Capitolo 40
Ho tanta paura
delle foglie morte,
paura dei prati
gonfi di rugiada.
Vado a dormire;
se non mi sveglierai
lascierò al tuo fianco
il mio freddo cuore.
Che cosa suona
così lontano?
Amore. Il vento sulle vetrate,
amor mio!
Ti cinsi collane
con gemme d'aurora.
Perché mi abbandoni
su questo cammino?
Se vai tanto lontana
il mio uccello piange
e la vigna verde
non darà vino.
Che cosa suona
così lontano?
Amore. Il vento sulle vetrate,
amor mio.
Non saprai mai
o mia sfinge di neve,
quanto
t'avrei amata
quei mattini
quando a lungo piove
e sul ramo secco
si disfa il nido.
Che cosa suona
così lontano?
Amore. Il vento sulle vetrate,
amor mio!
(Notturno - F. G. Lorca)
Berlino 1943
Ludwig stava aspettando con ansia la risposta a una lettera. In quei mesi si era prodigato a trovare una moglie per Salazar. Mai si era immaginato di pensare a un matrimonio combinato per i suoi figli, ma si trovò costretto a prendere quella decisione.
«Sai che di solito non entro mai nel merito dei tuoi affari e in quelli della tua famiglia, ma lascia che ti dica una cosa, Ludwig: questa è una follia...» Nail era agitato e nervoso quanto lui, non solo era preoccupato per il suo amico, ma anche per Salazar. Seppur Salazar non aveva mai mostrato simpatia nei suoi confronti, con gli anni aveva cominciato a provare affetto anche per lui: si era affezionato a entrambi i ragazzi. Senza contare che Salazar gli sembrasse poco incline al matrimonio. «Ludwig, hai ingannato una famiglia. Perdonami se te lo faccio notare, ma non mi sembra proprio corretto. Per non fargli capire che sei un gerarca nazista gli hai scritto una lettera in francese, hai fatto credere loro di essere uno degli alleati trascinato dai nazisti in patria loro. Faranno scendere questa ragazza immaginando tutt'altro.»
«Salazar è francese, dopotutto, non ho mentito. In compenso ci guadagnano anche loro. É una nobile famiglia norvegese che ha tutto da guadagnare dal nostro accordo, tra l'altro il padre di questa ragazza è di origine russa. Sicuramente avranno fatto finta di cadere nella mia trappola, sei troppo ingenuo amico mio, troppo.»
«Sarò ingenuo, Ludwig, ma a me sembra tutto così assurdo.»
«Cos'è che non è assurdo al giorno d'oggi? Se sono arrivato a utilizzare questo espediente, degno di mio padre, è perché non ho scelta. Tra non molto dovrò trasferirmi a Dachau, questa era l'unica soluzione che potevo escogitare per lasciare Salazar, te e Natthasol qui a Berlino. Per non parlare della bambina.»
«Va bene...» sospirò Nail affranto.
«Se tutto va secondo i piani, la risposta e la ragazza dovrebbero arrivare prima della mia partenza.»
Silas non era rientrato in casa quella notte, aveva fatto tutta una tirata dopo l'incontro con i suoi compagni al Dorian Gray. Si era diretto, invece, dalla sua ragazza che viveva nella casa di sua cugina, poiché la sua famiglia si spostava di città in città alla ricerca di un posto dove potersi esibire. Era un gruppo di attori erranti, e, in quegli anni, a causa degli arresti e della guerra, gli affari non erano andati benissimo.
Silas bussò alla porta e fu la cugina della sua ragazza ad aprire la porta.
Questa si puntò i pugni sui fianchi, non era molto felice di vederlo perché pensava che non si sarebbe mai preso le sue responsabilità verso sua cugina.
«C'è Danika?» domandò con un sorriso sulle labbra in un sussurro. Nessuno doveva sapere che quello era il suo vero nome, tutti la conoscevano come Elfi.
«Non lo so se c'è, dipende da quando decidi di sposarla!»
«Avanti, abbiamo solo diciotto anni... E poi cosa dovrei fare? Sposarla sotto le bombe? Un giorno lo farò.»
«Sei un bugiardo Silas, un bugiardo patologico, spero che Elfi se ne accorga un giorno.»
«No, sono un bravo ragazzo.» Sorrise ancora.
Si decise a farlo entrare quando sentì Danika arrivarle alle spalle.
«Silas! Non ti aspettavo oggi.»
«Una sorpresa, amore mio!» le disse, stringendola tra le braccia e baciandola non appena questi glielo concesse.
«Una bellissima sorpresa. Anzi, tu sei bellissimo.»
«Grazie, anche se non credo di avere una bellissima cera: non ho chiuso occhio.»
«E come mai? Sei preoccupato per qualcosa?» domandò accarezzandogli i capelli biondi.
«Perché penso sempre a te.» Non poteva certo dirgli che era andato al Dorian Gray.
«Sei sempre il solito! Non ci credo minimamente.» rise appena.
«E perché non dovresti crederci? Sei bellissima, intelligente e mi ami, cosa non poco importante.» Silas le accarezzò i capelli bruni. Erano morbidi e setosi. C'era qualcosa in quella ragazza che lo attraeva particolarmente. Non sapeva se fossero i suoi occhi scuri e profondi, se era il contrasto che insieme creavano, se era, invece, perché lei stravedeva per lui. Non sapeva dirlo, sapeva solo che quella ragazza gli piaceva e non poco.
«Non lo so, non sembri vero... Quasi non riesco a crederci.»
«Danika... Ma tu ci devi credere, sono qui, no? Con te...» Gli spostò i capelli dal collo acconciati alla moda. Si chinò per baciarle la pelle rosata. Qualche bacio fino ad arrivare all'incavo del collo, lei lo reclinò leggermente.
«Andiamo in camera mia?» gli domandò prendendolo per mano e trascinandolo su con lei.
Uscito da casa di Danika, Silas percorse la via di ritorno. Sapeva di dover incontrare Lothar all'inizio del vialetto, come sempre. Da quando suo fratello faceva parte della gioventù, riusciva a ottenere delle soffiate grazie alle quali poteva restare a chiacchierare più o meno tranquillamente. Qualora avesse fiutato il pericolo se la sarebbe data a gambe.
Lothar lo aspettava già lì, seduto su una sorta di muretto in pietra. Quando lo vide, attese che Silas si sedesse. «Quand'è che sei diventato così alto?» gli domandò notando che, anche da seduti, tra loro due c'era uno scarto di centimetri non indifferente. Sapeva di aver raggiunto il massimo della sua altezza, ormai era diventato un uomo e si era anche accontentato ed era compiaciuto del suo metro e ottantatre centimetri, ma Silas gli sembrava ancora più alto e dentro di lui c'era qualcosa che non glielo faceva accettare. Non era invidia, non era gelosia, non sapeva neanche lui che tipo di sentimento fosse quello.
«Non lo so» rispose Silas facendo spallucce. «Credo si tratti di genetica. E comunque non credo che crescerò più di così.»
«E lo spero bene!» commentò Lothar.
«Non credo di aver raggiunto l'altezza di mio padre, sicuramente qualcosa in meno. Lo vedo, quando sono vicino a lui, manca sicuramente qualche centimetro. Non mi sono mai misurato, non che mi importi in fondo.»
«Sei troppo alto» commentò nuovamente Lothar. Seguendo i discorsi di Silas si era fatto due calcoli a mente, il che significava che, stando a quello che aveva appena detto, lui doveva aver raggiunto il metro e novantacinque. «Sarà un problema nascondersi con te che sei così alto.»
«Sei solo invidioso!» Silas gli fece la linguaccia, poi proseguì. «Non mi pare ci siano stati problemi fino a questo momento.»
«Perché dovrei essere invidioso di un palo!» lo schernì, bonariamente.
«Mi devo ricordare di prestarti un libro che ho letto...» cambiò discorso Silas, stanco di sentir parlare della sua altezza. «Penso ti possa piacere.»
«Perché ti comporti così?» chiese Lothar.
Silas sbatté appena le palpebre incredulo. Cosa aveva fatto in quel momento o detto di così fastidioso?
«Così come? Gentile? Come se nulla fosse?»
«Esatto.»
Silas sospirò affranto, poi disse: «Cosa dovrei fare? Dopo quello che è successo all'università mi hai detto quello che provavi, che non so se provi, che non avresti lasciato Helen, che non saresti potuto stare con un ragazzo, che per te era impensabile. Mi hai anche detto, però, che non volevi perdermi e quindi sono qui, al tuo fianco, come sempre. Sto cercando di andare avanti, di capire cosa fare dei miei sentimenti, di ricostruire qualcosa.»
Lothar rimase stupito di quanto quelle parole fossero rimaste scolpite nella mente di Silas, di quanto lui le conoscesse alla perfezione.
«Stai ancora vedendo quella ragazza? Com'è che si chiama?»
«Elfi.» Silas gli aveva sempre detto il finto nome di Danika, non voleva tradire la sua fiducia.
«Bizzarro nome, in effetti è adatto proprio a un tipo come te.»
«Non mi sembra di aver fatto mai battute riguardo Helen... E avrei potuto farlo.»
Lothar lo guardò malamente e Silas non sembrò scomporsi. Non aveva mai detto nulla che potesse offendere Helen, quindi si aspettava lo stesso da parte di Lothar.
«Allora, la vedi ancora?»
«Sì, ormai sono due anni che la vedo, due anni che vedo solo lei. L'ho incontrata poco dopo quel giorno in accademia.»
«Solo lei? Non ci credo... Non è da te» affermò Lothar.
«Mi dispiace per te, ma è così. Non ho tempo, né la voglia di cacciarmi in situazioni troppo complicate. Lei sembra volermi bene e accettarmi. Mi basta questo.»
Lothar stava per incalzare la dose, dirgli ancora una volta che non era da lui accontentarsi. Ma si alzarono all'unisono quando videro Aleph correre trafelato nella loro direzione.
Aleph, non appena li raggiunse, si piegò in avanti poggiando le mani sulle ginocchia. Era esausto, ma non appena capì che poteva riuscire a parlare si tirò su, ancora preda di respiri affannosi e porse una lettera a Silas. «Questo è un telegramma arrivato da Monaco, lo abbiamo aperto perché abbiamo visto che viene dalla famiglia di Weike. Non ti arrabbiare, per favore, a quanto pare abbiamo fatto bene. Lo ha scritto suo padre, dice che è importante, che devi andare lì perché è preoccupato per il piccolo Jorgen.»
Silas lesse velocemente il telegramma e tutto quello che Aleph gli aveva detto, corrispondeva. «Andrò immediatamente, speriamo che la linea ferroviaria non abbia problemi, né intoppi, altrimenti ci metterò più del previsto per arrivare.»
«Vengo con te!» esclamò Lothar, desideroso di volerlo aiutare.
«Non serve, davvero, so cavarmela. Tu devi prenderti cura di Helen.»
Lothar lo vide allontanarsi, lo vide andare via sicuramente preoccupato e, ancora una volta, pensando di essere incapace nell'aiutarlo o non desiderato.
Faceva sempre così. Lothar era arrabbiato con Silas perché lo aveva respinto ancora una volta. Aveva respinto il suo aiuto nonostante glielo avesse offerto. Era irritato e nervoso. Nella sua testa cominciavano ad affollarsi i pensieri più disparati. Aveva paura che la ferrovia si bloccasse, ultimamente era successo o che avesse potuto avere problemi a Monaco. Inoltre non sapeva cosa stesse succedendo a suo figlio: non lo aveva mai visto, ma era una parte di Silas e quindi se ne era preoccupato.
Aprì la porta di casa e trovò sempre lei, sempre Helen che, dopo due anni, lo accoglieva ancora con il sorriso; non lo aveva mai perso in fondo.
La salutò appena, lei gli rivolse qualche domanda di cortesia, ma non durò a lungo: Lothar si avventò sulle sue labbra, coinvolgendola in un bacio. Un bacio famelico, passionale, come non gliene aveva mai dati, baci che a lei sembravano troppo aggressivi, non li riconosceva. Helen si divincolò appena, giusto il tempo per chiedergli se stava bene, se tutto andasse per il verso giusto, lui annuì brevemente, poi proseguì con un altro bacio. La fece sedere sul divano, lei lo lasciò fare, poi la sdraiò appena, le baciò la curva del viso, il collo e l'insenatura del seno, gentilmente offerta dalla camicetta che lui si era preoccupato di sbottonare.
Lei si disse che forse era la volta buona, che Lothar si era deciso finalmente a essere a tutti gli effetti il suo fidanzato. Il loro fidanzamento era stato stabilito, non si erano scelti, questo era vero, ma lei sentiva che dopo due anni, forse, era giunto il momento di fare quel passo avanti, quel fatidico passo che andava oltre qualche bacio e qualche carezza.
«Scusami, ma non posso, devo andare...» disse Lothar improvvisamente. Si alzò dal divano.
Helen si mise a sedere, poi disse: «Dove devi andare?»
«Devo andare, devo fare una cosa e sono preoccupato, quindi sarei pensieroso tutto il tempo. Tu hai da preparare un dolce nuovo, no? Ecco, potresti fare quello, quando torno lo assaggerò.»
Lei annuì e lo lasciò andare. Negli anni aveva imparato che se Lothar si metteva in testa una cosa, probabilmente nessuno lo avrebbe potuto distogliere dal suo intento.
Giungere a Monaco non era stato facile, tra le varie soste e i controlli e sopratutto a causa di quel groppo alla gola che non lo aveva abbandonato da quando aveva letto il telegramma.
Silas era fatto così: si fasciava la testa prima del tempo. Immaginava il peggio, dandosene la colpa ovviamente. Cominciò a dirsi che forse era un egoista, che era stato troppo assente, forse non c'era stato sufficientemente per Weike, magari aveva avuto bisogno del suo sostegno, ma lui non c'era stato. Ci mise pochissimo a fare il paragone con sua madre, dicendosi che forse si era comportato come lei. Erano tutti pensieri irrazionali, illogici, perché lui, pur non vivendoci assieme, lo era andato a trovare spesso il suo bambino e perché sapeva di aver sviluppato un legame affettuoso tra padre e figlio, ne era consapevole, ma era preda dell'ansia che non lo faceva ragionare lucidamente.
Quasi non perse la fermata. Trasalì quando una signora gli posò la mano sul ginocchio per avvisarlo che erano arrivati a Monaco. Sospirò, si doveva dare una calmata se non voleva morire d'ansia prima ancora di arrivare a casa. Tra l'altro nessuno sospettò minimamente che lui potesse essere agitato per chissà quale motivo, perché poteva vedere benissimo in tutti gli sguardi dei passeggeri la paura, l'ansia e la preoccupazione.
Si precipitò a casa di Weike, aveva corso veloce, quasi non aveva più aria nei polmoni. Trovò una ragazza della servitù che uscì di casa, la osservò, aveva il volto triste e il capo rivolto verso il basso. Cominciava a temere il peggio. Il telegramma diceva che erano preoccupati per il piccolo Jorgen e vedendo quella ragazza uscire cominciò a chiedersi se non avesse avuto una qualche malattia. Scosse la testa, doveva scacciare quel brutto pensiero, così mosse qualche passo in direzione della casa. Il silenzio, un muto e assordante silenzio, e la paura che cominciava a prendere piede dentro di lui; perché era proprio a questa che la preoccupazione aveva lasciato il suo spazio.
«Jorgen! Weike!» li chiamò, sperando che qualcuno potesse rispondergli, ma niente, assolutamente nulla. Proseguì ancora addentrandosi all'interno dell'abitazione, visto che nessuno rispondeva si era messo a cercare da solo per la camera. In camera di Weike non c'era nessuno, neanche in quella del piccolo Jorgen. Doveva riacquisire il suo sangue freddo e continuare a cercare. Prima o poi li avrebbe trovati a meno che non li avessero arrestati per qualche motivo.
Si diresse verso la sala da pranzo, sorpassò l'arco d'ingresso e rimase di sasso, una statua di sale. Avrebbe potuto giurare di sentire il suo corpo gelido, trafitto da aghi. Non sentiva neanche più il suo battito cardiaco tanto non riusciva a credere a suoi occhi. Era successo per due volte nella sua vita a distanza di soli tre anni, cominciò davvero a credere che fosse lui la colpa, che fosse lui a causare tutte quelle sciagure.
Si guardò intorno, sperando di trovare Jorgen da qualche parte, lo chiamò: «Jorgen!» ma il bambino continuava a non rispondere. Si mise a pensare, allora. Sperava che non l'avesse vista così, lo sperava con tutto se stesso, ma se il bambino non era da nessuna parte, sicuramente era rimasto con la mamma, così si mise a cercarlo per la stanza, fin quando non lo trovò nascosto, con lo sguardo fisso, spaurito, smarrito nel vuoto, sotto un tavolino del salotto.
«Angelo mio che ci fai li sotto?» gli domandò dolcemente con il sorriso sulle labbra appena accennato, mentre gli porgeva la mano per farlo uscire di fuori.
Jorgen non rispose era evidentemente ancora scioccato, aveva assistito a tutta la scena.
Silas lo prese per la manina cercando di farlo uscire da lì, poi lo prese in braccio, gli diede un bacio sulla tempia e gli accarezzò appena la testolina. «Adesso c'è il tuo papà con te... Non devi più preoccuparti» gli disse dolcemente. Uscì dalla stanza e fermò la prima cameriera che vide, disse: «Da quant'è che sta lì? Possibile che nessuno si sia degnato di tirarla giù?» Silas teneva tra le braccia Jorgen in un abbraccio affettuoso e confortante.
«Ci scusi, Signore, ma il padre della signorina non ha voluto. Ci ha detto che così poteva vedere ancora sua figlia, probabilmente voleva illudersi ancora per un po'.» La cameriera era visibilmente affranta.
«Per favore, tiratela giù, è straziante vederla in quelle condizioni.»
«Subito, Signore, lo faremo.» Da quando Weike era rimasta incinta, tutta la servitù della casa aveva ricevuto l'ordine di rispettare ogni richiesta di Silas da quel momento in poi dato che anche lui avrebbe fatto parte della famiglia.
«Lo sai che il nonno ha un cagnolino? Un cagnolino della tua stessa età, pensa! Ti porto a casa adesso così potrai giocare con lui, sei contento?»
Jorgen mosse appena la testa in un cenno d'assenso. Gli era mancato suo padre.
Era felice che il bambino aveva reagito alle sue parole, Silas era così preoccupato per lui che avrebbe dovuto tenerlo d'occhio per qualche giorno. Già pensava a quante cose buone zio Natthasol avrebbe fatto per lui.
Portato Jorgen a casa, sarebbe tornato a Monaco per aiutare la famiglia di Weike e per capirci di più su come e perché fosse successo. La sua priorità in quel momento era suo figlio. Si avviò verso l'uscita della casa e stentò a credere ai suoi occhi, fuori dalla casa, aveva visto Lothar che sembrava avere tutta l'aria di uno che era appena arrivato lì e che era anche piuttosto affannato.
«Che ci fai qui?»
«Ero preoccupato. Non arrabbiarti. Ho visto la paura nei tuoi occhi Silas, l'ho vista e la riconosco. Non potevo starmene a casa non sapendo a cosa tu stessi andando incontro. Perciò sono qui.»
«Dopo discuteremo di questa cosa, adesso devo pensare a lui.» Tirò su appena Jorgen per sistemarlo meglio tra le sue braccia, voleva che si sentisse salvo e al sicuro.
«Lui è il piccolo Jorgen?» domandò Lothar sorridendogli.
Jorgen ricambiò appena quel sorriso, anche se il suo sguardo sembrava sempre assente.
«Silas ma cosa è successo?»
«Non posso dirtelo ora...» lo guardò negli occhi, come a fargli capire che era meglio se il bambino non rivivesse quanto accaduto ancora una volta; Lothar annuì. «Prima di andare devo prendere una cosa! Te lo lascio un secondo, così ci impiegherò meno tempo.»
«No, io...» Lothar non riuscì a finire la frase che si ritrovò il bambino tra le braccia. Si arrampicò fino al collo di Lothar per cingerlo e Lothar lo abbracciò, tenendolo e quasi non si sciolse per quell'abbraccio.
«Sono certo che sei un bambino dolcissimo, proprio come tuo padre» gli disse appena.
Anche se assomiglia a Salazar non riuscì al trattenersi dal pensarlo.
«Eccomi!» Silas corse nella loro direzione sventolando dei fogli in mano. «Ho preso i documenti del bambino, altrimenti non avrei proprio saputo spiegarlo tutto questo!»
«Menomale che ti sei ricordato, allora!» gli rispose Lothar, mentre Silas riprendeva in braccio suo figlio, anche se tenerlo in braccio, a Lothar, aveva fatto piacere.
Ci misero ancora un'infinità di tempo per ritornare fino a Berlino e poi a casa. Lothar lo aveva accompagnato fino a casa sua, voleva dargli il suo aiuto, sostenerlo, anche perché non sapeva ancora cosa era successo.
Bussò con vigore alla porta, fu Natthasol ad aprire.
«Chi è questo bimbo bellissimo?» domandò nella direzione di Jorgen, sorridendogli.
«Zio, avresti un dolcetto o qualcosa di buono per questo bel bimbo?»
«Ma certo! Avevo preparato giusto adesso la merenda per Castaldia, li faccio mangiare insieme!»
«Ottima idea, zio!»
Natthasol lo prese e si mise a parlare con lui, già gli faceva tenerezza a Silas immaginando quanto lo avrebbe rintontito di parole a quel povero bambino!
Stavano per entrare in casa, Silas ebbe un piccolo mancamento, un capogiro, chiuse gli occhi.
«Stai bene?» domandò Lothar preoccupato per lui.
«Sì, sto bene. Non chiudo occhi da due giorni e quello che è successo oggi mi ha lasciato un po' stordito. Ma sto bene, non ti preoccupare.»
Ludwig aveva guardato incuriosito Natthasol che girava per casa con un bambino mai visto prima. Si chiese chi fosse, ma attese. Vedendo suo figlio entrare, immaginò che fosse suo nipote.
«É mio nipote? Cos'è successo?» Ludwig rammentò il telegramma.
«Sono entrato in casa e nessuno sembrava volermi rispondere... Li ho cercati ovunque fin quando non li ho trovati. Prima Weike, poi lui.»
«Cosa è accaduto?» Ludwig insistette su quel punto, ormai preoccupato, anche perché l'espressione che era comparsa sul volto di Silas non gli piacque per niente.
Silas si portò una mano al volto, si massaggiò appena le palpebre, aveva ancora l'immagine di Weike appesa al lampadario davanti ai suoi occhi.
«Sono entrato nel salone e ho visto sua madre appesa per il collo. Si è impiccata, papà.»
Ludwig, che non era abituato a mostrare emozioni, spalancò gli occhi. La sua memoria tornò subito a Regan, mai avrebbe augurato a suo figlio una cosa del genere, eppure il destino sembrava tanto crudele con loro.
Nail si portò una mano alla bocca, attonito, sconvolto. E Lothar era rimasto pietrificato, comprendendo all'istante il motivo per il quale quel bambino sembrava così affranto.
«Jorgen credo abbia visto tutto...» proseguì Silas. «L'ho trovato che era sotto a un tavolino della sala, di fronte a sua madre. La fissava.»
Lothar gli mise una mano sulla spalla, lo avrebbe voluto abbracciare, ma non sapeva mai cosa fare di preciso in quel momento e non avrebbe voluto farlo soffrire più di così. Non voleva essere inopportuno, così si limitò a quel gesto caloroso.
«Allora, Jorgen... è così che ti chiami?» Castaldia si portò una mano ai capelli arricciandosi un boccolo. Lo guardava. Il suo papà gli aveva detto che aveva un fratellino, ma che non viveva con loro, perciò si domandò se non fosse proprio lui. Era contentissima, ma lo vedeva triste e in quanto sorella maggiore si sentiva di dover fare qualcosa!
«Lui è Bräunlich! fa passare la tristezza a tutti i bambini...» Castaldia gli passò il suo orsetto, un orsetto che si chiamava "marroncino" visto il colore del peluche.
«Te lo presto, finché non torni allegro!»
«Ci posso dormire?» domandò Jorgen.
«Sì, l'ho detto, no?» Castaldia fece spallucce alzando le manine verso il cielo. «Finché non torni allegro, puoi stare con lui!»
Jorgen sorrise alla sorellina e al suo orsetto! Era da poco in quella casa e già si sentiva meno solo.
«Che vi ha dato di buono lo zio?» Entrò Silas nella cucina per vedere se Jorgen si fosse o meno ambientato. Lothar lo aveva seguito e si disse che gli mancava tutto quello, le follie, la dolcezza di Silas che aveva scoperto celare, gli mancava terribilmente.
«Mi ha dato Bräunlich, papà!» Jorgen alzò l'orsetto in direzione di Silas. «Mi ha detto che lo posso tenere fin quando non sono più triste.»
«Oh, ma allora abbiamo proprio una sorellina gentile eh?» Silas gli accarezzò la testa dolcemente e gli diede un bacino, prima sulla testolina e poi le guance.
«E a me?» disse Castaldia seduta sulla sedia, puntando le manine sui fianchi.
«Ecco, ecco ora lo do anche a te un bacino!» Glielo diede e per giunta con lo schiocco! Al punto che Castaldia felice si portò la mano alla guancia.
«Ma io lo voglio anche da Lothar un bacino» disse la bimba.
Lothar cadde dalle nuvole, era soprappensiero e non si immaginava minimamente che la bambina desiderasse attenzione da lui.
Si avvicinò a lei e le diede anche lui un bacio su una guancia, Castaldia era emozionatissima.
Natthasol servì una fetta di torta a testa per i bambini.
«Zio, e a me?» domandò Silas.
«Tu non sei un bambino!»
«Ma ho fame!»
«Va bene, va bene, diamo anche al bimbo grande una fetta di torta!»
I bambini risero per l'appellativo che Natthasol diede al loro papà.
«Non ridete voi due!» Silas fece finta di arrabbiarsi, poi aggiunse: «Castaldia, fai vedere allo zio Lothar quanto sei brava?»
Castaldia annuì con la testa e prese la forchetta, portando via un pezzettino della sua torta, fino a mangiarlo.
«Ma che brava questa bambina, mangia da sola!» disse Lothar.
Lei si applaudì.
Anche Jorgen provò a imitare sua sorella, ma si sporcò tutto con la cioccolata.
«Aspetta, ti aiuto io. Non ti preoccupare, in pochissimo tempo sarai bravo come la tua sorellina.»
Jorgen sembrava essersi ripreso: distratto da tutte quelle attenzioni e rifocillandosi con del buon cioccolato. Silas avrebbe fatto di tutto per i suoi bambini e vederlo ridere gli riempiva il cuore di gioia.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top