Capitolo 3


Passa radiosa come la notte tersa
dai cieli stellati,
il meglio del buio e del fulgore
si incontra nei suoi occhi
addolciti a quella tenera luce
che il cielo nega allo sforzo del giorno.
Un'ombra in più, un raggio in meno, avrebbero
in parte gustato la grazia senza nome
che si posa sui suoi capelli neri
o illumina il volto con dolcezza,
dove pensieri limpidi
svelano pura e preziosa dimora.
Su quella guancia, sopra quella fronte serena
sorrisi e colori parlano di pacifici giorni,
di un intelletto in armonia col tutto,
di un cuore che ama innocente.
(Passa radiosa come la notte tersa-L Bayron.)

Erano passati all'incirca tre giorni da quando quell'uomo aveva lasciato la sua casa con la promessa di un nuovo visto – falso, per di più – e Aleph non l'aveva rivisto per tutto il tempo trascorso d'allora.

La paura cominciava a farsi largo in lui, aveva il timore che Ludwig lo avesse raggirato e che i suoi dati sarebbero presto finiti su una lista che lo avrebbero fatto deportare chissà dove. Non sapeva se fidarsi o meno di lui – perché avrebbe dovuto, in fondo? Faceva parte della fazione antisemita e pertanto avrebbe dovuto odiarlo, non aiutarlo; c'era qualcosa, però, che gli dava modo di scucirsi un po': non poteva certo dimenticare che due anni prima lo aveva salvato senza neanche sapere chi fosse, per questo Aleph era combattuto.

Si chiedeva che senso avesse avuto quell'azione, quindi: aiutarlo per poi dannarlo era altamente improbabile, anche se non impossibile. Volle però convincersi ad aspettare l'arrivo dell'altro, nutrendo in silenzio la speranza che questo arrivasse con quanto promesso.

Si stava destreggiando in cucina con quelle poche cose che vi erano rimaste, preparando la colazione a sua madre che, suo malgrado, era ancora ammalata e costretta a letto.

Entrò nella stanza di lei aprendo piano la porta e mantenendo il vassoio con un equilibrio precario sull'altra mano, allorché notò che la donna era già sveglia e il suo aspetto sembrava a dir poco migliorato – probabilmente, la febbre stava scemando e le medicine continuavano a fare il loro effetto.

Aleph tirò un lieve sospiro di sollievo.

«Come ti senti oggi, mamma?» Le chiese, avvicinandosi a lei poggiando il vassoio sul comodino in legno. Le aveva portato una tazza di latte e del pane imburrato, alcune delle poche cose che avevano e che Aleph era riuscito a trovarle a uno spaccio non proprio legale.

«Un po' meglio anche se mi sento ancora frastornata.» Miriam gli sorrise debolmente.

Il suo aspetto era migliorato, sì, ma il suo volto mostrava ancora i segni della malattia, facendola apparire stanca e pallida oltre a mostrare due solchi sotto gli occhi abbastanza evidenti: non era stata una febbre leggera, l'aveva debilitata abbastanza.

«Vedrai che fra qualche giorno andrà meglio, intanto ti ho preparato la colazione.» Aleph cercò di rassicurarla, anche se quello che ne aveva più bisogno era lui, preoccupato com'era per una serie di cose che lo rendevano agitato.

Sua madre non mancò di notarlo, infatti, perché non solo conosceva bene suo figlio, ma doveva ammettere che il tremolio delle sue mani – tradendolo quando posò la colazione accanto a lei – era ben poco equivocabile.

«Ti vedo preoccupato Aleph. Cosa ti turba?» Gli chiese, impensierita per lui, battendo appena il palmo sul materasso. Voleva invitarlo a sedersi, così che potesse tranquillizzarlo un poco.

«Nulla in particolare, sono solo inquieto riguardo al visto.» Distolse appena lo sguardo da quello dolce e premuroso della madre.

Quella strana faccenda lo stava davvero mandando su di giri, in un vortice d'ansia che raramente Aleph aveva conosciuto: era peggio del malessere precedente all'esame universitario.

«Hai paura che quell'uomo non mantenga la sua parola?» La donna richiamò la sua attenzione e lui annuì. «Forse, non riesco a fidarmi del tutto e non so perché... mi sento come diviso: una parte di me vuole fidarsi di lui e l'altra invece è restia.»

Miriam poggiò una mano sulla sua, per rasserenarlo in qualche modo, anche se sapeva bene che quando suo figlio era inquieto non c'era alcun modo per distoglierlo da quel suo vortice di pensieri.

Lui la guardava con i suoi occhi misti tra il verde del prato e l'azzurro dell'acqua marina, limpidi e vagamente sgranati per il timore che lo rincorreva da quando Ludwig se ne era andato.

«Aleph, cerchiamo di non preoccuparci e preghiamo affinché quell'uomo mantenga la sua parola.» Gli strinse una mano come se volesse abbracciarlo, cosa che in quel momento non poteva fare; quel gesto era il massimo che era in grado di concedersi visto la debolezza del suo fisico, ma sapeva che ad Aleph era sufficiente per sentire il calore di sua madre, anche se in quel momento continuava ad essere turbato.

«Come fai a essere così tranquilla?» Improvvisamente sbottò con quella domanda, cercando di non alzare troppo la voce – la paura e il disagio di essere caduto molto probabilmente in una trappola lo logorava. Fece un respiro profondo per calmarsi, abbassando lo sguardo come per scusarsi con lei.

«Aleph, ho vissuto abbastanza per riconoscere quando un uomo è buono o è cattivo. Per un istante ho incrociato il suo sguardo e lui stesso reclamava aiuto, per cui non temere: presto arriverà.» Lo aveva guardato seriamente con il suo profondo sguardo bruno e ancora premuroso. Sapeva che per lui non era facile vivere quella situazione e lei non poteva che sperare nella buona fede di quell'uomo che avrebbe potuto salvarli come dannarli di conseguenza.

Ludwig si era calato in un antro oscuro – un sottoscala malandato dove bisognava scendere quasi due rampe di scalinate per arrivare a destinazione; questo angusto abitacolo si trovava al di sotto un negozio che vendeva pane, un negozio non ebreo, ovviamente, e lo stesso falsario che lo dimorava non era un ebreo a sua volta, bensì un tedesco – uno di quelli che chiamavano ariani.

In tempo di guerra, la crisi era davvero molta e c'era chi si districava nelle più disperate imprese pur di racimolare qualche soldo: Elger, per esempio, aveva un talento innato per i mosaici e le miniature, quindi, tra sé e sé, si disse che sarebbe stato adattissimo come falsario – in fondo si sapeva che, di quei tempi, carte d'identità, visti e passaporti falsi andassero per la maggiore.

«Allora è pronto?» Ludwig si era presentato lì in alta uniforme, quella con cui di solito di recava al quartier generale.

Avrebbe portato con sé il visto qualora fosse stato pronto per essere consegnato ad Aleph come promesso. Ludwig era un uomo di parola e cascasse il mondo doveva mantenere quanto detto.

«Con calma Ludwig, con calma... queste sono cose che si fanno con una certa perizia.» Elger aveva l'occhio puntato in una lente d'ingrandimento e stava proprio facendo il visto per Aleph.

Pareva intento nello scrivere il nome del ragazzo con una cura estrema: non solo le sue mani sembravano immobili agli occhi di Ludwig, bensì tutto il suo intero essere – minuzioso e ligio come al solito.

Elger teneva sempre un sigaretto tra le labbra, acceso o spento che fosse – ormai quello era un vizio conclamato e nessuno poteva toglierlo: lo rilassava sapere che poteva sempre contare sul suo amato sigaretto.

«Ti ho lasciati i dati tre giorni fa», si lamentò Ludwig pacatamente, mentre guardava ammirato il lavoro di Elger.

Aveva la polvere sulla chioma scura, intersecata per bene tra le onde dei suoi capelli corti e un po' scompigliati – di un castano scuro che adesso pareva fatto di cenere. Sicuramente, Elger aveva bisogno di uscire da quel posto e a detta dell'altro era proprio bisognoso di una doccia.

«Lo so, Ludwig, ma non è l'unico visto che ho da fare e tu mi conosci bene: se il lavoro non viene fatto con precisione lo rifaccio da capo e a volte capita anche a me di sbagliare.»

Il suo tono di voce era ironico e un poco scocciato, non tanto per la pretesa di Ludwig, ma perché era davvero stanco – erano ben due giorni che non vedeva la luce del sole.

«Non ti faccio chiudere tutto solo perché mi servi», gli disse Ludwig, forse un po' in clementemente; ma Elger sapeva perfettamente che l'altro stava scherzando.

«E perché sei mio amico.» Elger gli fece l'occhiolino in maniera amichevole e alzandosi dalla sua postazione si avvicinò all'amico, porgendogli il visto.

Le sue mani erano belle, ma si poteva scorgere comunque la fatica di quel lavoro ingrato sotto le unghie cui aveva sempre dell'inchiostro nero, tanto lavorava a quei dannati documenti falsi.

Gli consegnò la documentazione, accendendo finalmente il suo vizio: fortunatamente c'era una piccola finestrella che gli consentiva di non morire asfissiato dal suo stesso fumo.

Non offrì nulla al moro, anche perché sapeva che questo fumava occasionalmente e solo sigarette.

«Ho sempre pensato di avere amici sbagliati.» Ludwig rise, pensando a quanto detto e sapendo che Elger non fosse affatto un amico sbagliato, dopodiché scosse appena la testa, dedicandosi al visto con un'occhiata successiva.

«Meglio un amico falsario e sincero, Ludwig, che quelli che ogni giorno ti chiamano, elogiando il tuo grado, mentre progettano alle tue spalle la tua disfatta.» La sua era solo una supposizione, ma aveva paura per la sorte di Ludwig: non si fidava minimamente di quelle persone e tutt'ora era dispiaciuto che lui ne facesse parte.

Si ricordava ancora di come da piccoli ne combinassero di ogni, di come Ludwig si trasformasse fuori casa e lontano dai suoi doveri; in un certo senso era dispiaciuto che l'altro fosse costretto in quella gabbia che tutti quanti chiamavano Patria, doveva ammetterlo.

«Quanto avevamo pattuito per il visto, Elger?» Gli chiese, guardandolo e mettendo in tasca il visto, dopo aver aspettato qualche minuto, con l'intento di farlo asciugare per bene.

«Niente», sorrise di rimando: non voleva niente da Ludwig.

«Non avevamo pattuito una cifra?» Domandò Ludwig, perplesso, guardando il suo amico dall'alto della sua statura – li separavano all'incirca diciotto centimetri ed Elger era già parecchio alto.

«Oh, io non mi ricordo di nessuna cifra», ridacchiò appena. Non voleva farsi pagare, gli aveva fatto un favore e glielo aveva fatto con piacere, con affetto. «A proposito, Ludwig, tuo figlio si è fatto fare la carta d'identità falsa.» Ludwig lo guardò per qualche secondo, ponderando su quanto gli aveva detto per poi sospirare.

«Per i night non è così?» Domandò il colonnello poco dopo, sapendo che alla fin fine suo figlio frequentasse certi posti. Era preoccupato per lui, quei luoghi erano troppo frequentati dai suoi colleghi e lui conosceva bene quanto poteva essere ribelle suo figlio; l'unica cosa che lo rincuorava era sapere che non fosse poi così stupido da mettere a repentaglio la vita in modo sciocco.

«Ebbene sì. » Elger sembrava canzonarlo debolmente.

«Allora, amico mio, ci vediamo presto. Spero per una visita di piacere e non per un altro visto... » Gli rivolse un piccolo sorriso sincero, constatando che, per certi versi, la finta spensieratezza del suo amico gli dava forza.

«Avvisami quando dovrò partecipare a un ballo di gala, che ho bisogno di una doccia», disse portando una mano alla bocca per afferrare il sigaretto tra le dita e buttare fuori un po' del fumo.

Ludwig Lo salutò con la mano e si incamminò nuovamente verso il passaggio segreto che lo avrebbe condotto dall'altra parte del palazzo; sparì nel nulla, così come era apparso, con la sua prossima destinazione ben fissa in mente: casa di Aleph.

Lo aveva fatto aspettare fin troppo e ci teneva a non deluderlo, dopo tutto. Quel ragazzo gli era simpatico, aveva suscitato in lui una qualche curiosità.

Non si sarebbe mai immaginato di poter prestare aiuto a una persona sconosciuta, per di più per la seconda volta; durante quella terribile notte fu quasi doveroso per lui salvarlo, ma adesso che motivo aveva? Forse non voleva rendere vani i suoi sforzi o semplicemente aveva già fatto il pieno d'orrore: era saturo di tutta quella malvagità che dominava incontrastata la città.

Sospirò lievemente, camminando con grandi falcate, a passo svelto, sul terreno cui si poteva udire il rimbombo della suola degli stivali che, il più delle volte, suscitavano gran terrore nella gente.

Di nuovo quel quartiere emarginato dal resto del mondo.

Voltò la testa un paio di volte per raccapezzarsi – in fondo era stato a casa di Aleph solo una volta e per quanto memoria visiva potesse avere, questo non era comunque in grado di memorizzare le vie in così breve tempo; forse era stato solo distratto, o per lo meno così si giustificò.

Riuscì a trovare la strada ben presto, ponderando sulla direzione con un pizzico di fortuna, e la imboccò per percorrerla.

Il freddo era tanto, ma il mese di novembre sembrava essere ancora clemente, perché il peggio sarebbe arrivato verso quelli più invernali – più rigidi. Ludwig non lo soffriva tanto, anche perché, termicamente parlando, stava più che bene nella sua divisa; eppure, doveva ammettere che di tanto in tanto riusciva a temerlo, sentendoselo nelle ossa e nel petto – oh, ma non era il gelo della Germania, bensì quello della sua anima che da tanto non veniva riscaldata.

Arrivato d'innanzi alla porta di casa, il colonnello sospirò appena: doveva apparire comunque severo, senza cercare di intimorirli più di tanto, ma non poteva farsi conoscere per quello che era veramente – non subito almeno.

Bussò energicamente con tre colpi, facendo trasalire Aleph che, dal canto suo, aveva deciso di leggere un po' durante il sonno di sua madre. Non aspettava nessuno quel giorno, perciò sperò con tutto se stesso che fosse Ludwig con il visto e non qualche altro tedesco che potesse minacciarlo o portarlo via da casa sua.

Lui e sua madre avevano pensato di espatriare qualche tempo prima, ma la febbre che si aggravava sempre di più non gli permetteva di muoversi per tentare la sorte chissà dove e così s'erano ben presto trovati costretti a convivere con la paura, assaporando giorno per giorno la vita che pareva fin troppo precaria in quelle terre.

Ogni giorno che passava vivo, Aleph si sentiva fortunato, asserendo che era meglio vivere col terrore pur di continuare a farlo con la speranza di poter vedere il sole sorgere anche il giorno seguente.

Si alzò dalla sua postazione per andare ad aprirgli la porta, poggiò la mano sulla maniglia, tremando appena per poi divenire decisa nella sua presa – non doveva avere paura, o meglio, non doveva farsi sopraffare da questa.

«Standarteführer.» Aleph si sentì inondare di gioia, pronunciando il grado di Ludwig con molta enfasi tant'era felice di vederlo.

Non ebbe paura in quel momento e tutti i suoi dubbi si dipanarono con un solo sguardo, riuscendo a concentrarlo sull'idea del bene che quell'uomo fosse in grado di fare; ora, senza logica alcuna, pareva non avere più sospetti.

«Finalmente, pensavo che non sareste più venuto a portarmi il visto...» continuò a parlare, quasi sproloquiando.

Era così felice del suo arrivo che Ludwig sollevò un sopracciglio per la sorpresa di vedere tanta gioia in una persona sola; allorché, senza neppure rendersene conto, si convinse di aver fatto la cosa giusta e a sua volta dissipò ogni ripensamento.

«Posso entrare o devo rimare qui fuori?» Gli domandò con un'espressione quasi scocciata sul volto.

L'aveva fatto rimanere lì, davanti alla porta, e non andava bene per entrambi: meno li vedevano insieme e meglio era.

«Sì, certo... prego, accomodatevi.» Aleph si spostò dalla porta, facendogli spazio per passare.
Ludwig entrò in casa e prese a sfilarsi i guanti neri dalle mani, sfregandole subito dopo per riscaldarle tra loro più di quanto non fossero già.

«Non darmi del voi, trovo che adesso sia quasi inutile. Ovviamente potrai farlo solo ed esclusivamente qualora ci trovassimo nuovamente da soli.»

Ludwig lo guardò per qualche istante, puntando i suoi occhi neri verso quelli sfaccettati dell'altro, vedendoli sgranare appena.

Aleph si sentì come riempito da quei neri abissi e arrossì un po', inconsciamente; dal canto suo, Ludwig si era già preso la libertà di prendersi la confidenza che voleva.

«Come volete standar... volevo dire...» Non sapeva il nome dell'altro, quindi aspettò che l'altro glielo palesasse.

«Ludwig, mi chiamo Ludwig», gli disse, sorridendo lievemente, lasciando che Aleph lo vedesse per la prima volta con quell'espressione sul volto senza poter fare a meno di trovarlo bellissimo – ma cosa andava a pensare: un uomo poteva essere davvero definito bellissimo da un altro uomo in modo tanto soggettivo?

«Come desideri, Ludwig.» Fu Aleph a sorridere in quel momento e il suo era esteso e gioioso, poteva quasi fare male agli occhi, ma in quel momento non diede affatto fastidio al colonnello: era tanto che non vedeva qualcuno così allegro e sapere che quella stessa allegra derivava probabilmente da lui lo ridestava da quel torpore glaciale.

«Dunque, il visto... » borbottò tra sé e sé Ludwig che si era distratto per un momento.
Estrasse dalla tasca il documento tanto desiderato dal ragazzo e glielo porse.

«Grazie, Ludwig, non so davvero come potermi sdebitare.» Lo guardava dal basso ammirandolo in tutta la sua interezza. Ora avrebbe di certo osannato quell'uomo che gli aveva garantito l'esistenza almeno per un altro po'.

«Non c'è bisogno che ti sdebiti, non so neanche io perché l'ho fatto...» Fece spallucce. Aveva agito d'istinto, rischiando tutto per aiutare uno sconosciuto: chiunque gli avrebbe dato del pazzo.

«Non importa, lo hai fatto ugualmente, però, per tanto voglio sdebitarmi.»

Si era avvinato a lui, continuando a guardarlo, sta volta era serio.

«Sei il mio salvatore, praticamente, e a giudicare dalla tua divisa non eri affatto tenuto a farlo; quindi io voglio sdebitarmi e non accetto un no come risposta.»

Aveva assunto un tono diverso, più deciso – Aleph era un misto tra timidezza e decisione, qualcosa concessa solo alle anime più sensibili.

Ludwig sospirò, cominciava ad ammirare quel ragazzo sopratutto il suo coraggio, dopodiché tirò fuori dalla tasca lo stesso taccuino di qualche giorno prima e sfogliandolo poté rivedere nuovamente i dati di Aleph che gli erano serviti per il visto.

Arrivato finalmente a una pagina bianca, svitò la penna stilografica con l'ausilio della bocca che continuava a sorreggerne il tappo, prendendo poi a scrivere qualcosa. Strappò il foglio, dunque, e poi lo passò al ragazzo per richiuse comodamente la penna.

«Questo è il mio indirizzo, vieni all'ora che ho scritto: c'è la mia firma, quindi chiunque ti fermasse saprà che dovrà lasciarti passare.»

« Come potrei sdebitarmi con un invito?» Chiese dubbioso Aleph, guardando il foglio lasciatogli poco prima.

«Semplicemente con la tua presenza: voglio scambiare quattro chiacchiere con te», gli disse sorridendo ancora un poco, ma in modo differente – forse un po' più sensuale.

«Va bene...» accettò titubante, mentre le sue gote si colorivano appena.

«Ti aspetto, allora.»

Quella notte, Silas aveva deciso di andare in uno dei night che frequentava e di trascinare con sé Lothar.

Il più grande dei due non era stato certo felice di questa decisione presa dal biondo e sbuffava lungo la via per il night, ricordando in testa le parole dell'altro: Dicesti che io vado sempre a divertirmi, mentre voi rischiate la vita; ebbene prima della tua morte vorrei regalarti una notte di gioia.

Lo avrebbe ucciso per quell'affronto, non c'erano dubbi, anche perché Lothar era un tipo piuttosto semplice:non badava alla vita mondana, né tantomeno si preoccupava di far baldoria. Era un ragazzo serio di soli sedici anni, tutto l'opposto di Silas che a quindici poteva già vantare numerose esperienze.

«Potresti almeno fingere di essere contento? Sbuffare non ti rende attraente, sai? » Silas si era voltato verso di lui, spostandosi appena i capelli che, ribelli e mossi, erano finiti sul davanti della sua giacca violetta.

«Perché dovrei sembrare attraente? Tu hai voluto portarmi qui, io non ne avevo la ben che minima voglia»

«Vedrai, alla fine mi ringrazierai: ti piacerà questo posto.»

Lothar si mostrava sempre scontroso, ma non tutto il suo malessere era dovuto da quell'uscita improvvisata, poiché questo stava covando altro dentro di se.

«Non sono tutti come te, Silas. Non tutti pensano alla vita Bohemien di questi tempi e io non riesco a divertimenti pensando alla gente che muore.» Improvvisamente esplose, prendendosela col biondo come se sul suo stile di vita potesse sputare tutto ciò che lo affliggesse – anche se lui non c'entrava niente o per lo meno non proprio.

«Sempre con questi argomenti? Prendila così, allora: fa' conto che per me è come una cura, che se non lo facessi non sarei abbastanza lucido da potervi guidare.» Fu Silas stavolta a sbuffare e a schioccare la lingua infastidito per l'insistenza del moro – effettivamente non ce la faceva più a sentire quelle chiacchiere sul suo andamento: lui agiva secondo il proprio istinto, ma questo non significava che fosse un dannato insensibile.

«Sarà, ma a volte sembri maledettamente frivolo e superficiale. Il tuo stesso aspetto lo dimostra spesso...»

A quelle parole, Silas si piantò in mezzo alla strada, scurendosi in volto: non tollerava certi discorsi, non rivolti a lui.

«Lothar non fare lo sciocco e non fingere di esserlo: sei abbastanza intelligente da sapere che io non sono affatto come tu mi descrivi. Sono lo stesso Silas di sempre, il fatto che io abbia molti punti di vista non fa di me una persona frivola. Se sembro frivolo è perché mi diverto a farlo, non perché lo sono, te l'ho spiegato l'altra volta e te lo l'ho detto poco fa: faccio questo per divertimento e per necessità. Tu dovresti fare altrettanto, perché la tua famiglia non differisce molto dalla mia.»

Lothar lo aveva ascoltato e visto decisamente scosso. Non voleva ferirlo, ma non riusciva a dire ciò che pensava; allora sospirò appena, prima di cominciare a parlare:
« Mi dispiace, hai ragione. Ti conosco e so che non sei per come appari, ma capiscimi, sono agitato, vedo gente morire mentre noi ci divertiamo, mentre quelli che causano la sofferenza del nostro popolo si divertono...»

Silas poggiò una mano sul braccio di Lothar come per rassicurarlo, intendendo che il suo amico fosse sottopressione e che si prendesse decisamente a cuore il destino delle persone.

«Non è offendendo me che possiamo risolvere i problemi del mondo Lothar, noi stiamo già facendo molto», prese a bisbigliare per non farsi sentire. «Stiamo cercando come possiamo di contrastare questo schifo, cosa possiamo fare di più? Non è stando a casa che automaticamente le persone smetteranno di morire e la stessa cosa non accadrebbe se ci divertissimo; a questo punto una cosa vale l'altra.» Silas poggiò un braccio intorno alle spalle di Lothar come per abbracciarlo amichevolmente e rassicurarlo: in fondo, a differenza d'altri, lui non stava facendo nulla di sbagliato. «Quindi adesso metti via quel broncio e sorridi un po'.» Silas stava chiedendo miracoli a Lothar, anche perché questo non sarebbe riuscito a sorridere in nessun caso; per lo meno, però, promise a se stesso di non sbuffare, consapevole che assumere un certo atteggiamento, magari, non si addiceva a un tipo come lui – non voleva sembrare molesto o lamentoso, per cui si diede dello sciocco automaticamente, assumendo un'espressione seria.
I due ragazzi entrarono nel night e questo sembrava essere davvero un luogo lussuoso, per nulla di basso borgo: si vedeva che Silas era abituato bene, non si faceva mancare niente.

Nonostante anche Lothar fosse ricco, a tutta quell'opulenza avrebbe voluto storcere il naso da bravo minimalista; ma si era promesso di non avere atteggiamenti particolarmente strani o espressioni ambigue che avrebbero potuto infastidire se stesso e il suo amico, così da farli capitolare nuovamente in chissà quale delirante e inutile discussione.

Sembrava che la festa fosse già iniziata: c'erano tedeschi in alta uniforme che ridevano a causa delle battute e delle allusioni che la ragazza diceva per intrattenerli con il suo spettacolo.

Lei era una fanciulla dai capelli rossi, costituiti da boccoli raccolti, e solo davanti al suo viso, al di sotto nel cappello a cilindro ne era sceso uno ribelle; aveva scintillanti occhi verdi che risaltavano grazie al pesante trucco nero fattosi per il cabaret e indosso aveva quello che di consueto portavano ballerine o attrici di certi locali – ovvero body aderenti e neri con la scollatura a cuore sul petto, calze molto probabilmente a rete o di seta, a discrezione della fanciulla, bastone nero lucido e scarpe col tacco altrettanto nero; persone come lei non solo dovevano essere belle, ma non dovevano neppure annoiare.

Silas, non appena la vide le fece l'occhiolino – era evidente che la conoscesse – e lei, portandosi una mano alla bocca scarlatta, gli lanciò un bacio – bacio che molti nazisti pensarono fosse destinato a loro quando in realtà il biondo sapeva benissimo che era soltanto per sé; dopo tutto i due erano amanti, senza impegno, già da qualche mese.

«Non mi dire che la conosci...» fece Lothar, dandosi subito dopo dello stupito: come faceva a non conoscerla se lei gli aveva schioccato un bacio e se lui, praticamente, andava li tutte le sere?
«Certo che sì», sorrise sornione all'indirizzo dell'altro, facendogli intendere che la conosceva e anche abbastanza bene.

Silas aveva sempre quell'aria bohemien, mentre Lothar sembrava più serio, col taglio di capelli alla moda, mentre l'altro pareva esserseli arricciati ancora di più per l'occasione – e per giunta li portava perfino lunghi!

Che Silas non fosse conforme all'epoca lo si poteva percepire da tutto e come facevano a non intendere la sua anima rivoluzionaria, Lothar ancora doveva spiegarselo; ma in fondo era la sua aria da esteta a salvarlo, oltre al suo aspetto.

«E le altre? Conosci anche le altre? » C'erano altre ballerine che facevano da contorno alla rossa protagonista.

«Qualcuna, ma sta tranquillo: una ancora per te è rimasta.» Silas lo derise, sapendo benissimo che il suo amico non volesse dire quello. Aveva posto la domanda per semplice curiosità personale, come per vedere fino a che punto Silas si era spinto nella sua vita notturna.

«Potresti ritrovarti con qualche figlio illegittimo.» Silas, alle parole di Lothar fece spallucce, sembrava che non gli importasse poi molto o che semplicemente non riteneva la cosa possibile.
«Sediamoci avanti», eluse totalmente il discorso sedendosi a un tavolino con due posti, dove accanto si sedette anche l'altro.

Lothar si guardava attorno, era la prima volta che entrava in un posto del genere: le pareti erano decorate con del colore vermiglio e tutto sembrava riportare quelle stesse tinte, forse semplicemente perché oltre a simboleggiare la lussuria e il divertimento era anche lo sfondo della bandiera Nazista. L'arredamento era certamente di classe a suo dire, anche troppo se si andava considerando che tipo di posto fosse quello; eppure, quasi subito comprese che dovesse sembrare più pulito e sobrio di quel che appariva per attirare più polli possibili.

Sembrava proprio non volersi sciogliere e se ne stava lì tutto impettito, neanche fosse un soldato, guardando lo spettacolo come se nulla fosse; soltanto una volta sorrise appena per una battuta fatta, lanciando nella direzione dell'amico qualche sguardo fugace.

Silas, dal canto suo, con il mento poggiato sulla mano e l'aria un po' sorniona, sembrava che si stesse mangiando con gli occhi ogni ballerina.

Si sentì imbarazzato, fuori posto, senza contare che non sapeva spiegarsi perché l'atteggiamento del biondo lo infastidisse tanto.

Si ridestò dai suoi pensieri quando vide la ragazza dai capelli rossi avvicinarsi al loro tavolo: aveva ballato e divertito il pubblico per circa un'ora, mentre loro due avevano ordinato qualche bevanda per intrattenersi mentre guardavano lo spettacolo; tra l'altro, Silas non era stato di molte parole perché troppo preso a guardare quei movimenti sinuosi e la cosa non aveva fatto altro che estraniarlo maggiormente.

Questa si era seduta sul tavolino, accavallando le gambe in maniera molto suadente e naturale, allorché Silas, prontamente, prese una sigaretta e gliela porse fino alle labbra, accendendola con un fiammifero che poi buttò nell'apposito posacenere di cristallo.

«Allora, meine lieber, ti è piaciuto lo spettacolo?» La donna prese a fumare, ignorando del tutto Lothar che parve quasi innervosito dalla sfacciataggine di lei.

«Abbastanza», disse, facendo un sorrisetto; a dirla tutta non aveva sentito molto dello spettacolo, concentrandosi per lo più nel guardarla.

Lei si spinse in avanti, mostrando la scollatura generosa, per accarezzare i capelli di Silas – sembravano piacerle particolarmente, specie quando lui se li arricciava ancora di più.

«Meine Lieber, permettimi di presentarti il mio amico», la distrasse un poco e questa si ritrasse appena per guardare Lothar, mostrandosi non particolarmente colpita da questo.

«Hai un nome, amico di Silas?» Lo precedette nel parlare, poiché lo vide abbastanza silenzioso e contrariato: detestava gli uomini di poche parole, pertanto non lo aveva notato e non lo avrebbe notato se Silas non fosse intervenuto.

«Lothar», pronunciò solamente il suo nome, guardandola fiero negli occhi.

Quella donna non aveva la loro età, lo percepiva chiaramente, e a suo avviso doveva avere sì e no vent'anni.

«Rose.» Anche lei pronunciò soltanto il suo nome, lasciando che fosse evidente come non si trovassero molto simpatici a vicenda – vera e propria antipatia innaturale e reciproca, così si disse, ma forse era solo una reciproca gelosia.

Ignorandolo nuovamente si protrasse ancora una volta verso Silas, spostandogli una ciocca di capelli dietro l'orecchio: un gesto raffinato, sensuale e delicato. Si avvicinò a questo al quale sussurrò qualcosa di sconcio, molto probabilmente, che Lothar non riuscì a udire; allorché Silas ridacchiò un poco alle parole lascive della donna e si alzò dalla sua postazione.

«Lothar, perdonami... ci vediamo tra un po'.» Lo salutò con un cenno della mano, mentre si allontanava con lei che rideva civettuola solo per ingraziarselo ancora un po'.

Per Lothar era chiaro come il sole quello di cui si sarebbe occupato di lì a poco Silas – e la cosa, in un certo senso, non gli andava giù; non voleva aspettare lì da solo dopo che era stato costretto da lui a presentarsi in un night, perciò sapeva già che dopo gliene avrebbe cantante quattro in merito a quella fuga da quattro soldi.

Lothar, dal canto suo, era rimasto solo. Nessuno si era avvicinato a lui, probabilmente per la sua espressione truce che non prometteva nulla di buono: nessuna si sarebbe azzardata ad avvicinare un ragazzo apparentemente bello, ma che aveva l'espressione di un folle.

Sicuramente era arrabbiato per essere stato abbandonato da Silas – eccome se lo era! Lui lo aveva condotto fin lì, per questo non riusciva a concepire il motivo di quella dannatissima solitudine, anche se sapeva benissimo cosa stesse facendo l'altro nella stanza con lei, quella rossa gatta morta che civettuola l'aveva lusingato con chissà quali e quante strane promesse.
Non gli importava, comunque: era nervoso perché non aveva voglia di stare ancora a lungo in quel posto – no, non era affatto abituato a un simile ambiente.

Si ravvivò i capelli per il troppo agitarsi e si accese una sigaretta con la speranza che questa potesse calmarlo e allietarlo, ma la spense nervosamente quando in lontananza vide arrivare il suo amico.

«Ti sei divertito?» Domandò lui con fare retorico. Sapeva che si era divertito, lo vedeva dalla sua espressione compiaciuta di quello che non sbagliava mai un colpo.

Silas rispose affermativamente alla domanda, scuotendo solo il capo in un cenno d'assenso.
«Alla prossima», gli disse entusiasta Rose, mentre lo salutava con la mano, aspettando che lui se ne andasse – perché lui, alla fine, se ne andava sempre.

«Certo cara», rispose sorridendole pacato, ora sereno, tranquillo e rilassato. La salutò a sua volta con un cenno, lasciando lei al suo lavoro che sarebbe ancora continuato un po' nel corso della giovane notte.

«Dimentica l'idea che io ti accompagni di nuovo, Silas.» Lotahr sbottò poco dopo essere usciti dal locale.

Silas lo aveva lasciato da solo al tavolo per un bel po' di tempo e lui, oltre ad essersi annoiato, si era sentito in un certo senso tradito dal suo amico: conosceva l'intenzione con la quale Silas si era recato lì, ma per lo meno poteva non abbandonarlo come nulla fosse alla prima puttana che gli faceva due moine.

«E perché mai?» Domandò Silas facendo il finto tonto, desideroso d'apparire innocente – oh, voleva sempre apparire innocente, anche quando non lo era affatto e quando sapeva bene dove aveva sbagliato.

«Perché mentre tu ti stavi svuotando per bene, io me ne sono stato da solo al tavolo come un cretino.» Era diventato volgare, perché non tollerava quando il biondo si comportava in quella maniera: sapeva quali malefatte aveva compiuto e sarebbe bastato scusarsi invece di cadere ogni dannata volta dalle nuvole.

«Ma come, sei un così bel ragazzo e nessuna si è avvicinata?» Lo derise, lo derise perché non comprendeva il comportamento dell'altro e quella sbeffeggiata non fece che mandarlo ancora più su di giri: non solo faceva finta di niente, ma aveva anche il coraggio di prenderlo in giro.
«No e se qualcuna lo avesse fatto l'avrei allontanata comunque, perché non ero venuto qui con quell'intenzione.» Lothar spiegò cosa lo avesse disturbato e cosa lo avesse fatto arrabbiare tanto, ma Silas sembrò non scomporsi, anzi si limitò come al solito a scrollare le spalle.

«E quale allora?» Domandò ancora una volta, stavolta incuriosito da tutta la purezza di cui era composto il suo amico.
«Nessuna, sono venuto qui semplicemente perché mi hai costretto.» Lothar lo accusò, della verità per giunta: era andato li, perché Silas voleva mostrargli i suoi divertimenti, visto e considerato le lamentele che il moro aveva mosso nei riguardi del biondo.

A quelle parole, Silas scoppiò a ridere. Aveva resistito dal farlo – l'aveva fatto davvero – ma non ce la fece più e decise di lasciarsi andare: davvero non riusciva a capire quanto Lothar potesse essere casto e puro.

«Sembra quasi una scenata di gelosia la tua.» L'ennesima derisione, anche se per Silas quella sembrava la verità nuda e cruda: quella di Lothar, a suo avviso, era una scenata di gelosia bella e buona, degna di un fidanzato di lunga data.

«Smettila di fare il cretino.» Si era rabbonito, Lothar, e allo stesso tempo aveva pronunciato quelle parole in maniera dura e severa, sentendosi come colpito dalle parole di Silas – come se avesse avuto ragione; per questo non disse più una sola parola per tutta la strada del ritorno, limitandosi a camminare affianco a lui e dandola ancora una volta vinta all'altro.

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