Capitolo 48
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
(Alle fronde dei salici -S.Quasimodo)
Un altro giorno era sorto a Dachau; e Ludwig, che doveva svolgere il suo dovere, si detestava per questo. Il solo pensiero di dirigersi un'altra volta al campo lo innervosiva perché, proprio come suo figlio, non tollerava le ingiustizie.
Doveva ammettere di non trovare poi così sbagliato quel trattamento per gli assassini e gli stupratori. Tuttavia, quella gente non era solo un cumulo di malviventi, e l'unica cosa che poteva fare era addolcire la pillola ai prigionieri. Sapeva che, con un piccolo gesto, avrebbe potuto migliorare loro la giornata.
Uscì dal bagno dopo essersi sciacquato la faccia; l'acqua fredda lo distoglieva dai suoi pensieri, lo aveva sempre fatto. Non doveva prestare ascolto alla sua mente, o sarebbe stato risucchiato da un vortice emotivo che, probabilmente, lo avrebbe fatto impazzire prima della fine della guerra. Si concentrò a pensare, invece, a come potesse allietare quella giornata ai prigionieri. Così si diresse in cucina e prese una bustina di carta, quella dove conservava il pane. Si mise a tagliare in pezzetti piccoli la pagnotta fresca che Natthasol era riuscito a procurarsi il giorno prima.
«Ludwig» lo chiamò.
Ludwig sbatté le mani sul tavolo, e con queste anche il coltello che stava usando. Fece un respiro profondo, cercò di calmarsi, di riprendere fiato. Aveva riconosciuto la voce di suo fratello e non aveva motivo di essere preoccupato.
«Natthasol... buongiorno» gli disse, vedendolo entrare in cucina e avvicinarsi.
Natthasol gli accarezzò la guancia come per confortarlo, disse: «I tuoi nervi sono tesissimi, ma non devi essere preoccupato in casa tua. Qui nessuno ti farà male.»
«È questo il punto, Natthasol. Questa non è casa mia. Non mi sento al sicuro qui. Mi sento sempre sotto pressione, come se qualcuno potesse scoprirmi da un momento all'altro. Che possa uccidermi, o uccidere voi, solo perché non faccio fuori le persone gratuitamente; e, come se non bastasse, sono preoccupato per Aleph. Non vederlo e non sapere se sta bene o meno, mi fa impazzire. Se anche lui fosse portato in uno di questi campi? La sola idea mi uccide.»
«Calmati, fratello mio. Agitarti in questo modo non ti farà agire in maniera lucida. Cerca di fare solo il tuo dovere nel minimo indispensabile.»
«Sì» rispose.
«Queste briciole di pane per chi sono? Questi non possono essere definiti pezzi di pane, queste sono briciole...»
«Li ho fatti così piccoli affinché i prigionieri del campo possano consumarli nel minor tempo possibile, sapere che noi abbiamo da mangiare tutti i giorni, mentre loro ingeriscono solo acqua colorata... » Si interruppe quasi come se fosse perso in un ragionamento e poi ricominciò a parlare, disse: «Non li hai visti, non sai come sono magri, come muoiono...»
Natthasol gli afferrò il viso tra le mani, lo guardò serio in volto. «Ascoltami bene, non è colpa tua, né puoi salvare tutti da solo. Fidati se ti dico che fai fin troppo e che il pane che porterai oggi sarà per loro fonte di gioia. Sei buono, Ludwig. Non lo dimenticare mai.»
Subito dopo avvenne qualcosa che Natthasol non si sarebbe mai aspettato: si ritrovò tra le braccia di Ludwig. Ricambiò quell'abbraccio e sorrise, felice di quel contatto affettuoso con suo fratello. Sperò di avergli infuso tutto l'affetto e la fiducia di cui aveva bisogno.
«Ora devo andare» disse Ludwig, mettendo la busta con il pane nella tasca del cappotto. «Più tardi arriverà la precettrice per Castaldia. Sappiamo che è piccola, ma a quanto pare deve iniziare a familiarizzare con lo studio.»
«Ma... non staranno esagerando?»
«Evidentemente preferiscono vedere una bambina del Reich sui libri, piuttosto che giocare. A ogni modo, vorranno instradarla verso il Regime, spero che la bambina abbia la metà della tempra di suo padre.»
Natthasol alzò gli occhi al cielo per quell'assurda situazione. «Poveri noi» disse, simulando un tono disperato.
«A dopo, Natthasol. E mi raccomando!» tracannò la tazza di caffè e uscì di casa.
Natthasol aveva preparato Castaldia per l'arrivo dell'istitutrice. Tra i due ci fu una lunga contrattazione sulla scelta del vestito: bianco e celeste. Castaldia, scelse il vestito celeste.
La bimba se ne stava seduta sul divano, mentre suo zio era intento a farle i famigerati codini e lei guardava il quadro del Führer che aveva difronte. Pensò che avesse davvero degli orribili baffetti.
«Quel quadro mi intristisce, zio. E poi... qui è tutto marrone» disse incrociando le braccia.
«Fa parte dell'arredamento, di certo non avevamo il tempo per modificare tutto.»
«Ma, almeno a casa c'era la sedia ondulata.» Con il piccolo braccio mimò la forma della sedia, facendo riferimento al pezzo del Bauhaus sul quale stava particolarmente comoda.
Natthasol, poi, le passò lo specchio per farle vedere i suoi amatissimi codini; la bimba lo prese e si specchiò contrariata.
Disse: «Non ci siamo zio. Sono carini, però, non sono come quelli di papino.»
Sarebbe andato su tutte le furie, se non fosse stata sua nipote quella a disprezzarlo in quel modo. Pertanto sospirò e le rispose: «Non ti farò fare pratica con la treccia più tardi.»
«I tuoi codini sono bellissimi, zio!»
Natthasol rise.
Quando sentirono bussare alla porta, Natthasol porse la mano alla bambina per aiutarla a scendere dal divano. Con una manina si rassettò la gonna appena sgualcita per poi incamminarsi verso la porta insieme allo zio.
«Buongiorno...» Natthasol prese una breve pausa, cercando di vedere se la donna avesse una fede o meno. Voleva appellarla nel modo giusto e non sbagliarsi appena conosciuta. Non portava anelli alle mani, perciò proseguì: «Signorina...»
E lei si presentò: «Elga Meyer.»
Castaldia sorrise alla donna. Era un gesto che le veniva spontaneo, quello di sorridere alle persone che conosceva, un gesto caloroso che aveva imparato da suo padre, perché, quando era con lei, le sorrideva sempre.
Elga, dal canto suo, alzò un sopracciglio quasi fosse irritata per tale slancio di dolcezza. Parlò: «Posso entrare? Non credo di poter educare la bambina sulla porta. Da quello che vedo abbiamo molto da lavorare.»
Natthasol si domandò il perché di tale affermazione. Castaldia non aveva proferito parola, né si era mossa: che cosa aveva fatto di male? Pensò che, forse, ai suoi occhi, era potuta apparire maleducata dal momento in cui non l'aveva salutata. Decise di intervenire rivolgendosi a Castaldia: «Piccola, come si dice? Saluta la signorina.»
«Buongiorno, signorina.» Si prese i lembi della gonna e incrociando avanti un piedino si chinò appena, facendole la riverenza.
Natthasol alzò gli occhi al cielo, pensando che la cosa fosse fuori luogo. Ma non era colpa della bimba, poteva scommetterci quello che aveva di più caro che era stato proprio Silas a insegnarle così. Non disse niente, si limitò solamente ad accompagnare Elga nella sala in cui avrebbe dovuto istruire Castaldia. Poi, si prese un momento per parlare con lei, prima di lasciargliela. «Bambina mia, ti sembra il momento di fare la riverenza alla signorina Elga?» chiese, inginocchiandosi di fronte a lei per parlare alla sua altezza
Ma Castaldia dovette comunque alzarsi sulle punte delle scarpette per arrivare all'orecchio di suo zio e rivelargli il segreto. Si mise anche una mano davanti alla bocca onde evitare che Elga potesse sentirla, bisbigliò: «Papà mi ha detto che se una persona mi sta antipatica, posso essere... come si dice?»
«Sfacciata?» suggerì.
«Sì, sì, ecco! Mi ha detto che posso essere così, ma che comunque devo sembrare educata. Quella lì ha la faccia cattiva, zio.»
Come poteva darle torto Natthasol? Elga si era presentata vestita in un tailleur grigio scuro, i capelli biondi rigorosamente raccolti e, sul volto, portava un'espressione severa.
L'accompagnò dalla signorina, fece per aiutarla a sedersi quando, di colpo, venne interrotto bruscamente da Elga. «Cosa sta facendo? Deve imparare a sedersi da sola.» Aveva un tono pacato, ma molto serio. Suonò quasi minaccioso alle orecchie di Natthasol; e, al ricordo, la persona più severa che aveva conosciuto era stato suo padre.
«Va bene. Castaldia, prova a sederti da sola.»
La bambina si voltò per guardarlo, ma lui, con un gesto della mano, la incoraggiò a salire sulla sedia. Castaldia volse lo sguardo alla seggiola, che era più alta di lei. Come poteva riuscirci? Suo nonno la prendeva sempre da sotto le braccia, per metterla su a sedere. Mise un piede su una scanalatura della sedia e cercò di issarsi per aggrapparsi al sedile e tirarsi su. Con un po' di fatica, ci riuscì. Guardò la signorina in attesa di approvazione.
«Non sei stata molto elegante, ma ci sei riuscita: brava» le disse. «Herr Dubois, la pregherei di lasciarci se non le dispiace.»
Natthasol salutò la bambina con un gesto della mano e, con il cuore in gola, lasciò la stanza, ritirandosi in cucina. Era molto apprensivo e aveva paura che quella donna potesse trattarla male.
«Vediamo. Visto che sei ancora piccola, iniziamo con qualcosa di semplice.» Elga si fermò a riflettere su cosa potesse chiederle, i suoi occhi si posarono sul quadro del Führer. «Sai chi è il capo del nostro paese e presto di tutta l'Europa?»
Castaldia si voltò e con il dito indicò il dipinto appeso al muro.
«E come si chiama?»
«Brutti baffetti» rise.
Elga divenne paonazza in volto per la rabbia. Come aveva osato, quella piccola creatura, beffarsi del suo amato Führer? «Sei una bambina ignobile e sfacciata, come osi prenderti gioco del nostro amato signore? Il suo nome è Adolf Hitler e ora sarai costretta a ripeterlo dieci volte!» Tuonò senza ammettere nessuna opposizione.
«Adof Hitter» Castaldia lo pronunciò male, non era abituata a dire quel nome. Non ce ne era bisogno in casa. Lo aveva sentito nominare spesso, ma nessuno si era presa la briga di lasciare che lei imparasse alla perfezione la sua pronuncia.
«Lo pronuncerai fino a quando non lo dirai alla perfezione, stupida ragazzina sciatta!»
«No sono sciatta!» Non ne conosceva bene il significato, ma suo padre le diceva sempre che non doveva essere sciatta, che doveva avere i capelli in ordine, indipendentemente dalla acconciatura che sceglieva e dal suo vestito. Quindi comprese piuttosto velocemente che avesse a che fare con la sua persona.
«Dovresti portare le trecce. Due trecce, le trecce dorate che ogni ragazza ariana sogna: non quegli orribili codini.»
Castaldia si portò le mani ai codini con le lacrime agli occhi. Lei amava i suoi codini, il suo papà glieli faceva sempre; padre che le mancava terribilmente. «I miei codini non hanno niente» spiegò. La sua voce era diventata tremula, presto si sarebbe rotta per il pianto.
«Da domani voglio vedere le trecce. Niente codini, niente vestiti con fronzoli e merletti. Non voglio bambine sciatte davanti ai miei occhi, solo fiere e future donne ariane.»
«Io voglio i codini...» biascicò, mentre le lacrime sgorgavano dai suoi occhi. Si spaventò, quando vide Elga alzarsi, avvicinarsi a lei per scioglierle i codini.
«Così, sei già pronta per le trecce.»
Elga si era rimessa seduta e aveva continuato la sua lezione, o così la considerava lei, su Adolf Hitler. Lo aveva fatto ripetere a Castaldia fino alla nausea. Quella mattina sarebbe rimasta solo un'ora e, fortunatamente, Natthasol era intervenuto prima, preoccupato che la bambina avesse fame. Andò su tutte le furie quando la vide piangere, con i capelli sciolti, il viso rivolto al tavolo, mentre, come una macchina pronunciava il nome di Adolf Hitler.
«Se ne vada, esca immediatamente da questa casa.» Stese il braccio per indicarle la direzione della porta.
«Sono stata mandata qui per educare la bambina. Se alle prime difficoltà vi comportate in questo modo, crescerete una fannullona perdigiorno!»
«Lei è venuta per educarla, non per renderla più fragile! E poi, perché la bambina ha i capelli sciolti? Non deve toccarla la bambina, si limiti a sgridarla se compie qualcosa di sbagliato. Questo è il suo dovere. Né insultarla, né oltraggiarla. Sono stato chiaro?»
Elga prese la sua borsa e si diresse verso la porta di casa. «Non si scomodi ad accompagnarmi.»
Natthasol non aveva la minima intenzione di accompagnarla alla porta, Castaldia non aveva mai visto suo zio arrabbiarsi così tanto; se solo Nail avesse potuto vederlo, se ne sarebbe innamorato ancora di più.
Prese la bambina in braccio, quando sentì le ultime parole che Elga avrebbe pronunciato in quella casa: «Mi rivolgerò a chi di dovere.» Ed uscì sbattendo la porta.
Con la bambina ancora stretta a sé, si diresse in cucina e si rivolse a lei. Disse: «Vuoi la cioccolata calda? Quella fa passare ogni tristezza.» Il suo tono era dolce e amorevole.
Castaldia si portò il pugno chiuso agli occhi per trascinare via le lacrime e poi scosse la testa in segno affermativo.
«Dopo pettiniamo anche i capelli e rifacciamo i codini, sei d'accordo?» S'intristì appena ripensando alla signorina, ma i gesti amorevoli di suo zio l'avevano fatta sorridere. Le aveva messo un tovagliolo sul vestito per non farla sporcare e le aveva dato un'affettuosa carezza sulla testolina.
Lei attese, mentre guardava lo zio trafficare con la preparazione della cioccolata, e sorrise contenta quando finalmente vide la tazza fumante posarsi davanti a sé.
«Ora devi aspettare che si freddi. Soffiaci un po' su.»
Castaldia lo guardò timorosa. «Papino ha detto che si devono freddare da sole, che soffiare è da maleducati.»
«Per una volta non succederà nulla: sarà il nostro piccolo segreto.» Natthasol le fece l'occhiolino; e Castaldia, pronta a bere la sua cioccolata cominciò a soffiarci energicamente sopra.
«Ce la fai a bere da sola o vuoi che ti aiuti lo zio?» le chiese.
Castaldia scosse la testa e rispose con un deciso: «Ce la faccio.»
Ludwig, tutte le mattine e tutte le sere, era costretto a fare quel dannatissimo appello. Dovevano accertarsi che nessuno fosse fuggito e che tutti risultassero nella lista.
Ogni giorno i suoi collaboratori eliminavano, con una netta linea nera, chi era morto e chi, invece, era appena arrivato. La lista, poi, veniva sottoposta a lui. Odiava quegli appelli, erano una perdita di tempo inspiegabile. E talvolta servivano solo a sollazzare il sadismo dei soldati.
Tutto era stato già allestito e il suo diretto subordinato si era seduto, pronto a verificare che ci fossero tutti.
Ludwig, quel giorno, pretese che l'appello durasse al massimo un'ora. Si lamentavano del lavoro che scarseggiava, eppure facevano perdere tempo ai prigionieri.
Li vedeva, a mano a mano che venivano chiamati, osservava quegli uomini ormai denutriti e privi di speranze. Altri, invece, avevano una luce negli occhi che ammirava. Nonostante tutto quel dolore, riuscivano ancora a sperare. Lo facevano sentire meno colpevole.
«Colonnello, ne ho visto uno muoversi. Devo sparare per dare il buon esempio?» domandò Gustav.
Ludwig si voltò nella sua direzione e, senza battere ciglio, disse: «Capisco il tuo zelo, lo capisco. Ma sono quasi più leggeri delle foglie e c'è vento. E poi i prigionieri ci servono. Ne hai già uccisi cinque ieri. Senza motivo. Ti pregherei di non fare altrettanto oggi.»
«Agli ordini, colonnello.»
Agli occhi di Gustav, Ludwig appariva ragionevole, metodico e scrupoloso. Quasi un esempio da imitare. Così rimase sull'attenti, pronto a servire il suo colonnello qualora glielo avesse chiesto.
Ludwig continuava a scrutare i prigionieri. In quei giorni aveva imparato a distinguerli e a riconoscerli, sebbene sembrassero tutti uguali e ne arrivassero sempre di nuovi. Era un attento osservatore.
Quando, all'appello, si palesò un ragazzo, il suo pensiero andò immediatamente ad Aleph, auspicandosi che stesse bene.
Venne colpito, poi, da un uomo. Sembrava molto più grande di lui, ma si disse che, sicuramente, era stata colpa della malnutrizione. Era evidentemente suo coetaneo, ma voleva esserne certo. Si rivolse a Gustav, disse: «Portami il prigioniero.»
Gustav si mosse scattante verso il prigioniero, il quale rimase con la testa china a guardare le sue scarpe logore, in attesa che Gustav arrivasse. Lo afferrò per il braccio con una presa ferrea e lo strattonò fino al cospetto di Ludwig.
«Puoi alzare lo sguardo» gli disse.
Questi, timoroso che fosse un qualche sadico giochetto, alzò gli occhi cautamente e, nella severità dello sguardo nero di Ludwig, intravide qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri soldati.
«Il tuo nome?»
«98288, signore.»
«Ti ho chiesto il tuo nome. Sai qual è il tuo nome o forse lo hai disimparato qui dentro?»
«Mi scusi, signore, ma qui dentro nessuno più mi chiama con il mio nome.»
«Jacob Stein, signore.»
«Bene, Jacob. Quanti anni hai e che lavoro facevi, quale erano le tue mansioni?»
«Ho quarant'anni e facevo il maestro in una scuola elementare, signore.»
Ludwig aveva supposto bene, a separarli c'erano solo tre anni di età, erano praticamente coetanei.
«Puoi andare Jacob.»
Gustav rimase incantato dalla fermezza con la quale Ludwig era riuscito a far parlare il prigioniero. Loro dovevano urlare e sbraitare per far confessare qualsiasi cosa, mentre a Ludwig era bastato chiedere.
«Colonnello, vi ammiro molto» ammise Gustav.
«Come vostro padre» lo canzonò Ludwig, senza che Gustav se ne accorgesse; lo prese semplicemente per un dato di fatto.
Finito l'appello Ludwig ordinò ai suoi uomini le diverse direttive e mansioni che dovevano svolgere. Doveva comunque mandare avanti il campo, non poteva fare altrimenti.
Lui stesso si incamminò per vedere se tutto fosse sotto controllo. Sarebbe potuto intervenire solo se avesse riscontrato un abuso o un'ingiustizia gratuita. La cattiveria, purtroppo, non poteva punirla, non lì.
Ispezionava sempre ogni centimetro del campo, pattugliava ogni zona, anche il resto di ogni capannone. Svoltò e vide un uomo poggiato contro il muro dello stabile. Non si reggeva in piedi, ma cercò di assumere una postura corretta quando lo vide avvicinarsi.
Ludwig avanzò verso di lui con passo deciso mentre lo guardava.
Quell'uomo era terrorizzato. A ogni passo che Ludwig faceva, ogni volta che sentiva affondare lo stivale sulla fanghiglia innevata, tremava.
«Smettila di tremare e stammi bene a sentire.»
L'uomo cercò di fare come meglio poteva per evitare che le sue gambe tremassero più del dovuto. Aveva come l'impressione che Ludwig, da un momento all'altro, avrebbe potuto ucciderlo per il solo fatto che si trovasse li fuori. Temette il peggio quando portò una mano alla giacca. Chiuse gli occhi.
«Apri le mani e porgimele.»
L'uomo fece come gli aveva ordinato. Mantenne gli occhi chiusi, ma tirò in avanti le mani con i palmi rivolti verso l'alto. Non capiva, ma sentì qualcosa di soffice cadere contro di esse. Aprì gli occhi e, con immenso stupore, vide del pane. Voleva divorarlo, ma aveva paura che Ludwig potesse ucciderlo per una cosa del genere e che fosse tutta una messa in scena architettata da un colonnello delle SS.
«So che hai fame, ma sarebbe bene che tu lo dividessi con i tuoi compagni. Dividilo solo con quelli di cui ti puoi fidare, e di' altrettanto a loro che, se hanno bisogno, possono parlare con me. Ti prego di stare attento, perché non esiterei un secondo a toglierti di mezzo, se dovessi rischiare la vita per qualche motivo. Intesi?»
L'uomo annuì, in quel momento pensava solo a mangiare quel pane. Poi raggelò sul posto e quasi non gli cadde tutto dalle mani, quando vide un uomo avvicinarsi alle sue spalle.
«Colonnello che sta facendo?» tuonò insospettito Gustav.
Ludwig guardò il prigioniero severamente, intimandogli il silenzio. «Giocavo con il prigioniero.»
Gustav girò intono a loro cercando di capire le dinamiche. Ludwig teneva ancora il sacchetto del pane in mano. «Oh, capisco colonnello! Questo gioco lo facevamo anche noi! Sta fingendo che il prigioniero sia un cane!»
Annuì senza dire niente.
«Allora deve fare così, colonnello!» Diede un colpo alla mano del prigioniero facendogli cadere il pane dalle mani.
Il prigioniero si chinò a terra cercando di raccogliere tutto il salvabile; avrebbe mangiato quel pane anche intriso nel fango.
«Vede, così è più divertente. Se non si agitano, affannano, barcamenano per prendere il pane, non è divertente.»
«Grazie per averlo spiegato, Gustav.»
«Non c'è di che, colonnello. Dovere. Ora dobbiamo andare, la stavano cercando negli uffici. Sta arrivando un nuovo carico, dobbiamo recarci alla ferrovia per l'appello e il controllo.»
Verso l'ora di cena, Ludwig era tornato a casa. Come al solito, appese il suo cappotto sull'attaccapanni e si diresse verso le sale principali. Quando arrivò in salone, vide Castaldia da sola, che sedeva sul divano, con le gambe ciondolanti che dondolavano.
«Ciao, tesoro» la salutò.
Castaldia prese una rincorsa per scendere dal divano e gli andò incontro.
Lui l'afferrò prontamente per prenderla in braccio. «Allora, com'è andata con l'istitutrice?»
«È cattiva! Zio Natthasol l'ha cacciata!» asserì fiera di quanto accaduto.
Ludwig, con lei in braccio, si avviò verso la camera di Natthasol per chiedere spiegazioni. Natthasol teneva sempre la porta aperta affinché potesse sentire la bambina se avesse avuto bisogno di lui.
«Bentornato, Ludwig, tutto bene?»
«Cos'è successo con l'insegnante?»
«Ha insultato tua nipote, ha detto che era una bambina sciatta, che non poteva tenere i codini! Le ha sciolto i capelli senza che nessuno le avesse dato il permesso. Ho trovato la bambina che piangeva, mentre le faceva ripetere come una macchina il nome di Hitler.»
Tutto quello era successo in un'ora soltanto e Ludwig stentava a crederlo.
«È vero?» domandò a lei. Non perché non si fidasse di suo fratello, ma era sempre meglio chiedere al diretto interessato.
«Sì. Mi ha fatto anche male per scioglierli, mi ha tirato i capelli. Ha detto che non avevo un bel vestito, che ero una bambina stupida.»
«Non ti preoccupare, domani ci pensa il nonno a trovarti un buon maestro. Va bene?»
Castaldia annuì con la testolina.
«Natthasol, chiama a casa. Parla con Nail, se devi parlarci, e poi passamelo.»
Natthasol si alzò dalla sua postazione, chiuse il libro che stava leggendo, e si diresse verso il telefono situato nel corridoio centrale della casa. Compose il numero.
«Pronto.»
Natthasol riconobbe subito la voce di Nail.
«Ciao, come stai?»
«Sto bene, a parte la solita gamba. Ti stai facendo valere?»
«Sì, oggi ho cacciato via l'insegnante che aveva fatto piangere Castaldia» ammise.
«E io me lo sono perso?»
«Già...» sorrise. Gli era mancato Nail.
«Non vorrei essere stato nei suoi panni.» Nail proruppe in una risata sincera e cristallina.
Ludwig si palesò al fianco di Natthasol e porse la mano in attesa che gli passasse la cornetta del telefono.
«Ti passo Ludwig.»
«Va bene.»
Natthasol gli passò la cornetta.
«Amico mio, come stai?»
«Oh, Ludwig, la gamba mi fa un male fottuto. Sono tre notti che non chiudo occhio. Ma non dire niente a tuo fratello: sa che sto bene. A proposito, Castaldia?»
«È un po' scossa, ma tenteremo di farla stare meglio.»
Improvvisamente Ludwig sentì il silenzio, o meglio aveva sentito Nail prendere un respiro e trattenerlo.
«Amico mio...»
«Ludwig... c'è qualcosa di forte in casa?»
«Sì, è nel cassetto, ma non ce ne sono tante, quindi usala solo nei momenti di estremo dolore. E non ti ci abituare, che crea dipendenza.»
«Quale cassetto?»
«C'è un mobiletto lì, accanto al telefono. Aprilo.»
Nail allungò una mano per aprire il cassetto, spalancò gli occhi alla vista del contenitore di vetro e del liquido. Lo prese in mano, lesse l'etichetta. «Cazzo è morfina.»
«Cosa pensavi che fosse?»
«Se avessi saputo che c'era prima in casa, mi sarei evitato tutto questo dolore.»
«Non ti lamentare, è meglio che tu riesca a resistere, perché ce ne sono poche.»
«Hai ragione, amico mio, hai sempre ragione.»
«Senti, ti devo chiedere una cosa. Aleph...?»
«Sta bene. Lì a casa con Elger è al sicuro insieme a sua madre. Comunque vado una volta al giorno, tutti i giorni. Gli devo dire qualcosa?»
«Sì, l'unica cosa ovvia ed evidente.»
«Va bene, riporterò il tuo messaggio d'amore, Ludwig.» Nail rise appena.
Ludwig strinse la cornetta tra le mani: s'innervosiva sempre, quando il suo amico lo prendeva in giro. Poi si calmò, tornò serio, chiese: «Silas è in casa?»
«Ti stavo per chiamare proprio per questo. Reinar Wolf ha mandato i suoi a prenderlo. Ora è lì, non sappiamo quando verrà rilasciato. C'è Lothar, qui dentro, che sta dando di matto.»
«Digli di calmarsi. E invece di tergiversare, potevi dirmelo subito no?»
«Ludwig, calmati anche tu, per favore. Piuttosto, che facciamo?»
«Se Reinar lo ha mandato a chiamare, sicuramente starà lì per interrogarlo... Quel lurido e viscido verme. Chiamerò Friderich, premerò affinché convinca suo padre a rilasciare mio figlio.»
«E come?»
«A questo ci penso io. Tu preoccupati del piccolo e degli altri. Ti saluto.» Agganciò il telefono.
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