «Posso farle una confidenza, colonnello, o sembrerei inopportuno?»
«No, mi dica pure» Ludwig spense la sigaretta nel posacenere. Il fumo aveva preso a disegnare una forma vaga tutt'intorno, mentre lui aderiva contro la poltrona di cuoio nera.
«Avrei voluto una carriera come la vostra, colonnello» iniziò Gustav «Voi sì che siete riuscito a farvi valere: le vostre medaglie parlano per voi; e lo vostre gesta, orma, sono leggendarie. O almeno per la mia famiglia...»
Ludwig sospirò, prima di rispondere. A un ragazzo giovane come Gustav, certe storie, narrate con fervore, potevano apparire avvincenti, ma a lui riportavano alla mente solo tanta sofferenza. «Non ho scelto spontaneamente di arruolarmi: sono figlio di un soldato prussiano; e, come tale, ho dovuto servire il mio paese. Anche se fossi riuscito a sottrarmi alla guerra, essa stessa, presto o tardi, mi avrebbe richiamato alle armi.» Ludwig aprì ancora il porta sigarette, ne estrasse un'altra e se la portò alle labbra. L'accese, chiuse gli occhi mentre aspirava profondamente per poi far uscire il fumo dagli angoli della bocca. Lento, riprese poi a parlare. «Dimmi, Gustav: se tanto sei prodigo verso la patria, se tanto ambisci il sogno dell'eroica gloria, perché hai deciso di prestare servizio all'interno del campo e non al fronte?» Il tono era calmo, armonioso nella sua profondità.
«Avrei voluto, colonnello. Ma una piaga più grande che affligge la Germania mi trattiene qui. Avrei tanto voluto prestare servizio al fronte, ma la vera missione dell'eroe tedesco è liberare il paese da quei topi. Quei ratti schifosi chiamati Giudei.»
«Comprendo, Gustav, sono certo che farà carriera.»
A quelle parole, Gustav si sentì gonfiare il petto, neanche fosse stato un uccello intento a mostrare il suo piumaggio.
Ludwig non riusciva a provare rabbia; al contrario, quello che sentiva era solo tanta tenerezza davanti alle sciocchezze che avevano inculcato a quelle giovani menti. Del resto non poteva pensare il contrario: conosceva l'addestramento ferreo ai quali venivano sottoposti. Prima l'inverno, poi l'istruzione militare e l'uso delle armi, l'indottrinamento politico. Durante l'estate, le marce, le esercitazioni e i campi. Così per tutta la loro vita, fino l'assegnazione finale.
Ludwig non si aspettava diversamente da quei ragazzi. Fu in quel momento, però, che gli venne in mente suo figlio Silas: era stato fortunato. Felice che lui fosse così saldo nella morale, sorrise. Sì, il vero eroe era suo figlio; ma questo non lo avrebbe detto a Gustav. Silas, sin da giovanissimo, si era prodigato per il suo paese, per difendere la libertà di tutti; si era preso le sue responsabilità di genitore e non aveva mai abbandonato nessuno. Ludwig era orgoglioso di lui: stentava a credere di averlo tirato su così bene. Quando lo avrebbe visto, glielo avrebbe detto; auspicandosi che quella vita tanto incerta glielo avrebbe concesso.
Silas era rinchiuso in quella cella da una settimana, ormai. Il tempo scorreva tutto uguale e si rifiutava di mangiare. Parlare non avrebbe parlato; neanche sotto tortura. Certo non avrebbe ceduto ai ricatti sessuali di Reinar. Rifiutò, per questo, il cibo e l'acqua, anche se di tanto in tanto entravano per costringerlo a buttare giù qualcosa, ma soprattutto per bere. Non aveva chiuso occhio per tre giorni, tanta era la sua tensione; eppure, alla fine, il sonno si era impossessato di lui. In sette giorni aveva dormicchiato solo qualche volta. Veniva trattato diversamente dagli altri detenuti, perché l'intento di Reinar era quello di fallo crollare psicologicamente affinché potesse concedergli quello che tanto desiderava.
A destarlo, in quel momento, non furono né le forze di stomaco, né il rumore della spessa porta che si apriva, ma le urla strazianti che provenivano da un'altra cella. Sapeva che era quella di Dirk, il suo ex compagno di rivolta, ma da lì e in quel momento non avrebbe potuto fare nulla per salvarlo. Ciò che gli venne in mente, invece, fu che potesse trattarsi di uno squallido tentativo, da parte di Reinar, di intimorirlo.
Un suono metallico giunse alle sue orecchie. Silas alzò gli occhi al cielo, vedendo la porta aprirsi. Davanti a lui entrarono in tre: che mi devono far mangiare oggi, tutta la Nazione? Pensò. E per finire, come ciliegina sulla torta, ad entrare fu proprio Reinar. Era venuto a vedere come procedesse il suo piano di annullamento.
«Buongiorno, Silas, dormito bene?» gli domandò.
Questa è proprio una domanda del cazzo e so che l'hai fatta con l'intento di infastidirmi. «Non ho dormito molto, ma ho dormito.» Vide una lieve espressione di disappunto dipingersi sul volto di Reinar.
Forse si aspettava di trovarlo spaventato, per quanto sentito poco prima, invece non era affatto così.
Le due guardie al suo seguito lo avevano preceduto, con una sorta di tavolino metallico, uno di quelli con le ruote, per trasportare arnesi o portate, e sopra di questi c'era un vassoio coperto con la sua cupola.
Dio sa, con cosa m'ingozzeranno oggi.
Reinar lanciò un'occhiata a Silas; a differenza degli altri detenuti, gli faceva portare acqua e sapone per lavarsi e un asciugamano. Non si poteva mai sapere quando e se Silas si sarebbe deciso. Lo trovò dimagrito, nonostante lo zelo dei suoi uomini nell'abbuffarlo a dovere. «Dimmi, Silas, ti sei forse deciso?». La voce era melliflua, da far venire i brividi, o il disgusto, secondo Silas.
«No, ma ci sto lavorando su. Sto facendo in modo che, una volta morto, lei possa fare delle mie carni ciò che vuole». Quel discorso irritava Reinar, lo sapeva. Come se non bastasse aveva fatto un chiaro riferimento alle sue volontà.
Così Reinar serrò la mascella nervoso. In un primo momento Silas lo guardò, il suo battito cardiaco era accelerato, ma poi lo vide distendersi e allora si rilassò. Fu in quel momento che Reinar saettò come una furia e strinse, con la mano destra, la sua mandibola, pronto per fargli mandare giù quanto c'era su quel tavolino mobile.
«Non voglio che tu muoia, Silas: questo mi sembra chiaro ed evidente. Voglio che tu stia in salute. Di un cadavere non me ne faccio niente. Ora ti costringeremo a mangiare finché non riterremo che sarà necessario. Tutto chiaro?»
Silas lo guardava negli occhi, con quell'ardore e quella rabbia, che mai lo aveva abbandonato e che lo mandava avanti. La mandibola gli faceva male, ma riusciva a parlare, così gli disse: «Reinar, lei è uno sprovveduto. Potrei continuare così per giorni. Sono abituato. Sin da bambino ho patito la fame, mia madre mi lasciava senza mangiare per giorni, alle volte facevo si e no tre o quattro pasti ogni sette giorni. Crede davvero che una settimana di digiuno possa annientarmi?» Sul suo volto, il rammarico di una madre mai avuta e quello sguardo che diventata ardente per il dolore.
«Allora perché lo stai facendo?» Reinar era visibilmente spazientito. Indurì ancora di più la presa, gli scosse la testa quasi a voler far perdere l'orientamento.
«Per protesta, mi sembra evidente.» Un ghigno apparve sul volto di Silas.
Reinar diede l'ordine ai suoi uomini, che si avvicinarono a Silas: in due lo tenevano fermo, mentre Reinar gli stringeva il viso come a fargli aprire la bocca a forza, chiudendogli il naso. Doveva mangiare con le buone o con le cattive. Roteò in parte il busto afferrando il cucchiaio e, riempiendolo con la minestra, lo portò alla bocca di Silas facendoglielo bere. Continuò finché non finì il piatto, fino ad arrivare a quello che, secondo lui, era il pezzo forte. «Vedrai, Silas, questo ti piacerà.» Gli mostrò un pezzo di torta, fortunatamente non una delle sue preferite, o gliel'avrebbe imposta di traverso per l'eternità. Ne prese un pezzo, con la mano, e gliela spalmò sulla bocca, spingendo affinché questa gli scendesse in gola.
Silas cercò di masticare come poté. Mandò giù tutto, non ebbe altra scelta, almeno fin quando non udì:
«Vedi, che se vuoi, sai fare il brav...» Reinar non riuscì a finire la frase, perché l'ultimo boccone di Silas gli arrivò dritto in faccia.
Una delle tre guardie si scaraventò contro di lui, gli sferrò un pugno in pieno volto facendolo sanguinare all'altezza dello zigomo e ricadere contro quella sottospecie di letto.
Reinar si spinse addosso alla guardia con tutto il suo peso, afferrandolo per l'estremità della divisa, sbattendolo contro il muro, gli intimò: «Non lo devi colpire in faccia: ovunque, ma non in faccia, te l'ho già detto.»
Silas rimase sdraiato, finse di essere svenuto dicendosi che, almeno così, lo avrebbero lasciato in pace; tuttavia Reinar, ormai, lo conosceva fin troppo bene: si avvicinò a lui ancora una volta e lo afferrò per i capelli, per la testa. Silas cercò di non fare nessuna espressione, ma a Reinar non importò, si avvicinò solo al suo orecchio, per sussurrare:
«Non conta quanto tu sia forte, Silas. Ho visto gente resiliente spezzarsi. So essere molto, ma molto paziente. Prima o poi cadrai.» Lo lasciò andare e, richiamando a sé le guardie, usci con loro dalla cella.
Silas sentì la chiave girare nella toppa e tirò un sospiro di sollievo. Un vero paradosso, sì, ma era meglio stare in una prigione da solo, piuttosto che in compagnia di Reinar. Almeno per quel giorno sarebbe stato salvo.
Lothar, da quando avevano arrestato Silas, era rimasto all'interno di casa Dubois, come se si sentisse più utile stando lì ad aspettarlo. Non mancarono le discussioni, con Salazar, riguardo la sua presenza, ma alle orecchie gli arrivava il tutto come un fastidioso bla-bla; perciò, imperterrito, era rimasto lì in salotto. Faceva avanti indietro nervoso, quasi non consumava il pavimento. Il suo era un movimento così frenetico da infastidire perfino Nail, che di calma e pazienza ne aveva da vendere.
«Mi spieghi cosa cambierai, consumandoti le suole delle scarpe?» gli domandò d'un tratto.
«Proprio un bel niente, ma sono nervoso. Sono frustrato, mi sento impotente. Non posso fare niente, non lo posso aiutare» ammise.
«La tua ansia mi sta facendo passare l'effetto della morfina» un sospiro, poi massaggiò le palpebre e sollevò, con le dita, le lenti degli occhiali. «Ti stai facendo consumare dalla rabbia e dall'ansia; e Silas è dentro una prigione: lo capisci? Riesci a comprendere che, se non la smetti e non ti calmi, non puoi trovare una soluzione. Non potrai fare un ragionamento razionale.»
Lothar si arrestò. Fermo sul posto, guardò Nail dritto negli occhi e disse: «Hai ragione, devo andare lì.»
Sotto lo sguardo incredulo di Nail, uscì di casa sbattendo la porta, frettoloso. Non mancò di portarsi dietro una pistola; meglio essere armati contro il nemico.
Nail rimase perplesso. Guardò il vuoto di quella stanza enorme e parlò tra sé e sé: «Avevo appena finito di dire "ragionamento razionale".» Scosse la testa auspicandosi che Lothar non facesse qualcosa di cui si sarebbe pentito e che non peggiorasse la soluzione.
Lothar non attuò nessun piano: si appostò fuori dalla struttura dov'era trattenuto Silas. Si disse che attenderlo lì fuori sarebbe stato meglio che aspettarlo in casa. Sapeva che Salazar avrebbe potuto fare qualcosa, conoscendo chi era il suo superiore, e che, magari, sarebbe stato in grado di convincerlo a liberare suo fratello. Le speranze erano molte, ma anche vane, pertanto non gli restava che rimanere lì, in attesa. Non importava se al freddo, sotto la pioggia e al gelo, o con la neve che cadeva; se avesse visto uscire Silas, o se avesse avuto bisogno, lui sarebbe stato lì, pronto, e senza indugio.
Poco dopo vide uscire Reinar. La tentazione di prendere la mira e sparargli in fronte era tanta, ma esitò: non voleva attirare l'attenzione dei Nazisti su di lui, meno che mai su Silas, o non sarebbe mai uscito da quella prigione. Aveva finito il turno, così si disse, e stava andando a casa.
Friederich era del tutto intento nello scrivere l'ennesima lettera che avrebbe spedito a Franz. Finalmente aveva ricevuto la risposta e questo gli faceva capire che stava bene; quantomeno che era vivo. Mise il punto all'ultima frase, quando sentì suo padre entrare in casa e salutare la governante, la quale, veloce, si diresse verso di lui prendendo il cappotto e il cappello della sua divisa.
«Friderich!» lo chiamò, non vedendo arrivare per salutarlo.
Trasalì: non si aspettava quel rientro, non così presto. Prese il foglio, lo piegò in quattro e se lo mise nella tasca dei pantaloni. Nascose perfino la penna con la quale stava scrivendo. Poi se lo ritrovò davanti e scattò sull'attenti, quando fu a un passo dal coglierlo sul fatto. «Dimmi, papà, è successo qualcosa?» fece finta di niente.
«Ha chiamato qualcuno?» rispose con un'altra domanda, sembrava quasi un gioco.
«Sì, ha chiamato Herr Dubois.»
«Oh, Ludwig! Che piacevole notizia.» Il cambiamento del tono di voce, più gioviale, e dell'espressione, più allegra, stupì Friderich: ne ebbe paura lui stesso. «Ti ha detto cosa voleva?»
«Mi ha chiesto se eri in casa, voleva parlare con te.»
«Capisco: lo richiamerò subito sperando che sia in casa. Tua madre, invece, dov'è? Non l'ho vista in giro per la casa.»
«A ricamare, insieme le sue amiche, a casa di Frau Braun.»
Felice della risposta, Reinar congedò Friderich, lasciandolo alle sue mansioni, certo che stesse studiando. Si appostò vicino al telefono e compose il numero della casa d'istanza dove si trovava Ludwig. Attese qualche secondo e un lieve sorriso apparve sulle sue labbra, quando sentì la voce di Ludwig.
«Sì, chi parla?»
«Buongiorno, Ludwig! Sono Reinar, come sta? So che mi hai cercato questa mattina?»
L'irritazione pervase Ludwig. Reinar si prendeva troppe confidenze secondo lui. Non erano mai stati intimi e mai avevano avuto un rapporto d'amicizia. Si erano solo ritrovati insieme in trincea, per giunta per puro caso. Lui era comunque un suo superiore, e come tale Reinar doveva portagli rispetto. In quel momento, però, lasciò correre: lo preoccupava di più che avesse quel numero di telefono; fortunatamente, però, prima di andare via aveva preso il suo fascicolo e l'istinto gli aveva suggerito di prendere anche quello di Reinar.
«Reinar, perché Silas è in prigione?» gli domandò senza troppi giri di parole.
Questi si crucciò. Per un attimo aveva creduto che il colonnello volesse parlare con lui, ma si era ingannato: lo aveva scoperto. «Ho il sospetto, colonnello, che suo figlio sia in combutta con i partigiani francesi, che faccia parte della resistenza.»
«Hai le prove, Reinar, o lo sospetti per convenienza?» Conosceva le manie di Reinar e il pensiero che potessero essere ricadute su Silas lo repelleva. Una smorfia di disgusto comparve sul suo volto.
«Ho il forte sospetto, non le prove certe.»
A quel punto Ludwig dovette contare fino a dieci. Sentiva l'irritazione salire, addirittura si massaggiò le palpebre come a voler invocare la pazienza. «Reinar, esponimi i tuoi forti dubbi.»
Percepì del sarcasmo e ciò gli dispiacque, tuttavia non si fece abbattere e rispose: «Lo abbiamo visto parlare con una ragazza che è stata interrogata prima di lui. Abbiamo il sospetto che lei faccia da porta messaggi per i resistenti.»
Ludwig era al limite, così incalzò: «E la ragazza? Dov'è adesso?»
«La ragazza è riuscita a passare gli interrogatori, colonnello. L'hanno rilasciata.»
Ludwig si convinse sempre di più che Reinar avesse arrestato Silas per i suoi sporchi giochetti. «Reinar, mi stai dicendo che hai arrestato mio figlio, il figlio del tuo colonnello, sulla base di una chiacchierata con una ragazza sospetta, che è stata anche rilasciata?»
«Esattamente, colonnello.» A quel punto, Ludwig posò lo sguardo verso Natthasol, che si era avvicinato sentendolo adirato al telefono. Lo fissò come a volergli comunicare telepaticamente che Reinar era un dannatissimo idiota. «Ripetimelo, Reinar...»
Sentendo la voce di Ludwig cambiare, Reinar deglutì: lui, che era una feroce bestia, davanti a Ludwig diventava sempre uno spaventato micetto. Lo aveva visto in trincea, sapeva di cosa era capace.
«Ricapitolo per vedere se è tutto chiaro» non riuscì a finire la frase, che Reinar lo interruppe, per cercare di salvare il salvabile:
«Colonnello, non gli è stato torto un capello, è nella prigione per privilegiati.»
Ludwign non sentiva più ragioni, incalzò: «Ricapitolo, Reinar: mio figlio è stato visto in strada con una donna che non conosce, sospettata di essere parte della resistenza interna alla città, la quale è stata arrestata, rilasciata e quindi, presumibilmente innocente; poi, sempre mio figlio, è stato arrestato sulla base di questa accusa, che immagino non abbia confermato, perché innocente...» Per un momento Reinar non sentì più Ludwig e subito dopo venne travolto dalle sue parole. «Perché diavolo mio figlio è in prigione?» urlò.
Reinar cercò di bofonchiare qualcosa per tentare di giustificarsi, ma ormai Ludwig era un fiume in piena, aveva perso la pazienza.
«È un inutile, inetto, maledetto idiota Reinar! Artur Axmann sarà il testimone di nozze del mio secondogenito e lei che fa arresta mio figlio? Lo liberi immediatamente prima che io lo chiami personalmente. E a proposito, Reinar: acconsentirò al suo trasferimento in Polonia. Avevo suggerito di non mandala lì, perché ho visto che suo figlio è amico di Silas, ma ho cambiato idea.»
Reinar raggelò, la sola idea di lasciare Berlino con tutti i suoi privilegi e vizi lo atterriva, così cercò di far ragionare Ludwig, che era da solo tornato a prendere le distanze: «Colonnello, le chiedo perdono. Libererò immediatamente suo figlio, ma lei non firmi quel trasferimento.»
«Allora abbiamo un accordo.» Ludwig chiuse la comunicazione, agganciando la cornetta così forte da far risuonare il metallo. Natthasol sobbalzò, poi vide il sorriso sornione sul volto di suo fratello, gli chiese:
«Ludwig, che succede?»
«Quel Reinar è un povero idiota, ho bluffato: non c'è nessun trasferimento.»
Terrorizzato dall'idea della fredda e noiosa Polonia, Reinar si era scapicollato nuovamente presso il distretto e, con a seguito i suoi tre ligi uomini, si stava dirigendo verso la cella di Silas.
Questi, appisolato com'era, si svegliò non appena sentì il rumore della serratura. Li vide entrare, quando pensò ci risiamo.
«Sei libero.»
Era libero: qualcosa che gli risollevò l'animo e il morale. Non aveva mangiato da un po', anche se lo riempivano a forza. Tratteneva ben poco nello stomaco, per il disgusto e per i crampi, che poco a poco lo facevano stare male. Ma quando sentì pronunciare quelle parole da Reinar gli passarono perfino i morsi della fame. Pensò a Lothar, pensò ai suoi figli.
Provò a risollevarsi da quella specie di giaciglio che chiamavano letto. Le gambe erano stanche, fragili, era da troppo tempo fermo. I due soldati si avvicinarono a lui e lo aiutarono a tirarsi su. Per quanto non avesse voluto essere toccato da quegli uomini, non poteva fare altrimenti se voleva uscire da lì.
Non chiese niente, voleva solo uscire. Improvvisamente, però, mentre lo scortavano verso la libertà, sentì una scossa attraversarlo: era paura, una di quelle paure profonde, incontrollate. Era chiaro che non ragionasse lucidamente, ma non si fidava di Reinar. Aveva paura che fosse una trappola, che appena girato l'angolo gli avrebbero sparato alla schiena, a sangue freddo; un ultimo gioco, sadico e perverso.
Ma, mentre i demoni della fame e della paura cercavano di impossessarsi di lui, Silas intravide l'uscita. La luce del sole invernale entrava timida dalla porta. Non avrebbe saputo spiegare perché, eppure questa gli diede coraggio. Forse era soltanto un pazzo a rischiare il tutto e per tutto, ma fu in quel momento che gli venne in mente un piano.
Aspettò di essere fuori, quando le guardie lo lasciarono libero di andarsene, dunque fece marcia indietro e avvicinò Reinar. Gli puntarono i fucili addosso, ma Reinar diede il comando di lasciarlo passare; così, Silas, sicuro di quello che stava pensando buttò giù il disgusto e il ribrezzo. Gli poggiò una mano al petto e resistette.
Reinar lo vide allungarsi fino al suo orecchio, si sentì dire:
«Mi accompagni tu a casa?»
Alzò le sopracciglia confuso. Serviva la libertà, a Silas, per farlo cedere? O forse gli era solo grato? «Davvero vuoi che ti accompagni a casa? Mi sembra strano, Silas, non sembravi di quest'opinione.»
«Non me lo avete chiesto questa mattina, no? Non potete sapere se ho cambiato idea o meno. Ma, Reinar, accompagnatemi a casa, fatemi dare una rinfrescata e mangiare qualcosa. Poi farò ciò che desiderate.»
«Va bene, come desideri.»
Reinar fece cenno a Silas di precederlo, mentre lui lo seguiva. Scesero le scale del distretto, mentre lo teneva sotto braccio per aiutarlo a scendere: era debole, lo vedeva bene.
Una volta fuori, Lothar, che aveva sostato lì, li vide insieme. Nel suo petto esplose la gioia di trovarsi di fronte Silas sano e salvo; ma cosa ci faceva Reinar vicino a lui? E perché lo teneva stretto a sé. Voleva vederci chiaro. Conosceva Silas, c'era sotto qualcosa. Li seguì quatto quatto, senza dare nell'occhio, con discrezione.
Per più di metà del tragitto Reinar se n'era stato zitto ad assaporare il momento in cui avrebbe accarezzato la nivea pelle di Silas, ma poi aveva parlato: «Silas, il tuo ardore mi ha stupito. Non pensavo potessi nascondere un simile carattere. Sei più simile a tuo padre di quanto si possa pensare; ah, il Ludwig che era in guerra.»
Silas inorridì. Era convinto che Reinar, se solo avesse potuto, avrebbe messo le sue zampacce anche addosso a suo padre; la cosa lo repelleva, l'immagine che si era formata nella sua mente lo repelleva.
«Ti ha mai raccontato le sue gesta? Il suo coraggio durante la Grande Guerra?» gli domandò Reinar; ma proseguì, non lo fece nemmeno rispondere: «Non avevo mai visto occhi così pieni di fierezza, coraggio. Una volta dovevamo decidere chi avrebbe dovuto imbracciare il lanciafiamme e sbaragliare i nemici. Tutti erano terrorizzati, un branco di femminucce prive di audacia.» La voce di Reinar si era stizzita, il volto piegato in una smorfia di disgusto. «Ma Ludwig ci guardò e ci disse: "Vado io, non sento più niente, per me non cambierà niente. Salvatevi." Non so cosa intendesse con quel salvatevi, ma so che lo fece. Indossò lo zaino militare che conteneva le bombole, avanguardia pura per quegli anni!» Reinar raccontava tutto con estrema fierezza, ma Silas era triste. Aveva compreso bene le parole di suo padre e saperlo così sofferente lo fece dispiacere. «Biossido di carbonio e zolfo» proseguì. «Imbracciata l'arma, diede il via alle danze: una fiammata di 35 metri aveva preso vita. L'assalto del nemico disfatto. La nostra trincea, salva. Ludwig era allo scoperto, bersaglio per tutti, ma era fermo, stabile, con la consapevolezza che potesse esplodergli addosso, ma lui, come un fiero combattente tedesco, non ebbe paura.»
«Sono contento che tu lo rispetti» gli disse. Non avrebbe potuto aggiungere altro. Chissà cosa si portava dentro, chissà anche cosa Nail stava patendo. Forse si erano salvati perché sapevano di poter contare sulla loro amicizia, o almeno così si disse.
Ma proprio mentre camminava e rispondeva a Herr Wolf, riconobbe la voce di Lothar che chiamava il nazista: «Reinar!»
Il sangue di Reinar schizzò sul volto di Silas prima ancora che potesse rendersi conto di cosa fosse. Chiuse gli occhi, una reazione istantanea.
Lothar gli aveva sparato in fronte. Lui non avrebbe sparato alle spalle come un mero vile.
A quel punto, Silas volse lo sguardo in terra, laddove cadde il corpo di Reinar: giaceva inerme. Cercava di rimettere insieme i pezzi e di pensare, nel mentre che il sangue usciva copioso, macchiando il terreno circostante. Dunque alzò lo sguardo verso Lothar. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma in quel momento la ragione si frappose e lo portò a dire: «Sei forse impazzito? E adesso cosa facciamo?»
I due si guardarono per un breve istante. Ancora una volta, Lothar, aveva reagito d'istinto.
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