Capitolo 5

Quei giorni erano trascorsi in fretta e Ludwig aveva continuato a sognarlo ininterrottamente: Aleph era ormai diventato come un dolce veleno, uno di quelli indispensabili per la sopravvivenza; non avevano fatto nulla, si erano solo parlati, ma a Ludwig era bastato poco per rimanerne letteralmente stregato.

I sorrisi di Aleph erano contagiosi, così tanto che non vederli lo aveva fatto cadere in un baratro di tristezza più dolce rispetto a quella che solitamente lo attorniava – quella angosciosa.

Gli uomini gli erano sempre piaciuti, non era un mistero né per sua moglie, né per suo figlio più grande: Ludwig era sempre stato bisessuale, ma le sue esperienze si limitavano all'adolescenza, prima di sposarsi con Regan, perché dopo di lei non conobbe nessun altro – anzi, le rimase fedele fino a quel giorno; ma adesso aveva bisogno di aria, di qualcuno che lo amasse davvero una volta per tutte.

Fu così che il pensiero di Aleph divenne ossigeno e il tempo assunse le sembianze dell'ansia: voleva vederlo, bramava la sua presenza almeno quanto desiderasse un suo sorriso, e non era più nella pelle all'idea di tradurre per lui quelle poesie.

Quella mattina si era svegliato bene, ma allo stesso tempo era agitato per via del fatto che fosse il giorno fatidico, il tanto atteso mattino. Non era riuscito a fare niente – né a lavorare sulle orribili scartoffie che gli passavano, né a leggere qualcosa – così aveva deciso di sedere sulla solita poltroncina, mentre la sua gamba si muoveva all'impazzata come per scandire il tempo che passava, aumentando così, senza volerlo, quella morsa che sembrava attanagliargli la gola.

Si ravvivò i capelli, sospirando stanco, nascondendo il viso tra le mani per poi strofinarsi appena gli occhi.

«Cosa diavolo ti sta succedendo, Ludwig?» Bofonchiò quelle parole come per scuotere se stesso.

«Sembri un ragazzino di quindici anni.»

Si stava rimproverando ancora una volta, sebbene avesse potuto benissimo lasciarsi andare e vivere quella situazione così come gli veniva offerta; ma erano trascorsi troppi anni da quando Ludwig aveva iniziato a segregarsi l'anima e adesso pareva quasi costargli fatica lasciarla andare tutta insieme, improvvisamente: si sarebbe dovuto riabituare poco a poco, o per lo meno così continuava a dirsi.

Non gli rimaneva altro da fare che rassegnarsi all'idea che l'altro lo aveva conquistato non facendo nulla, ma un altro cruccio lo tormentava adesso: lui aveva quarant'anni, mentre il ragazzo solo ventitre; perciò, l'etica di Ludwig gl'impediva di lasciarsi andare completamente anche per quello.

Si stava districando tra i suoi pensieri quando il bussare alla porta arrivò ovattato alle sue orecchie, allora si ridestò fino ad alzarsi in fretta e furia, sapendo benissimo chi fosse al di là dell'uscio; così si sistemò un po' la giacca, ordinando poi il nodo della cravatta, anche perché Ludwig era un uomo preciso e ci teneva ad apparire elegante e sobrio.

«Buongiorno Ludwig.»

Ecco il primo sorriso, che seguì subito il saluto. Era come se lo ricordava: meraviglioso e cristallino, degno di un ragazzo della sua età, limpido come sembrava essere.

«Buongiorno a te, Alpeh.» Lo invitò ad entrare, osservandolo quando questo mosse un passo dietro l'altro fino a varcare la soglia – lo aveva osservato, sì, così che la sua immagine potesse rimanergli impressa ancora di più rispetto a quanto già non fosse marchiata a fuoco: non poteva sapere quanti altri giorni sarebbero passati per il loro prossimo incontro.

«Ti ha fermato qualcuno durante il tragitto?» Gli domandò, stringendo un poco lo sguardo con aria preoccupata per la sorte di Aleph: sapeva che correva sempre un certo rischio, ma paradossalmente era più al sicuro a casa del colonnello che altrove.

Il giovane abbassò un poco lo sguardo, ma poi lo puntò nuovamente in quello di Ludwig.

«Un soldato mi ha fermato, chiedendomi i documenti e domandandomi dove stessi andando. Gli ho mostrato il visto e il tuo biglietto e mi ha lasciato subito andare.» Gli sorrise dolce a quel punto, come a volerlo ringraziare ancora una volta; così Ludwig batté le palpebre e sospirò appena: era contento del fatto che Aleph non avesse corso alcun rischio.

«Forse ho sbagliato a dirti di venire qui; ma non fraintendermi, non è che io non voglia vederti: ho semplicemente timore che per il mio egoismo tu possa correre dei rischi.» Era la prima volta che Ludwig gli parlava così e sopratutto era la prima volta che aveva chinato il capo davanti all'altro in un reale segno di preoccupazione e rispetto.

Il ragazzo si avvicinò a lui e gli posò una mano sul braccio, stringendo un po' la presa per confortarlo.

«Ludwig, anche se non sembra sono grande abbastanza per prendere le mie decisioni. Sono consapevole dei rischi che corro, non sono né uno sciocco, né uno sprovveduto: mi spingo a correre il rischio, però, perché ho desiderio di incontrarti e sopratutto perché mi fido di te.

So che con quel pezzo di carta in mano sono al sicuro.» Sorrise ancora, dolcemente, e a quella visione Ludwig si sentì quasi le gambe tremare; ma queste non vacillarono veramente, era solo una sensazione interiore nel vedere l'altro così premuroso.

«Perfetto allora, se la tua scelta è questa non mi resta che rispettarla.» Il colonnello fece un sorrisetto dopo aver pronunciato quelle parole, un'espressione compiaciuta, ma non maliziosa: apprezzava sempre di più la fierezza dell'altro, visto e considerato che assieme alla dignità e al coraggio erano le cose che più rispettava in un uomo – peccato che lui, spesso e volentieri, si sentisse paradossalmente un vigliacco.

«Hai portato il libro?» Gli domandò semplicemente, vedendo Aleph annuire di rimando e posare una mano sulla cartella in cuoio marrone che teneva lateralmente al suo corpo – probabilmente, quello era stato un gesto inconscio visto che il libro era stato riposto lì tanto amorevolmente.

«Allora seguimi, andiamo nella biblioteca.» Ludwig mosse qualche passo nella direzione designata, seguito da Aleph, ovviamente.

In casa, almeno in quel momento, c'era la pace poiché entrambi i suoi figli erano a scuola e sua moglie si era rintanata da qualche parte in quelle mura, come un topo, per il troppo dolore: tutte quelle ore lontano da Salazar la stavano uccidendo.

«I tuoi figli, Ludwig?» Gli domandò il ragazzo, mentre percorrevano i corridoi e le scale per raggiungere la biblioteca.

«Sono entrambi a scuola», rispose secco con l'assoluta verità.

«Come mai l'altro giorno Salazar era in casa, allora?» Si sentì indiscreto nell'immediato per aver chiesto una cosa tanto personale, ma Ludwig non sembrava essersela presa.

«Ha iniziato ad andare a scuola solo da un paio di giorni, visto che sua madre non glielo permetteva prima.»

Quello che vedeva Aleph era solo la schiena di Ludwig, non di certo la sua espressione, proprio a causa del fatto che si trovasse dietro di lui. Quando diceva quelle cose, Ludwig sembrava sofferente anche solo con il suono delle sue parole, ma al tempo stesso incolore: era un uomo stoico, quasi fatto di roccia – una roccia che neanche lui sapeva come si era formata, o forse sì.

A quel punto, il ragazzo non insistette più, credendo di diventare decisamente troppo indiscreto per indagare così prepotentemente nella vita di un uomo che, infondo, ancora non conosceva.

«Siediti qui.» Gli indicò lo stesso posto dove Salazar, qualche giorno prima, stava disegnando; allorché Aleph gli sorrise nuovamente e agli occhi di Ludwig parve più un vizio che altro – ma in fondo, accanto a quell'uomo gli veniva semplicemente spontaneo.

Quel posto era sempre immenso per Aleph, decisamente grande, per questo il giovane si sentiva un poco a disagio e allo stesso tempo protetto tra le pagine di quella miriade di libri.

Si sedette un po' imbarazzato, sfregandosi i palmi delle mani sui pantaloni – gesto tipicamente nervoso che non aveva mai fatto, no, neanche quando andava all'università.

«Puoi prendere il libro, adesso.» Ludwig sembrava ruvido col suo modo di parlare, ma era una questione di abitudine a causa del suo mestiere; soprattutto, poi, in quel momento era dannatamente in imbarazzo a sua volta: non era abituato a certe circostanze e Aleph gli sembrava una creatura celeste da rispettare sopra ogni cosa.

Dal canto suo, questa figura tanto radiosa fece come gli era stato chiesto: aprì delicatamente la borsa in cuoio marrone e ne estrasse il libro che con tanta premura Ludwig gli aveva regalato.

Gli si illuminavano gli occhi ogni qual volta che ne leggeva il titolo: Poesie di Jhon Keats. Lì era contenuta una fonte di romanticismo pari a quello della sua anima, ma questo era un segreto che custodiva gelosamente, sebbene Ludwig lo avesse già in parte scoperto.

«Hai detto che conosci un poco d'inglese, quindi, per favore, prova a leggere questo verso.»

Ludwig si riappropriò per qualche istante di quel libro, aprendolo a una pagina a caso.
Ode su un urna greca.

Non sapeva quali oscure sorti del destino stessero in combutta, ma Aleph quasi trasalì nel vedere la sua poesia preferita così spiattellata davanti a lui: era emozionato, ma per non deludere il moro cercò di leggere qualche frase, seppur con scarsi risultati. Si vergognava terribilmente e non poté fare a meno di sentirsi stupido di rimando; sapeva parlare quel po' di inglese che aveva detto, certamente, ma a leggere era davvero scarso.

«Non ti preoccupare, ora lo leggo io: sono sicuro che dopo saprai rileggerlo nel mio medesimo modo.»

Quel tono arrivò alle sue orecchie dolce e lui giurò di aver visto Ludwig sorridere appena.

Si tirò, verso di se, il libro, quel tanto che bastava per poter leggere.

«Beauty is truth, truth beauty, - that is all Ye know on earth, and all ye need to know...» La lesse e Aleph non poté far a meno di chiudere gli occhi per ascoltare quella voce così calda e profonda, dicendosi tra sé e sé che Ludwig avrebbe potuto lavorare alla radio per quanto la sua voce fosse rilassante e bella al tempo stesso. «Ora rileggila, per favore.»

Si ridestò immediatamente, abbassando lo sguardo verso il libro. Era arrossito appena e sperava che l'altro non lo avesse visto così sognante.

«Beauty is thruth. truth is beauty,- that is all ye know on earth, and all ye need to know.»

La lesse nuovamente, mettendoci molto più tempo di quello impiegato precedentemente dall'altro, ma ciò che contò fu il risultato: l'ascolto così attento di Aleph lo aveva condotto alla lettura esatta del verso.

«Bellezza è verità, verità è bellezza, - questo solo sulla Terra sapete, ed è quanto basta.» Ludwig gli tradusse subito quel pezzo nella loro lingua madre: il tedesco.
La sua espressione mutò leggermente, sembrava aver soppesato bene quei versi e averlo cullato in una sorta di nostalgico limbo.

«Trovo che sia meraviglioso», pronunciò nei confronti di quanto aveva letto, rimirando ancora le pagine di quel libro.

«Sai, Ludwig, casualmente hai aperto il libro e hai trovato la mia poesia preferita.» La confessione di Aleph arrivò al momento giusto.

«Non credo che nulla sia casuale: qualunque cosa accaduta doveva succedere, Aleph.» Lo guardò per qualche istante, intensamente, apparentemente privo di ogni espressione; eppure quegli occhi parlavano e Aleph riuscì a vederci tutta la sua sofferenza.

«Forse hai ragione, Ludwig, forse nulla accade per caso», gli disse, sorridendo a sua volta, ma non gioviale come al suo solito – era un sorriso di supporto, quello, un sorriso dolce e confidenziale.

Seduto a quel banco, Salazar si sentiva come un pesce fuor d'acqua ed effettivamente non sapeva neanche come decifrare le sue sensazioni; ma di una cosa era certo: era lontano da sua madre e questo era più che sufficiente.

Sarebbe stato per sempre grato a suo padre per avergli permesso tanto, dal momento che la scuola era un diritto per molti – e per lui era più di quello: una conquista.

Era arrivato a novembre, quando ormai l'anno scolastico era stato già avviato, e i suoi compagni lo guardavano diffidenti.

Effettivamente era un ragazzino che dava piuttosto nell'occhio a causa di sua madre che gli aveva lasciato crescere i capelli – questi gli carezzavano appena l'altezza delle spalle, neri e lucenti, risplendendo sotto quella poca luce di una giornata nuvolosa; ma non solo il suo aspetto fisico era particolare: anche la cura maniacale del suo abbigliamento – e non era stata la donna a decidere per lui quella mattina, anzi, era stata tutta opera sua sebbene fino ad allora fosse stato indotto da lei a scegliere cosa si addicesse meglio e come abbinarlo.

Non immaginava minimamente quale sarebbe stata la reazione dei suoi compagni, né tantomeno gliene importava qualcosa: lui era comunque estraniato dalla realtà, lui viveva nella sua mente.

Si era avvicinato al suo banco in silenzio, senza fissare nessuno, probabilmente con fare da snob – anche se di snob non voleva assolutamente avere nulla; Salazar era un tipo, che seppur ancora tredicenne, metteva soggezione chiunque: incuteva terrore, insomma.

Aveva rivolto un saluto al maestro, sedendosi poi al suo banco e restando lì in silenzio per tutto il tempo, incarnando il ruolo dell'alunno perfetto proprio per il fatto che non fosse abituato a parlare – si era praticamente concentrato a pensare ed era quello che faceva da sempre: pensava soltanto, perché sua madre gli vietata di parlare e voleva letteralmente dialogare da sola, come se suo figlio fosse una bambola vivente, una bambola che amava con tutta se stessa, morbosamente.

Silas si trovava al piano superiore di quell'istituto, mentre suo fratello a quello inferiore: erano praticamente vicini, ma distanti come sempre. Per lo meno, però, Salazar aveva la certezza di potersi muovere liberamente all'interno di una struttura che non era casa sua, bensì un luogo dove lui era libero di pensare e agire nei limiti della condotta scolastica – ovviamente.

Nonostante tutto, però, quel giorno non tardarono ad arrivare i fraintendimenti e uno dei suoi compagni di classe approfittò proprio dell'orario di ricreazione per avvicinarlo: Salazar se ne stava seduto s'una panchina nel cortile della scuola e aveva in mano un libro da leggere – un libro scolastico, certamente: il Mein Kampf, libro che tutti i ragazzi, facente parte della gioventù hitleriana, dovevano assolutamente leggere.

Ludwig gliel'aveva risparmiata come lettura, sapendo che prima o poi sarebbe stato iniziato al regime a scuola, confidando anche nel fatto che lui fosse abbastanza intelligente da opporsi a questo soltanto con il pensiero – differentemente da Silas che in effetti gli procurava non pochi crucci – e se così fosse stato, probabilmente sarebbe bastato a rallegrarlo perché almeno sapeva che suo figlio non sarebbe mai stato uno di loro.

Lo stava leggendo durante la ricreazione, mentre alcuni giocavano a calcio o praticavano altri sport adatti alla razza, anche perché doveva recuperare quella lettura dati i mesi persi dall'inizio dell'anno scolastico.

«Ehi, tu!» Quel tono era abbastanza canzonatorio, dispregiativo, ma Salazar non vi badò e rimase con gli occhi incollati al libro – non era solito a calcolare gli inetti. «Ehi, tu! Dico a te, sei sordo oltre che muto?»

Niente, lo ignorava ancora, convinto di non voler dare la più minima importanza a certa gentaglia neanche degna di un suo sguardo; c'era qualcosa, però, che non tollerava e questa coincideva con i gesti fuori posto: nessuno doveva toccare la sua roba e puntò il suo sguardo azzurro e luminoso, negli occhi dell'altro, quando l'altro ragazzo gli fece saltare, con un gesto, il libro dalle mani.

«Non sono né muto, né sordo: non amo sprecare tempo con le merde.» Dritto e conciso, spietato come il suo animo era, Salazar non conosceva indugi e a causa di sua madre diventava, giorno dopo giorno, sempre più intollerante.

«A chi hai dato della merda, poppante?»

Questo tipo era uno dei più arroganti e attaccabrighe, uno di quelli che appoggiava il Nazionalsocialismo, uno di quelli che si sentiva ariano fino al midollo.

Lo afferrò per il colletto della camicia e Salazar, impassibile lo guardò negli occhi, gelido, inespressivo, senza mostrare alcuna paura.

«Proprio a te», rispose con il suo tono di voce piatto, senza intonazione, senza nulla – e questo non fece che far imbestialire l'altro proprio perché non mostrava paura.

Ad intercettare i due fu lo sguardo attento e curioso di Silas che, non appena vide il fratello tra le grinfie di quel bruto, si spinse in una corsa per raggiungerli con tanto di Lothar al seguito che lo seguiva ovunque lui andasse.

«Senti, ragazzino come osi? Sai che sei il nuovo arrivato, no? Quindi devi rispettare i miei voleri.» L'ariano tendeva a bulleggiare tutti quelli della sua classe e stava cercando di farlo anche con lui.

«Io rispondo solo a me stesso.»
Ancora una risposta secca e concisa, ancora una risposta sicura, temeraria, senza paura – perché Salazar era spaventato da ben altro nella vita, non di certo da un bullo qualunque.

«Basta, smettetela voi due! Lascia stare mio fratello!» Silas era intervenuto prontamente, non sapendo che Salazar se la stesse cavando più che egregiamente da sé.

Bruno a quel punto lo lasciò andare, ma subito gli poggiò una mano sul viso come per metterlo al suo posto – o per lo meno provò a farlo, perché non fece in tempo a raggiungerlo che Salazar si voltò di poco per mordergli la mano fino a farlo sanguinare.

«Salazar, no!» Gridò Silas, mentre Lothar osservava la scena preoccupato; sapeva quello che accadeva nella famiglia del biondo poiché i due passavano parecchio tempo a chiacchierare.

«Bastardo!» Gli disse Bruno a denti stretti, muovendosi verso il moro con tutta l'intenzione di picchiarlo, ma Silas si posizionò davanti a lui per proteggerlo.

«Se tocchi mio fratello ti ammazzo.» Quella non era solo una minaccia, lo avrebbe fatto davvero.

«Cosa vorresti fare, razza di checca?» Bruno sogghignò: non credeva di certo che Silas, con quello che si diceva sul suo conto, fosse davvero in grado di difendere altre persone, né tantomeno che potesse ammazzare qualcuno – lo riteneva privo di ogni forza.

«Se proprio ci tieni allora te lo stacco a morsi.» Silas ringhiò quelle parole verso Bruno che non era certo intenzionato ad andarsene, doveva proteggere suo fratello e in qualche modo, prima o poi, ci sarebbe riuscito a mandarlo via.

«Non farmi ridere, ti piacerebbe, eh... lo so che a certi frocetti come te piacerebbe una belle verga ariana.»

Silas quasi vomitò a quelle parole e Lothar, dal canto suo, poté solo stupirsi nel sentire certe frasi provenire da ragazzini di tredici anni.

«Sparisci», ringhiò ancora; eppure quello non si degnava ad andarsene e decise anzi di sferrare il suo attacco: partì con un pugno in direzione di Silas, ma fu Lothar a mettersi in mezzo questa volta, fermando quel colpo infame con la propria mano – lui aveva sedici anni e aveva il corpo più sviluppato di Bruno, quindi poteva anche avere la meglio.

«Silas ti ha detto di sparire, ma non ti ho visto volare via», iniziò Lothar mentre stringeva con la sua mano il pugno dell'altro come a volerglielo sbriciolare. «Perciò, se non vuoi che ti spezzi la mano, fossi in te me ne andrei.»

Bruno cercò di divincolarsi piuttosto in fretta a quel punto, anche perché non era coraggioso come voleva far credere: cercava infatti di approfittarsi di quelli che, apparentemente, sembravano più deboli. Scappò quindi con la coda tra le gambe.

Era approdato a casa Wolf da circa cinque minuti e già odiava quell'aria: se c'era una cosa che detestava dei suoi simili era il fare festa mentre fuori esplodeva il mondo.

Ancora una volta, Ludwig era costretto a sottoporsi a un simile massacro per se stesso e il fatto che con lui ci fossero sua moglie e i suoi due figli non lo rilassava per nulla, anche perché avrebbe dovuto stare più attento – non doveva sbagliare nulla: una parola o un'azione sarebbe stata fatale.

Questo compito, Silas non glielo facilitava di certo, visto che come maschera – richiesta dagli ospiti – aveva adottato il suo intero essere. Si era imbellettato a tal punto da sembrare quasi una donna e Ludwig cominciava a domandarsi se suo figlio lo volesse vedere morto davvero oppure fosse solo una sua provocazione senza malizia; sapeva che nel suo sangue scorreva sangue ribelle, ma così era come sbattergli in faccia tutto il suo disappunto!

Si era addentrato nella sala da ballo con un completo viola sgargiante, un fazzoletto scarlatto legato al collo e piume, del medesimo colore del vestito, applicate tutte intorno all'occhio – uno solo, fortunatamente, e sempre per fortuna aveva lasciato che sua madre detenesse il ventaglio che, bianco com'era, si sposava con il suo lungo abito di pizzo che le lasciava la schiena scoperta.

Nel frattempo, Regan badava a Salazar – dopo averlo condotto al tavolo buffet per invitarlo a mangiare più volte, ovviamente. Salazar, dal canto suo, pregava di diventare come un eroe fittizio dei libri così da vivere senza avere la necessità di mangiare.

Ludwig, quindi, era stato lasciato da solo nella mischia e ancora una volta se ne stava impalato a osservare la scena con indosso la sua divisa, sicuro che prima o poi qualcuno si sarebbe avvicinato per infastidirlo; non si sbagliava mai, purtroppo, e se lo ripeté mentalmente quando la donna alla quale aveva prestato giuramento la scorsa volta si fece avanti trionfante, accompagnata dal suono della musica.

Suo malgrado, il colonnello non si sarebbe potuto tirare indietro e anche se avesse continuato a maledirla internamente, quella donna non gli avrebbe permesso di ascoltare la musica dal vivo che i Wolf avevano gentilmente offerto per il ballo – perché quelli che suonavano erano musicisti in carne e ossa.

A Ludwig piaceva osservare i movimenti degli arti che si congiungevano con gli strumenti, ma non gli era stato possibile, ancora una volta, interrotto da quella signora:

«Standarteführer, vedo che anche voi siete qui.»

Quell'arrampicatrice sociale che detestava sin dal profondo era tornata alla riscossa, non si era dimenticata del giuramento di Ludwig e questo cominciava a porsi delle domande sulle ragioni che potevano spingerla a tanto – oltre a quella di far fare carriera a suo marito, ovviamente.

Casa Wolf era molto grande e sopratutto la sala dove erano stati accompagnati tutti gli invitati, ma lei era riuscito a scovarlo fra centinaia – probabilmente per la sua altezza, cosa per la quale Ludwig prese a maledirsi da solo: spiccava tra i molti ed era bersaglio facile per chiunque.

«Infatti», rispose in maniera atona. Non disse , ma preferì optare per un'altra affermazione, una di quelle che non palesavano reale interesse: era semplicemente annoiato e disgustato da lei e da tutto quello che stava vedendo.

«Questa volta, allora, non potete proprio tirarvi indietro: avete giurato», disse civettuola, sorridendogli anche come a volerlo convincere che aveva fatto un affare d'oro con quella promessa; di certo, però, Ludwig non era del suo stesso avviso, seppur conscio di non poter rifiutare.

«Lo ricordo bene, meine Frau, lo ricordo bene.»
Chiunque avrebbe percepito che il suo tono era quello di un uomo che sarebbe voluto fuggire volentieri dalle grinfie di quell'arpia, ma lei ci godeva nell'averlo incastrato in quella morsa e dopo tutto le interessava ben poco dell'interesse altrui.

«Non siete contento di ballare con me?» Chiese, avendo colto la sfumatura annoiata nella voce dell'altro, partendo subito all'attacco con la domanda di riserva e sempre più impervia. Fortunatamente, lui era abbastanza intelligente da sapere cosa dire e sopratutto da riuscire a trovare sempre una scorciatoia.

«Oh, no, al contrario: non ne vedo l'ora.» Sorrise lievemente alzando solo un lato della bocca – era più una smorfia che un sorriso, il simbolo di una resa amara.

«Splendido! Ne sono felice», sorrise lei, fintamente; doveva apparire raggiante e felice, aveva capito che lo infastidiva e vederlo a quel modo la rendeva sempre più entusiasta del compito che suo marito le aveva affibbiato.

Non era un uomo che i due coniugi rispettavano, nonostante Ludwig fosse un eroe di guerra, ma sapevano che era un buon appiglio per aumentare di grado tra le cerchie delle SS.

«Standarteführer, come mai voi vi siete sottratto alla maschera? Eppure l'invito lo recitava chiaramente.» Gli domandò, dato che tutti gli altri uomini portavano una sorta di mascherina nera sul volto – molto virile, ovviamente – nonostante fossero in divisa: in fondo, anche uomini del Reich potevano cedere a qualche divertimento.

«Vedete, meine Frau, la maschera la sto indossando: la porto tutti i giorni.» La sua risposta fu schietta e quasi disarmante. Lui era costretto a portare quella divisa tutti i giorni ed era la maschera di carnevale più lunga che avesse mai indossato.

Quella frase fu talmente inopportuna per lei che rimase in silenzio, così fu Ludwig a dover intavolare un altro discorso, perché non poteva di certo continuare a ballare senza dialogare.

«Ad ogni modo ditemi: ballate con me per parlarmi di vostro marito, quindi prego, parlate pure.» Si era stufato di reggere il gioco meschino di quei due, così fu lui a uscire allo scoperto; ma ovviamente aveva un piano.

«Oh, Standarteführer, non dite così. Non pensate che io mi stia approfittando di voi...» Si finse offesa, ma in cuor suo se la rise, soddisfatta, come se si fosse convinta di essere riuscita a raggirare Ludwig senza rendersi conto di essere caduta nella sua trappola.

«No, state tranquilla, nessuno potrebbe approfittarsi di me; quindi prego, dite pure.» Era vero, nessuno poteva approfittarsi di lui: aveva visto e vissuto troppo per essere preso per i fondelli in modo tanto semplicistico.

«Vedete mio marito vorrebbe lavorare al fianco del Führer... lui ha la sua stessa visione, crede nella sua politica e vorrebbe aiutarlo.» La voce di lei sembrava quasi supplichevole, come se si fosse detta o adesso o mai più, per tanto si lanciò in quella preghiera sfrenata che non subì nessun effetto, anche perché era soltanto riuscita a disgustare profondamente il colonnello che, dal canto suo, immaginava quale ideale e quali alti valori potesse avere il marito di quella donna.

«Provvederò domani stesso, allora: parlerò con chi di dovere per far accedere vostro marito alle grazie del Führer», le rispose, lanciando la sua ultima esca e godersi la disfatta nel vedere l'espressione della donna collassare nell'orrore di li a breve.

«Dite davvero?» Entusiasta si mostrò senza difese, con gli occhi che le brillavano; quasi sarebbe scoppiata in un grido di gioia, così si disse Ludwig, guardandola: pensava davvero che quello stesse per esaudire il suo desiderio.

«Certo, se vostro marito vuole essere sfruttato e vuole morire giovane, chi sono io per impedirlo?» Sorrise beffardo, quasi fosse lui stesso incredulo per quanto aveva appena detto. Si era meravigliato da solo in effetti, ma si disse che, forse, quella donna doveva essere arrivata a provocargli davvero un disagio interiore.

«La ringrazio.»

Arrivò il ringraziamento sommesso di lei, lo sguardo perso e quasi disperato, adesso realmente preoccupata per suo marito.

La musica era terminata. Prontamente i due si arrestarono all'unisono, visto che anche il ballo era giunto alla sua fine.

«È stato un piacere», sorrise Ludwig di rimando a lei, lasciandola andare.

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