Capitolo 46


Arbeitmacht frei

Silas faceva avanti e indietro per il salotto della casa. Si era svegliato presto perché, prima ancora di andare a scuola, aveva dovuto salutare suo padre, suo zio e con lui sua figlia Castaldia. Aveva il cuore spezzato.
Jorgen, invece, era contento di essere rimasto con il suo papà.
Quando lo vide arrivare, lo prese in braccio e gli chiese: «Hai fame, piccolo?» E gli diede un bacino sulla fronte.
Ma lui scosse la testa con decisione.
«Che cosa vuoi mangiare, Jorgen?»


«La torta di zio!» esclamò sorridente.


«Va bene, ma prima papino ti cucina qualcosa. Tu mangia tutto, così poi ti do la torta.»
Jorgen annuì e subito dopo posò la testa contro la sua spalla, aspettando che suo padre lo portasse in cucina. Una volta lì, dopo essere stato messo seduto, guardò Silas in attesa. «Che facevi prima?» gli chiese curioso.


«Stavo e sto aspettando lo zio Lothar.» Soddisfatto, si mise a giocare con le posate.

Dal canto suo, Silas era nervoso. Aveva lasciato Lothar a scuola dopo avergli detto che si sarebbero visti per parlare insieme ad Hans e Agnes riguardo le loro prossime mosse, e questo lo rendeva inquieto. Servì il piatto a Jorgen, il quale, afferrato il cucchiaio, prese ad affondarlo nel piatto. Lo corresse subito e si sedette accanto a lui, aspettando che finisse di mangiare. Non toccò cibò: era troppo agitato per ingerire qualcosa. In quel momento sentì bussare tre volte alla porta e capì subito chi fosse grazie al segnale che si erano dati. Prima di alzarsi, però, si rivolse a Jorgen e gli disse: «Fai il bravo bambino. Vado ad aprire, e quando papino torna ti da la torta!»
Jorgen sorrise contento.
Silas raggiunse la porta e, quando vide Lothar, tirò un sospiro di sollievo. «Finalmente, pensavo non arrivassi più!»


«Fuori in strada c'è un caos pazzesco. Sembrano più feroci, ultimamente. C'è il delirio.»


«Va bene, entra.» Gli fece spazio necessario, poi proseguì a parlare: «L'importante è che tu, ora, sia qui. Dobbiamo aspettare solo Hans. Agnes ci raggiungerà tra poco. Poi saremmo tutti riuniti.»


«D'accordo.» Lothar chiuse la porta dietro di sé e seguì Silas fino alla cucina.


«Devo dare la torta che ho promesso a Jorgen.»


Quando Lothar entrò in cucina, sorrise a Jorgen. Nel vederlo seduto composto e con il piatto ripulito, si chiese quali minacce travestite d'amorevoli gesti avesse mai potuto propinare a quel povero bambino. Il vero tiranno è Silas, pensò.


Jorgen lo salutò con la manina e alzò il piattino a dimostrazione della sua bravura. Disse: «Guarda, ho mangiato tutto! Adesso papino mi da la torta!» E batté le manine contento.
«Bravo, Jorgen. Zio Lothar è molto contento che tu abbia finito tutto.» Gli carezzò la testa, scombinandogli i riccioli neri. «Ma è lo stesso bambino che abbiamo portato via da Monaco?» domandò a Silas senza farsi sentire da Jorgen.


«La mia presenza fa miracoli!» Alzò le spalle e sorrise, per poi allungare il braccio e porgere la torta a Jorgen.


Nel mentre che si erano voltati di spalle, Jorgen stava per affondare le manine nella torta, ma Silas, voltandosi, lo vide e fece:
«Allora? Che cosa ti dice sempre papino?»


«Mai con la manina, sempre con la forchettina!»


«Bravissimo!» gli disse Silas. Si avvicinò e porse a Jorgen la sua forchetta.


«È ammaestrato!» scherzò Lothar.

Hans, Agnes e Lothar sedevano sul divano, mentre Silas era rimasto in piedi davanti a loro: non sarebbe riuscito a parlare stando seduto, schiacciato e immobile. Alla fine prese un bel respiro e, ricapitolando tutte le idee, si mise a spiegare ciò che aveva pensato, il suo piano. «Allora, ragazzi, Il Dorian Gray è ormai impraticabile. Sicuramente quell'essere repellente di Huge sarà tornato sul posto e avrà distrutto tutto. Quindi dobbiamo stare più attenti di prima, perché ora sospetta di Agnes. Sappiamo, però, che lui non sa che lei si nasconde qui. Ne ha manifestato il dubbio, ma finché non lo dichiara apertamente possiamo prendere in considerazione il fatto che lui non lo sappia. Ma, se gli diamo motivo di sospettare, non ci metterà molto a fare due più due.»


«Questo è un bel problema. Non abbiamo un posto, quindi non possiamo stampare niente e non possiamo fare più affidamento su questo tipo di propaganda. Per non parlare del fatto che quelli della "Rosa Bianca" li hanno fatti fuori. Non possiamo riunirci qui, perché se Huge capisse che ospitiamo Agnes abbiamo concluso i giochi.» Lothar stava ragionando, si spremeva le meningi cercando di trovare una soluzione possibile per sé e per il suo gruppo. Ma più parlava e più si inferociva, perché si sentiva come in trappola. «E non dimentichiamoci che qui dentro ci vive anche Aleph. Avrà anche i documenti falsi, ma se lo scoprono...»


«Tecnicamente, Aleph non vive qui. Vive con sua madre a casa di Elger. A lui diremo di restare lì, di non muoversi mai finché non glielo diciamo» rispose Silas.


«D'accordo, questo sembra fattibile» assentì Lothar.


Silas guardò Agnes. Era pronto a rivolgersi a lei, così disse: «Allora, cara, mi dispiace, ma devi rimanere qui. Sia tu che Karl non potrete uscire finché non sapremo come muoverci. Così, perlomeno ai loro occhi, dentro queste mura saremo rimasti solo io, Jorgen, Salazar, Anastasia e Nail. Nail non lo considerano un pericolo, anzi. E poi Nail mi serve qui. Grazie al fatto che lui non è minimamente sospettato, almeno per il momento, è l'unico in grado di poter fare avanti e indietro. Inoltre si preoccuperà di prendere i viveri di cui tutti, qui, abbiamo bisogno. Nel frattempo non dobbiamo riunirci. Dobbiamo vivere la nostra vita normalmente. Tutto questo finché non capirò se sia saggio unirsi a un altro gruppo come il nostro o se sia meglio rimanere da soli, per isolarci tra le montagne o nasconderci nella foresta. Devo capire qual è il punto più strategico per trarli in trappola.»


Lothar lo guardò, le parole di Silas gli sembravano quelle di un folle, ma in cuor suo sapeva che tutto quello che aveva detto era l'unica soluzione plausibile. La resa non era contemplabile, senza contare il fatto che Silas non si sarebbe mai tirato indietro, non a quel punto. «E Jorgen?» chiese.


«Verrò a casa quando posso. Nel frattempo ci penserà Nail.»


Dalla balaustra del piano superiore, Salazar stava ascoltando tutto. Li teneva sott'occhio nella convinzione di dover controllare le mosse di suo fratello.


«Inoltre» aggiunse Silas. «Non dimentichiamoci che in casa rimarrà Salazar. E sono certo che lui farà il suo dovere riguardo ipotetici intrusi. Non è così, fratellino?» domandò al diretto interessato. Si era accorto da un pezzo che li stava spiando, perciò non si sorprese quando gli vide sfoggiare un sorriso mefistofelico.


Quell'individuo mi fa venire i brividi, pensò tra sé e sé Lothar.


Silas stava per congedare i suoi compagni quando venne raggiunto dai passi dei bimbi, che venivano dalla cucina. Jorgen si stava annoiando nonostante fosse in compagnia di Karl, perciò Silas lo prese in braccio e gli disse: «Ti avevo detto o no di restare in cucina?»


Jorgen riconobbe subito il tono meno dolce del padre, quello che alle sue orecchie suonò calmo ma perentorio, così capì che lo stava sgridando e si incupì, mettendo il broncio.


Vedendo quella faccina, Silas avrebbe voluto rassicurarlo e si disse che forse aveva esagerato; la preoccupazione, di quei tempi, lo faceva essere più rigido e severo del solito. Così gli diede un bacino sulla fronte per rassicurarlo. Subito drizzò le orecchie, sentendo bussare alla porta. Guardò i presenti, prima di bisbigliare: «Potrebbe essere Bastian? Eppure gli abbiamo detto di rimanere a casa.» Vide Lothar scuotere la testa in segno di negazione e tutti gli altri gelare sul posto.


Agnes scattò in piedi, prendendo Karl tra le braccia, mentre Silas diede Jorgen ad Hans.
Si fidava di loro, sapeva che sarebbe stato al sicuro. «Andate a nascondervi, sapete dove rifugiarvi. Io aprirò la porta. Lothar, tu...»


Lothar s'intromise senza far finire la frase a Silas. «Aprirò la porta con te» asserì serio, fermo nella sua decisione. Non sarebbe andata come l'ultima volta, lui non lo avrebbe permesso.
«Credi che sia saggio?»


«Visto come è finita la scorsa volta, direi di sì.»


«Speriamo non sia un'altra seccatura!» sbuffò Silas. Aprendo la porta, avrebbe voluto sfoggiare una delle sue espressioni più irritanti e funeste, tuttavia dovette mostrare un bel sorriso. «Buongiorno, Herr Wolf, che piacere vederla. A cosa devo la sua visita?» Avrebbe fatto anche gli occhi dolci per depistare un ospite indesiderato.


«Buongiorno a te, Silas!» rispose, felice di vedere quel sorriso. Eppure, spostando lo sguardo, s'incupì notando la presenza di Lothar. «Buongiorno, Lothar, vedo che c'è anche lei.»


Questi avrebbe potuto giurare di aver sentito un'inclinazione di gelosia nella voce del nazista.
«Buongiorno a lei, anche se è pomeriggio» rispose piccato.


«Allora, Silas, non fai accomodare un vecchio amico?» domandò Herr Wolf, spiazzandoli.
Lothar guardò Silas preoccupato, ma Silas lo rassicurò con un'occhiata. Non sarebbe successo niente, sapeva come prendere Reinar.


«Ma certo, Reinar, si accomodi pure. Sa, ero preso dallo studio e sono un po' sbadato. Gradisce una fetta di torta?» gli chiese.


«Bellissima idea, Silas, accetto volentieri.»


«Prego, si accomodi pure, arriviamo subito.»


Reinar li seguì con lo sguardo fin quando non li vide sparire in cucina, per nulla consapevole del sospiro che i due tirarono una volta lontani dalla sua vista.


L'ansia aveva ormai creato una morsa implacabile al centro del loro petto.


«Se tuo zio sapesse che hai dato la sua torta a un nazista, urlerebbe da qui fino alla prossima era.»


«Ma non lo saprà mai. Cosa avrei dovuto fare? Almeno così mangia, chiacchiera ed è contento.»
«Un vero stratega.»


«Puoi dirlo.» Silas fece l'occhiolino a Lothar e si mise a tagliare la torta, poi afferrò due piatti e ne mise una fetta su ognuno, lasciando che Lothar prendesse il proprio. Tornato in salone, ne porse uno a Reinar. «Ecco a lei» disse.


«Grazie. Ma, ditemi, cosa facevate di bello qui a casa?» domandò questi con una punta di curiosità.


«Vede, Reinar... Non dovrei dirlo, ma noi siamo amici e so che lei manterrà il segreto.»
Lothar quasi non si strozzò con il pezzo di torta che stata deglutendo. Si chiese se Silas fosse impazzito.


«Oh, certo, Silas, dimmi tutto.» Reinar era tutto orecchie, si aspettava qualche succulento segreto che avrebbe potuto usare a proprio vantaggio.


«Sa, io sono una totale frana nell'atletica. È vero, faccio scherma da tanti anni e so andare a cavallo, ma l'atletica... Come faccio a essere un perfetto ariano se non sono agile e scattante? E il pugilato, poi? Non ne parliamo!» Silas si mise in piedi e proseguì: «Vede, eppure sono alto, ho le gambe lunghe. Chissà che stacco potrei avere nella corsa. E invece niente. Un fallimento.» Fece una faccia abbattuta e si rimise a sedere.


No, sei solo pigro. Ma un vero attore, questo te lo riconosco, pensò Lothar senza dire nulla, tornando a mangiare la sua torta.


«E dunque?» domandò Reinar.


«E dunque, invece, Lothar è un fenomeno! Ha vinto la gara di atletica perfino a scuola! Così gli ho detto: amico mio, aiutami per favore!» Fece spallucce e attese.


Nella testa di Reinar passarono in rassegna ogni immagine possibile di Silas che si allenava, ma tacque e proseguì. «Il Reich è fiero di te, Silas. I nostri giovani dovrebbero essere tutti talentuosi come te.»


«Non vorrei mai deludere la mia Nazione» affermò Silas. «Ma ditemi, Herr Wolf, la sua è solo una visita di cortesia, oppure voleva dirmi qualcosa?»


«Huge Ritcher è convinto che, in questo momento, stiate nascondendo sua moglie, e con lei suo figlio.»


Gelò. Il sangue di Lothar e Silas si trasformò in ghiaccio. Tre secondi per pensare e poi Silas riprese con le sue scene teatrali. «Huge Ritcher mi sta forse insultando, Herr Wolf?» Sul suo viso calò un'espressione crucciata. «Mi sta dicendo che io sarei in grado di nascondere una sgualdrina che lascia il tetto coniugale di un fedelissimo del Reich?»


È il diavolo, pensò ancora Lothar.


«Huge lo sostiene, per questo sono venuto qui oggi.»


«Prego, Reinar, perlustri pure tutta la casa.»


L'intelligenza di Silas aveva quasi fatto eccitare Lothar. Gli sarebbe saltato addosso, se solo non ci fosse stato un nazista in casa.


Reinar si alzò e si mise a cercare ovunque. Non sarebbe mai stato in grado di trovare quel nascondiglio, ma la prudenza non era mai troppa; e, se Silas fosse stato credente, avrebbe iniziato a pregare.


Lothar teneva le mani incrociate, strette per la tensione, mentre Silas muoveva freneticamente il ginocchio. Sperava che Reinar tornasse alla sua postazione il più presto possibile per dire loro che non aveva trovato niente.


Reinar ispezionò la casa da cima a fondo: era un maestro in questo e si compiacque di non aver trovato niente; poteva ancora andare fiero del suo amico Silas. Sarebbe tornato trionfante al comando per raccontare della sua perlustrazione e dire a tutti che lì non c'era nulla di strano.
Silas benedì il suo intuito, perché da quando aveva fatto sparire le prove dal Dorian Gray aveva tolto anche in casa tutto quello che poteva essere ritenuto compromettente.


Sorridendo a entrambi, Reinar tornò alla sua postazione e poi si rivolse a Silas. Disse: «Come immaginavo, non c'è niente di anomalo. Me ne compiaccio, Silas. Solo una cosa ha destato la mia attenzione.»


Silas deglutì a vuoto. «Cosa, Herr Wolf?» Che non si fosse liberato di tutto?
«Nel tuo armadio, Silas ci sono indumenti da donna. Sai spiegarmi il motivo?»


Si maledì per non averli nascosti, per non averci pensato. Lui era solo un collezionista, non li indossava, quindi non aveva visto un ipotetico problema in loro. «Se le sembra inappropriato, Herr Wolf, provvederò a sbarazzarmene, ma sono gli unici ricordi della mia defunta madre.» Un'altra espressione affranta, dispiaciuta, si dipinse sul suo volto.


«Oh, non immaginavo. Non c'è problema, Silas. Io non li ho visti. Per la tua sicurezza, però, ti prego solo di riporli in un baule.»


«Grazie, Herr Wolf, grazie... significa molto per me.»


«Figurati Silas, se non ti dispiace, mi congedo. Vado al comando a riferire che qui è tutto in ordine.»


«Il dovere è dovere, Reinar.» Gli poggiò una mano sul braccio.


«Arrivederci, Silas.»


«Arrivederci, Herr Wolf.» Silas accompagnò il nazista alla porta, mentre Lothar se ne stava lì seduto sul divano, furioso come una bestia.


«Odio quell'individuo.»


«Lo so, Lothar, lo so.»


«Qualche altra moina e gli avrei potuto spaccare la faccia.»


Silas fece spallucce. «Cosa avrei dovuto fare? Sei geloso?»

«Oh, neanche immagini quanto, Silas.»


Rise. «È l'unico modo per tenerlo buono, hai sentito cosa ho dovuto dire, no? Dovrò chiedere scusa ad Agnes!»

Ludwig era giunto a Dachau, una cittadina distante venti chilometri da Monaco. Aveva sempre immaginato l'orrore dei campi, ma ciò che stava vedendo aveva superato ogni immaginazione.
Non aveva mai creduto alle storie diffuse dal partito, quelli non erano semplici campi da lavoro, e ora che c'era dentro ne aveva la conferma. Dachau era il campo di concentramento, il famigerato, il primo a sorgere per volere di Himmler.
Ludwig venne affiancato da un secondino del campo: un ragazzo in divisa, una SS che sembrava sfoggiare con gloria la sua uniforme. A testimonianza, il caloroso benvenuto che gli aveva rivolto; dopo quello nazista, s'intende.
Dopo questo, prese a parlare: «Buongiorno colonnello, stavamo aspettando il suo arrivo. Mi segua, le mostro il campo.»


Ludwig pensò che quello sarebbe stato il tour più macabro della sua vita.
Il ragazzo prese a camminare e Ludwig lo seguì. Neanche il tempo di orientarsi, che le parole uscirono come un fiume in piena dalla sua bocca: «L'area è suddivisa in due zone. Quella del campo di concentramento e quella dei forni crematori. Il campo centrale conta fino a trentadue baracche.»


Ludwig lo seguiva in silenzio, cosa poteva dire d'innanzi a tanto terrore?
«Qual è il suo nome?» domandò alla guida.


«Il mio nome? Che sbadato, colonnello, ero così emozionato di averla qua che me ne sono del tutto dimenticato. Mi scusi, ho tralasciato le buone maniere. Conosco il suo nome: lei è il colonnello Ludwig Dubois, la sua fama la precede. Mio padre era nell'esercito, con lei, durante la prima guerra mondiale. Dice che siete un eroe. Vi usava sempre come esempio quando doveva insegnarci cosa significava coraggio...»


«Ne sono lusingato, ma ancora non conosco il suo nome.»


«Le chiedo ancora scusa. Sono il sottufficiale del campo Gustav Braun.»


Ludwig cercò di ricordarsi di qualche Braun conosciuto nell'esercito, ma nulla. Doveva essere stato un qualche insignificante ometto che viveva all'ombra della sua adorazione. «Vostro padre, sì. Ricordo perfettamente, un uomo valoroso» mentì.


Gustav lo stava conducendo come prima tappa verso la sezione delle baracche.


Si arrestò davanti la porta e cambiò espressione, incupendosi. Quando entrò, lo spettacolo che gli si mostrò era agghiacciante.


Gustav si mise a girare nella baracca esclusiva agli ebrei, passeggiando e battendo con il manganello contro i giacigli affinché chi stesse riposando si svegliasse per ascoltare: tutti dovevano prestare attenzione.


Ludwig era rimasto davanti alla porta, in attesa della sua presentazione e, nel frattempo, scrutava quelle persone nel tentativo di capire quanto più possibile.
Gustav si riavvicinò a lui e lo presentò, dicendo: «Lui è il colonnello delle SS Ludwig Dubois. È uno dei supervisori del campo. Qualsiasi cosa lui vi dica è legge. Se trasgredirete, vi ucciderò personalmente.» Non chiese se avessero capito o meno, se il suo discorso fosse stato chiaro, perché anche i prigionieri stranieri dovevano interpretarlo senza ulteriori spiegazioni: in caso contrario, peggio per loro; solo il più furbo e il più forte avrebbe potuto sopravvive in quel posto. «Venite colonnello, vi mostro le altre baracche.»


Ludwig lo seguì in silenzio. Al contrario di Gustav, che sembrava piuttosto logorroico, lui preferiva tacere e osservare. Pensava di aver visto tutto, il peggio che gli si poteva offrire, ma poi venne condotto a quello che, secondo il sottufficiale, era il fiore all'occhiello del campo.
«Qui, colonnello, ci sono le nostre docce. Tra di noi le chiamiamo così, ma non sono altro che camere a gas; così non ci dobbiamo sporcare le divise. Questo è il prodotto finale del genio di Himmler, signore.»


Ludwig ne aveva vista l'evoluzione, ma non ancora il prodotto finale. «Immagino che smaltirete i corpi in qualche modo» fece.


«La ci stavo giusto conducendo.» Gustav portò Ludwig d'innanzi a quello che era il forno crematorio; l'olezzo della carne bruciata gli penetrò le narici e lo stomaco, tanto che dovette trattenere i conati.


«Mi spieghi, Gustav.»


«Questo il secondo forno che è stato costruito. Come vede è in muratura e a doppia porta per diminuire l'esplosione di calore una volta aperto. Di media ci vanno dai cinquanta ai cento prigionieri morti, ed è sempre in funzione.»


«Giorno e notte, dunque.»


«Esatto colonnello, siamo sempre efficienti.» Gustav mosse qualche passo in modo da tornare alla vicina camera a gas, poi proseguì con il suo discorso: «Qui ci sono quattro forni. Il primo a sinistra è quello che usiamo esclusivamente per gli ebrei.»


«Riuscite a smaltire tutti i corpi?»


«No, purtroppo no. Anche se usiamo il forno principale alla stregua di un inceneritore, dobbiamo ricorrere allo scavo di fosse comuni. Li buttiamo tutti dentro e poi ci penserà la natura a fare il suo corso, ammesso e non concesso che la Dea Madre li voglia.»


«Potete mostrarmi gli uffici?» Ludwig tagliò corto riguardo il folle e delirante discorso del ragazzo.


«Certo, venga, colonnello.»


Camminando, Ludwig aveva contato sette torrette di guardia. Dachau era una vera fortezza, così si disse, per non parlare del filo spinato elettrificato che circondava tutta la zona.
«Come vede, colonnello, gli uffici del corpo di guardia sono vicini all'entrata principale. Ma abbiamo anche tutto quello che ci serve: lì c'è la cucina, a seguire la lavanderia, la doccia, i laboratori.»


Ludwig lo seguiva ancora ed era già saturo. Si chiedeva che tipo di lavaggio del cervello avessero fatto a quel ragazzo e che cieca dedizione lui avesse.


Svoltò l'angolo. «Questa è una prigione, la chiamiamo: Bunker.» Sorvolano molto velocemente su quella, poi girarono a destra e continuò: «Come vede, tra la prigione e la cucina c'è un cortile. Questo lo usiamo per le esecuzioni sommarie.»


«Immagino che la nostra perlustrazione sia giunta al termine, Gustav.»


«Sì, colonnello: è stato un piacere guidarla. Le auguro buon lavoro.» Si congedò facendo il saluto nazista.


Entrando negli uffici, un'altra guardia aveva atteso Ludwig, ma questa volta, solo per accompagnarlo alla propria stanza. Era grande, lussuosa, come la casa che gli avevano dato in dotazione.


Prima di sedersi sulla sedia in pelle, non riuscì più a trattenersi. Sentì i conati salire, prese il secchio e si lasciò andare. Più tardi avrebbe fatto sparire tutto.

La prima giornata al campo era stata emotivamente massacrante. Non gli sembrò vero di tornare in quella casa che, seppur non conosceva, aveva un po' del calore familiare grazie alla presenza di suo fratello. Rivederlo gli donò un po' di quella speranza che, nel campo, aveva perduto. Lo abbracciò, e Natthasol ricambiò subito quel contatto, stringendolo a sé.
Tuttavia si preoccupò, conscio del fatto che Ludwig non fosse abituato a certe manifestazioni d'affetto. «Sei pallido, Ludwig.» Lo prese per mano e lo condusse fino al divano. «Siediti, vado a prendere qualcosa da mangiare.»


Ludwig si tolse il cappotto e la giacca della divisa. Aveva bisogno d'aria. Così sospirò, sentendosi finalmente libero da quelle che gli sembravano più catene che indumenti. Si passò una mano sul viso strofinandosi gli occhi, e poi si mosse i capelli. Con la testa posata contro lo schienale del divano sentì Nattasol dire:
«Tieni, ti ho portato del caffè e un pezzo della torta che ho fatto oggi.» Aveva un tono premuroso, mentre la poggiava sul tavolino che aveva davanti a sé.


«Lo sai che non mi fanno impazzire i dolci» commentò Ludwig.


«Ti sei visto? Hai tutta l'aria di qualcuno che sembra avere un piede nella fossa. Questa fettina di torta ti serve e basta. Mangia e zitto!» imperò Natthasol.


«Agli ordini, capitano!» Non osava ribattere contro suo fratello, quando si mostrava così deciso: non avrebbe fatto lo stesso errore di Nail, non quel giorno; non aveva la forza per discutere.
«Sai come sta Nail?» chiese Natthasol.
«No, non lo so. Sono qui con te, come faccio a saperlo?»


Natthasol s'incupì. Si era reso conto di aver fatto una domanda sciocca, ma era in pensiero per tutti coloro che aveva lasciato a Berlino.


«Scusami, Natthasol, non volevo essere aggressivo: sono solo stanco, nervoso.»


«Non ti preoccupare, spero solo che presto c'inviino notizie da casa.»


Ludwig annuì e si mise a sorseggiare il suo caffè, dicendosi che poi avrebbe ripulito il piatto dalla torta, altrimenti chi lo avrebbe sentito suo fratello? Mentre stava mangiando, qualcuno si avvicinò a lui e, con la manina, gli batté sul ginocchio.


«Ciao, nonnino.» Castaldia sorrise, mise le braccia dietro la schiena, mentre guardava Ludwig in attesa che lui le prestasse attenzione.

«Ciao, tesoro, come stai?» fece prendendola in braccio e facendola sedere sulle proprie ginocchia.


«Sto bene. Guarda, zio mi ha fatto i codini!» esclamò entusiasta.


«Li vedo, sono molto carini.»


«A casa me li faceva sempre papino, ma adesso papino non c'è. Quando viene?» domandò, ignara del tutto. Ludwig sospirò: gli si spezzava il cuore nel sentirla così, e da padre sapeva benissimo come potesse sentirsi Silas in quel momento.


«Papino mi ha detto che presto verrà a trovarti, ma che lui viene solo se tu vinci il gioco che ti ha spiegato.»


«Vinco un'altra macchina fotografica?»


«Non lo so...» Ludwig fece spallucce e scosse la testa «Il premio lo devi concordare con lui.»
Castaldia non sapeva perché, per gli altri, Ludwig dovesse essere suo padre e Silas suo fratello; fortunatamente, però, lei lo aveva preso come un gioco. Dopo, alla fine, avrebbe potuto vincere un sacco di premi. Tra l'altro adorava suo padre, quindi avrebbe fatto tutto quello che le avrebbe chiesto.


«Fammi vedere quanto vuoi bene a papino» le disse Ludwig.


Castaldia allargò le braccia come unità di misura identificativa. «Tanto così!» esclamò.
«E al nonno?»


Castaldia riallargò le braccia, ma era un'estensione minore rispetto alla precedente.
«Ah, e così a me vuoi meno bene, eh?» disse, facendole appena il solletico, contento, di vederla ridere. Poi la mise giù, sentendo Natthasol chiamare tutti per la cena. Ludwig era fortunato, così si disse, perché almeno aveva loro in casa e poteva allontanare i brutti pensieri dalla mente, l'orrore dei campi da davanti gli occhi. Ma era certo che non avrebbe dimenticato tutto così facilmente.



Finalmente è giunto Gustav! Non dovrei esserne fiera, ma lo sono xD Gustav è la perfezione per  tempi che lo vedono protagonista! Potrebbe fare proprio la guida ahaha con che sangue freddo, poi! 

Tra l'altro ho scelto il prestavolto prima di scoprire che fosse austriaco! Mi sembravano troppo palesi certi lineamenti hahaha ma, sicché, la bellezza va condivisa vi lascio qualche altra foto pregevole di questo modello bellissimo!

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top