Capitolo 32
Spesso il mal di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori dal prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
(spesso il mal di vivere ho incontrato E. Montale)
La Francia, in un modo o nell'altro, Franz l'aveva vista spesso. Non ne capiva il motivo, ma provava verso di essa un grande senso d'appartenenza è quasi gli dispiaceva invadere un territorio tanto bello; la Germania non era come la Francia, o almeno era quello che lui si diceva.
Non capiva il motivo per cui era stato mandato di nuovo lì: controlli, gli avevano detto; ma quello che facevano non era altro che starsene in un grande albergo telefono-munito senza neanche poterne usufruirne. Cos'avrebbe detto ai genitori di Friderich? Gli sembrava che il destino gli si fosse accanito conto senza una ragione particolare. Almeno c'erano le lettere, quelle poche parole che riusciva a scambiarsi con il suo amato. Arrivavano a destinazione, visto che Friderich gli rispondeva ogni volta. Se da una parte il destino gli voltava le spalle, dall'altra gli sorrideva, perché tramite un buon appoggio e una piccola strategia, riusciva a sentire Friderich vicino a sé anche a chilometri di distanza.
«Sempre a scrivere... vuoi forse fare lo scrittore? O scrivi le tue memorie di guerra?»
«Arthur non fare lo sciocco come tuo solito: mi devo concentrare. Vuoi che faccia errori di ortografia?» Franz lo scacciò con un gesto della mano, come fosse una mosca.
«No, ma sei sempre lì a scrivere. Telefona piuttosto!»
«E a chi dovrei telefonare? Sono orfano!»
«E allora a chi scrivi?» Arthur era divertito dall'imbarazzo di Franz, ma gli sembrava chiaro come il sorgere del sole che stesse scrivendo alla persona amata.
«Scrivo a una cara persona con la quale ho piacere di scambiarmi qualche pensiero.»
«Anche detta la tua fidanzata, sbaglio?» Arthur alzò un sopracciglio, con un'espressione sorniona, palesemente alla ricerca di una qualche intesa tra uomini.
«Sei uno scocciatore, lo sai?»
«Sì, lo so, Franz. Mi annoio... qui non succede mai niente. Ci hanno dato l'ordine di vegliare i politici di questa stupida zona francese.»
«Perché non provi a goderti il sole della Francia meridionale? Potrebbe farti bene alla salute.»
«Franz, siamo in agosto, se pensassi di godermi il sole finirei carbonizzato.»
«Invece di seccare me, perché non vai a fare il tuo lavoro?»
«Ma perché? I capi di questo governo provvisorio sono praticamente succubi del nostro paese: fingono una qualche indipendenza, o fanno finta di non far parte della Francia occupata; ma, andiamo, lo sanno tutti che ci prenderemo ogni cosa, prima o poi, no?» Arthur fece spallucce, in fondo ascoltava e ripeteva quei discorsi ogni giorno ed erano diventati come una sorta di balsamo per lenire la paura della morte imminente. Pensare che fossero onnipotenti, lo faceva stare bene.
«Meglio, vatti a divertire allora.»
«Senza di te? Giammai!» Con un gesto repentino e usufruendo della distrazione di Franz, gli strappò dalle mani la lettera che, con tanto amore, stava scrivendo.
«Guarda un po' qua quanto è appassionato il nostro Franz. Caro amore...» citava, proseguendo a leggere «non c'è giorno che non pensi al tuo bellissimo sorriso, al cipiglio sul volto, agli sguardi che mi regali!»
Franz gli strappò il foglio con altrettanta brutale cattiveria. Era l'unica cosa che lo teneva connesso a Friderich, l'unica, e benedì l'idea che ebbe, quella di non specificare mai il sesso del suo interlocutore. Non avrebbe potuto avere miglior colpo di genio.
«Va bene, va bene, ti lascio qui solo, soletto, bell'innamorato! Non ti disturbo oltre, vado alla taverna. Se hai bisogno di me, sai dove cercarmi.» Arthur si congedò con uno scherzoso saluto militare, allontanandosi da Franz, che tornò a sorridere dal momento che fu di nuovo a tu per tu con il suo Friderich.
Quello che Lothar stava ascoltando era il solito chiacchiericcio: alcune compagne di scuola parlavano della loro ultima conquista. «Povere ingenue, neanche si accorgono che parlano dello stesso ragazzo» bofonchiò tra sé e sé.
Silas lo ignorava da giorni, comunicavano lo stretto indispensabile, ma sembrava quasi che non poteva cercare di non pensarci, almeno per un po'. Ci si mettevano loro, con i vari pettegolezzi, a fargli tornare a galla il legame che avevano prima che lui rovinasse tutto.
«Quel maledetto cretino, le figlie dei nazisti si fotte!» Lothar strinse tra le mani un foglio di carta, probabilmente appunti che stava usando per ripassare. Il nervosismo gli face salire il sangue al cervello, non sapeva se lo infastidiva più l'atteggiamento di Silas o il fatto che quelle ragazze erano state con lo stesso ragazzo perfetto che tanto andavano vantando.
Ma l'attenzione di Lothar venne sviata proprio da lui: avrebbe voluto raggiungerlo per prenderlo a pugni, tuttavia raggelò sul suo posto quando vide che questi fu avvicinato da quattro ufficiali nazisti; per giunta, sembrava che uno lo conoscesse
Si alzò di scatto, senza pensare, agendo di puro istinto e immaginando che l'altro fosse in pericolo. Poi si bloccò, sapendo che Silas avrebbe fatto finta di non conoscerlo, e lo maledì tra sé e sé, maledendo anche se stesso.
«Oberstumbannführer, a cosa devo l'onore della vostra attenzione?» Silas riconobbe quello che era il padre di Friderich.
«Sono lieto che si ricorda di me, Silas. Vostro padre sta bene, vero?» gli domandò, con un sorriso cordiale stampato sulle labbra: uno di quei sorrisi che facevano rabbrividire, più che confortare.
«Scoppia di salute, Herr Wolf.» Silas era annoiato dalle solite questioni, le solite e inutili domande di cortesia. Nonostante questo, pensò che fosse meglio assecondarlo: dopo tutto, magari voleva solo parlare del più e del meno con chi era, secondo lui, dalla stessa parte. Si diede immediatamente dell'ingenuo, e avrebbe scosso la testa, se solo avesse potuto.
«Lei, per caso, ha impegni questo pomeriggio? Potrebbe recarsi presso la mia residenza per fare quattro chiacchiere? Sa, mio figlio mi sembra tanto solo ultimamente. Sono sicuro che dialogare con un suo ariano coetaneo gli farebbe sicuramente bene.»
«Va bene, Oberstumbannführer . Sarò da voi questo pomeriggio alle cinque.»
Nel vederli allontanarsi, Lothar tirò un sospiro di sollievo. Era rimasto con il fiato sospeso per tutto quel tempo e sorrise quando vide Silas, in lontananza, darsi una pacca sulla fronte. Da lontano non poté leggere il suo labiale, ma gli vide chiaramente pronunciare qualcosa; e, se un po' lo conosceva, di sicuro stava imprecando.
«Mein Got!» sbottò infatti, ancora una volta, mentre si avviava verso l'uscita della scuola. «E adesso cosa mi invento? Sento l'odore di trappola lontano un miglio!» Silas, nervoso, aveva preso a pensare ad alta voce, incurante di chi potesse sentirlo.
«Forse devo cercare di calmarmi...» Così, a pochi passi dell'uscita, si arrestò all'improvviso, destando la curiosità di Lothar. Silas prese aria a pieni polmoni, chiuse gli occhi e cercò di espirare e inspirare, volendo allentare la tensione nervosa.
Lothar lo vide uscire e improvvisamente e si rabbuiò. Essere preoccupato per lui, sentirsi coinvolto in una qualche sua bravata, lo aveva fatto sentire bene, almeno per un piccolo istante, seppure non ne aveva partecipato fisicamente. Così si sedette ancora una volta su quella panchina esterna nel cortile, fuori dell'edificio scolastico, a leggere i suoi appunti accartocciati per cercare di scacciare i tarli che lo arrovellavano da giorni.
Davanti casa Wolf, Silas era un fascio di nervi. Il silenzio che lo travolse appena entrano, non fece che aumentare il ritmo del suo battito cardiaco. L'ultima volta che aveva visitato quella casa era stato durante la festa di compleanno di Friderich. A quei tempi, forse, era più spensierato, aveva meno cose in ballo e, probabilmente, era anche più incosciente. Ma i tempi erano diversi. Ad ogni modo, la musica e il chiacchiericcio continuo lo avevano distolto dalla minaccia di pericolo imminente. Quel pomeriggio, invece, aveva varcato la soglia della porta con cautela, con un'orribile sensazione addosso. Era come se fosse perennemente osservato.
Se si fosse trattato di un'altra persone gli avrebbe concesso il beneficio del dubbio, lo avrebbe preso come un invito, uno dei tanti, ma si trattava di Herr Wolf, un membro delle SS e solo questo bastava a presagire dei guai.
Si guardava intorno come a voler immagazzinare bene nella mente ogni dettaglio di quella casa: forse più per paura che per una qualche strategia; e raggiunto il salotto intercettò Friderich, che seduto su una poltrona a sorseggiare una qualche bevanda, quasi non si strozzò vedendolo.
Quello che Silas gli lanciò, non fu che uno sguardo gelido, privo di un qualsivoglia sentimento: aveva la sensazione che ci fosse lui dietro a quell'invito così strano, ma Friederich gli rispose con una di quelle occhiate da cucciolo smarrito, come a volersi scusare e a giustificarsi. Era in debito con Ludwig, pertanto non avrebbe mai messo in mezzo suo figlio.
«Prego accomodati pure» s'intromise Herr Wolf spuntando da dietro le spalle di Silas.
Lui rimase immobile, terrorizzato, e se non fosse stato per il sangue freddo che lo contraddistingueva, sarebbe trasalito sul posto, rimanendo alla mercé del nemico.
Il padrone di casa gli indicò una sedia davanti a un tavolino; sembrava essere un interrogatorio, piuttosto che un tranquillo invito per mangiare un qualche dolce, ma Silas cercò di non perdersi d'animo e, rimembrando quell'etichetta che Ludwig aveva tanto faticato a insegnargli, accettò. Nella sua mente non faceva che ripetersi di dover sembrare il più normale possibile, non doveva fargli mangiare la foglia, l'importante era fargli credere che era Reinar a condurre il gioco.
Così si sedette: schiena dritta, gomiti lontano dalla superficie lignea del tavolo, occhi rivolti all'interlocutore, che non puntavano dritti nell'iride, ma miravano al centro dello sguardo, all'altezza del naso, per non infondere soggezione, né imbarazzo.
Una domestica si avvicinò a loro e servì uno spuntino pomeridiano, un piccolo dolcetto tedesco con tanto di tè caldo.
Silas guardò la tazza circospetto: non sembrava molto convinto a voler bere quel liquido: nella sua testa cominciavano a passare in rassegna tutte le congiure della storia.
«Avanti, non fare complimenti...» Herr Wolf fece un piccolo cenno con il braccio per incitarlo a bere. «Non penserai che sia avvelenata, spero.»
Mai battuta gli sembrò più azzeccata e veritiera «No, Herr Wolf, niente affatto.» Silas osservò la tazza davanti a sé, ancora una volta, deciso di sfidare la sorte e il destino. Guardò la porcellana che brillava, bianca e finissima, i fiori ricamati e il liquido che immobile lo osservava di rimando. Mosse una mano in direzione di questa, ma con somma sorpresa, vide Friderich sbilanciarsi in avanti e prendere lui la tazza, vi poggiò le labbra e ne bevve un sorso. Voleva dargli prova della sua innocenza.
«Friderich!» tuonò suo padre. «Ce ne è anche per te, non mi sembra il caso che tu debba bere quella dell'ospite no?»
«Sì, solo che la tazza di Silas mi sembrava più vicina, credevo fosse la mia, ma se pensi sia sconveniente, posso scambiare la mia tazza con quella di Silas, in fondo è lo stesso tè.»
Reinar sospirò esasperato ormai abituato ai capricci di suo figlio, poi si rivolse all'ospite incuriosito dalle diverse situazioni famigliari, chiese: «Anche lei, con suo padre, si comporta in questo modo o è così pigro?»
«Non sono di certo un figlio modello, signore...» Silas scosse la testa per sostenere la sua affermazione e prese a sorseggiare quel famigerato tè.
«Siamo solo dei ragazzi, signore. Forse un po' sciocchi, ancora troppo pigri, ma cresceremo anche noi, non credo ci sia da temere, diventeremo gli uomini che servono alla Germania.»
«Allora, a tal proposito, caro signorino Dubois, vorrei farle qualche domanda, se me lo consente.»
«Prego, chieda pure.» Gli rivolse un sorriso, stupendosi di come riusciva a sorridere visto la tensione che gli attraversava il corpo.
«Come trascorre le sue giornate?»
«Le mie giornate? Semplicemente...» Domanda troppo vaga, troppo generica, doveva prendere tempo per riflettere.
«Dunque: vado a scuola, frequento le lezioni, pratico sport come comanda la Germania.» In realtà, durante le ore di atletica, Silas trovava sempre un modo per svignarsela, al contrario di Lothar che eccelleva nella corsa e nel pugilato. Fosse stato per Silas avrebbe continuato ad amare la scherma e il suo adorato cavallo. Ormai aveva già le basi per avere un corpo sano ed atletico, sprecare tempo prezioso a scuola quasi gli sembrava un insulto.
«E poi?»
«E poi torno a casa, bado a mio fratello minore, quando mio padre non c'è, insieme a mio zio.»
«Non avete una domestica, una governante?»
«Abbiamo dovuto licenziarla, perché non era all'altezza della nostra casa e delle nostre esigenze.» Silas voleva sprofondare dalla vergogna, ma doveva mantenere un certo profilo; almeno Herr Wolf sembrava soddisfatto delle sue risposte. Quanto a Friderich, invece, rimase esterrefatto dalle chiacchiere di Silas: sembrava come se le stesse vivendo veramente e capì di dover prendere esempio da lui qualora volesse continuare a mantenere segreta la sua relazione con Franz.
«Capisco, effettivamente suo padre è un uomo molto esigente.»
«Oh non immagina quanto!» Silas si lasciò sfuggire una risatina, forse era stato un bene, almeno sembrava più veritiero, più spontaneo, di fatti, al gerarca nazista parve la risata di un figlio affettuoso.
«Le sue passioni quali sono?»
«Amo leggere, tutto quello consigliato dal Reich per me è fonte d'ispirazione!»
Friderich quasi non scoppiò a ridere, Silas era un attore nato.
«Amo gli sport, mi interesso di politica. Mio padre è molto esigente riguardo la storia gloriosa del nostro paese e mi impartisce lezioni supplementari oltre a quelle scolastiche.»
«Riguardo il suo aspetto, cosa può dirmi?»
«Mio padre mi ha ripreso più di una volta, forse è un vezzo che non dovrei avere, però mi è stato concesso di mantenere il mio aspetto in questo modo. Ricordo ancora le sue parole: "Silas, questa è una manifestazione chiara e pura della razza ariana."»
Friderich scosse la testa, Silas era un vero cantastorie, un imbroglione nato, altro che attore.
«Ad ogni modo, Herr Wolf, non mi hanno mai causato problemi, anzi: le ragazze sembrano essere attratte da dettagli del genere.»
«Oh bene, molto bene. Me ne compiaccio. Mio figlio, invece, non sembra molto interessato a questo genere di cose.»
Friderich deglutì a vuoto, quasi gli mancò un battito. Sperava con tutte le sue forze che Silas si inventasse qualcosa di buono anche sul suo conto.
«Signore, conosco molto bene suo figlio. Friderich è un ragazzo di cultura, dedito al partito, sono sicuro che ha ancora tempo per trovare la giusta ragazza, quella che fa al caso suo, così da creare la sua famiglia.»
In quel momento Friderich capì di essere in debito anche con lui
«Ora se me lo permette, Silas... vorrei farle delle domande più intime, o meglio più personali.» Silas cominciava a sentire caldo, il sangue gli ribolliva nelle vene e la paura gli faceva percepire il suo cuore come un cavallo impazzito.
«Mi è giunta voce che vostro padre avrebbe adottato una bambina recentemente, saprebbe dirmi qualcosa a riguardo?»
Silas era padre da poco e già usavano quella bambina come arma: contro di lui e contro suo padre. Avrebbe potuto chiedergli qualsiasi cosa, nominare qualsiasi assurdità, incolparlo di qualunque cosa, ma non doveva osare mettere in mezzo la sua bambina.
«Mio padre ha adottato questa bambina per essere partecipe alla causa del Reich, così mi ha detto, non so di più signore.»
«Come l'ha chiamata? Ha un nome curioso, non lo rammento.»
«Si chiama Castaldia, signore, Castaldia.» Silas avrebbe voluto stringere qualcosa tra le mani, qualcosa da serrare nei pugni, ma doveva ancora rimanere calmo, quantomeno pacato per non bruciarsi tutto il suo destino in una manciata di minuti.
«Particolare, non crede? Sa cosa significa? Di che origine sia?»
«Castaldia è un nome di origine gotico-germanica e significa "signora del castello"»
«Interessante, davvero un bel nome!»
Herr Wolf sembrava soddisfatto, ma Silas era sicuro che fosse stato colpito dall'origine piuttosto che dalla musicalità del nome.
«Sono contento che le piaccia il nome, signore, lo riferirò a mio padre.»
«Molto bene, Silas, gli porti anche i miei saluti.»
«Sarà fatto, signore, se non le dispiace, si è fatto tardi, io devo rincasare, mio padre mi ha detto di non fare tardi.»
«Va bene, non la trattengo un minuto di più, ma mi raccomando, continui a fare ciò che mi ha detto.»
In quel momento una domanda attraversò la mente di Silas "Cosa avrà voluto dire?" Ma non doveva essere paranoico e rimanere concentrato.
«Friderich, accompagna alla porta il tuo amico» comandò Herr Wolf.
Friderich si alzò dalla sedia, conducendo Silas verso la porta, mentre la cameriera si preoccupava di liberare il tavolino.
«Ci vediamo a scuola!» affermò Friederich continuando a guardare Silas, gli era grato, non avrebbe smesso si ringraziarlo per averlo coperto davanti a suo padre. Nonostante l'astio e le divergenze d'opinione, Friderich aveva compreso che Silas era una persona della quale si potesse fidare.
Aveva tagliato la corda da casa Wolf, sparendo nell'imbrunire il più velocemente possibile. Per tutto il tragitto era stato attanagliato da una nausea incontrollabile: troppe bugie e sotterfugi. Così al primo angolo svoltato si piegò in avanti, rigettando solo bile. Era nauseato dalla situazione, da quel gerarca nazista che lo aveva interrogato, preoccupato per sua figlia, per suo padre e ancora troppo ferito dalla rinuncia di Lothar.
Arrancò fino a casa spinto solo dalla voglia di tenere tra le sue braccia la piccola Castaldia, troppo innocente per subire tutto ciò, bisognosa di sentire l'affetto di suo padre, perché era questo che lo preoccupava, non voleva fargli percepire quella mancanza d'affetto che troppo a lungo lo aveva segnato nel corso della sua giovane vita, per colpa di sua madre.
Non appena entrò in casa si precipitò verso la culla della bambina, la quale piangeva. «Che c'è, piccolina, ti sono mancato? Lo so, lo so... a volte faccio questo effetto.» Ridacchiò per la battuta fatta da se stesso, mentre la piccola Castaldia, a poco a poco, smetteva di piangere al ritmico ondeggiare della braccia di Silas.
Si sedette sul divano, tenendola bene tra le braccia. La stringeva come se fosse la cosa più bella e preziosa al mondo. Non sapeva se fosse realmente sua oppure no, non ne aveva la certezza, ma l'amore incondizionato che provava per quella creatura, gli dava forza sufficiente da potersi battere contro chiunque: non gli servivano prove, gli bastava quello.
Sorrise, quando vide Castaldia allungare le manine tra i suoi capelli; sembrava che le piacessero particolarmente. «Spero che tu non abbia niente da ridire a riguardo, signorina.» Rise ancora. Castaldia trovava la serenità in braccio a Silas e lui la trovava con lei tra le sue braccia: era un connubio davvero perfetto.
Cominciava a capire perché suo padre si preoccupasse tanto. Il pensiero di perderla lo mandava in frantumi.
Ricominciò a cullarla cercando di farla addormentare. «Dormi, dormi mia stellina, fai la nanna piccolina» continuava a ripetere quella semplice frase, quella breve ninna nanna per sua figlia, la quale sembrava apprezzare il suono dolce e melodioso della voce di suo padre.
Facciamo un po' di chiarezza!
Prima che qualcuno si risenta per i nomi, lasciatemi dire che Arthur così com'è è usato anche in Germania nonostante si pensi sia prettamente inglese.
Castaldia, per quanto possa sembrare un nome bizzarro... è un nome usato dai Goti quindi più tedesco di così si muore, che significa signora del castello. Lo avrei spiegato più avanti, il capitolo è già stato scritto, ma pare che qualcuno abbia fretta <3
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