Capitolo 23
Vedere un mondo in un grano di sabbia
e un universo in un fiore di campo,
possedere l'infinito sul palmo della mano
e l'eternita' in un'ora.
(W. Blake)
Quella ragazza era parsa davvero strana ai loro occhi. Il fatto che si fosse spinta a seguirli fino a Berlino li preoccupava non poco. Silas, per questo motivo, decise di prendere l'iniziativa e, come suo solito, optò per incontrarla quella notte stessa lontano dal locale.
Sia Agnes che Lothar sembrarono contrariati dinnanzi alla sua ennesima presa di posizione, ma dovettero ricredersi quando la intravidero annuire e allontanarsi.
Come da appuntamento, Silas si era mosso tra le vie più tranquille, se così potevano essere definite, della città, per raggiungere il luogo indicato.
La vide di spalle, così le poggiò la mano su quella destra per chiamarla. Lei sussultò, poiché soprappensiero, ma si rallegrò quando lo riconobbe.
«Vi siete camuffato bene, vedo» disse, notando che Silas portava un capello dove probabilmente aveva nascosto i suoi capelli.
«Non abbastanza, ma tanto da non destare sospetto... Almeno credo.» Silas ridacchiò nervosamente. Cominciava davvero a temere che le intenzioni della donna non fossero così innocenti come lei sosteneva.
«Vi ho riconosciuto dal vostro volto» rispose lei, proseguendo poi: «Sicuramente nascondere la parte più appariscente di voi. È stata una buona mossa.» Gli sorrise appena, desiderosa di intraprendere subito una conversazione con il ragazzo.
«Sono lieto che la pensiate come me, allora.» Anche Silas sorrise: doveva pure mascherare in qualche modo la tensione.
«Posso chiedervi come vi chiamate?» domandò lei, avida di curiosità, mentre lo guardava e cercava di carpire qualche dettaglio nell'oscurità della notte.
«Silas Dubois» rispose secco.
«Oh, lieta di conoscervi, Silas. La vostra fama vi precede.» Non le sembrava vero, era talmente contenta di conoscere un Dubois che gli fece la riverenza.
Silas si trovava a disagio davanti quei gesti. Nonostante suo padre gli avesse insegnato le maniere che competevano a un giovane di nobile nascita, era un ragazzo semplice; almeno sotto quell'aspetto.
«Davvero? E a cosa devo tanta fama?» ribadì le sue stesse parole, deglutendo a causa dell'ansia che lo stava letteralmente divorando; se solo lei avesse potuto poggiargli una mano sul petto, avrebbe sentito quanto il suo cuore stava battendo veloce: temeva che lei si stesse riferendo al suo gruppo, ai manifesti, ai volantini.
«La vostra famiglia è antica. Mio padre mi ha sempre parlato di voi, voi Dubois, intendo. Vi stima molto, sapete?» Lei aveva cambiato espressione: se prima si limitava a sorridere, improvvisamente era diventata raggiante e i suoi occhi scintillavano ancora di più con l'ausilio delle luci artificiali della città.
Silas sospirò di sollievo. Quasi non gli venne un colpo, ma ancora una volta la sorte gli aveva sorriso e lei sembrava essere attratta più dai suoi Natali che dalla voglia di denunciarlo a qualche autorità.
«Voi, invece, come vi chiamate signorina?»
«Cielo, che sbadata» disse, scuotendo la testa in segno di dissenso verso se stessa e verso la sua memoria. Cosa avrebbe detto suo padre se avesse potuto vedere che figura misera stava facendo davanti a un illustre Dubois? «Il mio nome è Weike Schäfer» rispose, sorridendogli ancora una volta.
Silas rifletté per un momento sul suo nome, non gli sembrava che suo padre lo avesse mai messo in guardia da quella famiglia. Ludwig aveva espresso, più volte, disappunto su molte famiglie, rancore o approvazione per altre, ma quella non tornava alla memoria di Silas; come tante altre cose, del resto, visto che spesso e volentieri o si annoiava a morte o la sua concentrazione andava a farsi benedire.
«Signorina Weike, se posso chiedervi: ditemi, perché ci avete seguito con tanta insistenza? Un viaggio da Monaco a Berlino non deve essere stato facile per voi.» Silas doveva capire cosa l'avesse spinta veramente, a costo di passare per quello che non era.
«Oh, come siete caro a preoccuparvi per me» rispose lei, arrossendo appena.
Silas si era preoccupato per niente, lei non sembrava offesa in alcun modo dalla sua presunta allusione; e dire che, in quegli anni, le donne cominciavano davvero a emanciparsi! Ma lei sembrava provenire da un altro secolo, forse l'Ottocento era quello che più le si addiceva.
«Sapete, Silas, vedo tante persone a Monaco, ma questa guerra sta ingrigendo un po' tutti. Così, quando vi ho visti, mi sono emozionata. Sembravate un gruppo davvero stravagante, soprattutto voi, e da quel momento ho deciso di seguirvi. Non so cosa avete fatto, non so cosa ci fosse scritto sui fogli che avete sparso; non ho neanche voluto leggerli. Vi ho seguito semplicemente per il gusto di farlo, incuriosita, sperando si poter parlare con qualcuno di voi.»
Sentendo tutte quelle parole, a Silas non sembrava possibile: come poteva essere stata così poco accorta? Davvero la semplice curiosità l'aveva spinta a tanto?
«E poi ho incontrato voi, un Dubois» concluse Weike sorridente.
Tutta quella gioia riguardo la sua famiglia lo stava innervosendo. Suo padre gli aveva spiegato il proprio albero genealogico, le proprie discendenze e le famiglie con le quali si erano uniti o alleati. Ma lei sembrava che stesse quasi parlando di qualcosa di mistico e, a giudicare dalla religione che li legava, non gli sembrò così impossibile. Tuttavia sentirsi così sotto tiro lo faceva agitare.
«Weike che ne dite se vi portassi in qualche bel locale?» le propose. Silas aveva deciso di portarla lontano da quella stradina, conscio del fatto che la prudenza non fosse mai troppa.
Quell'invito fece pensare a Weike che lui fosse maggiorenne e che lo avesse in qualche modo conquistato. Suo padre l'aveva cresciuta con il mito dei Dubois, cercando di renderla perfetta, considerando quanto loro fossero pignoli nel scegliere le rispettive future mogli. Weike pensava veramente di poter realizzare il suo sogno e di rendere orgoglioso suo padre, ma ciò che non sapeva era che Silas non pensava affatto a tutto questo; neanche lo sapeva, ne era all'oscuro: per lui era una delle tante bellissime ragazze che fino a quel giorno aveva incontrato, una di quelle che servivano a rattoppare la profonda lacerazione dei suoi sentimenti.
Quella stanza era buia e grande. Il letto era comodo e la luce del lume sempre accesa. Ludwig soffriva spesso d'insonnia, perché quando i pensieri lo attanagliavano non riusciva a dormire. Leggeva, quindi, consumava pagine su pagine, come il tempo consumava i minuti.
Tra le mani teneva uno degli innumerevoli libri, mentre la stanchezza faticava a farsi sentire e l'apatia regnava sovrana.
La sua attenzione venne catturata dal picchiettio che si ripeteva contro il vetro della finestra. Si alzò infastidito, andando a vedere di cosa si trattasse. Aprì e vide Elgar il quale si fermò non appena lo scorse. Così facendo, evitò di colpire anche lui oltre il vetro.
«Sei sveglio vedo, bene» disse Elger a bassa voce.
«Mi avresti svegliato lo stesso» commentò Ludwig, divertito dai mezzi che il suo amico usava per chiamarlo. Eppure non poteva biasimare le sue azioni, perché suo padre, Achill Dubois, non avrebbe mai dato il permesso per farlo uscire a quell'ora della notte.
«Allora, che fai? Scendi?» Elger fece un cenno con la propria mano come a dirgli di raggiungerlo.
«Poggia la scala contro la finestra. È dietro l'albero.» Ludwig gli indicò il luogo esatto. «Così potrò scendere... di certo non mi lancio giù dalla finestra» sentenziò, appositamente pungente, divertendosi a infastidirlo.
«Scusami tanto, ma sai... se si svegliasse quella carogna ci farebbe bastonare tutti e due.» Elger si stava riferendo chiaramente ad Achill.
«Tra l'altro non gli sei neanche tanto simpatico: non vedrebbe l'ora!» Ludwig lo canzonò.
«Questo lo so benissimo. Infatti mi diverte chiamarti così di soppiatto nel cuore della notte.»
Elger rise e fece ridere anche Ludwig. Quelli erano gli unici momenti di svago che aveva: in casa sua non aveva mai pace e, nonostante questo, si sentiva fin troppo solo.
«Già sento la sua voce!» Ludwig prese a parlare a ruota libera. «Voce che, tra l'altro, detesto.» ammise in tutta onestà.
«E cosa ti direbbe?» chiese Elger, curioso di vedere il suo amico all'opera con una magistrale imitazione.
«Ludwig!» disse, proseguendo poi: «Non è così che ti ho cresciuto! Non è questo che deve fare l'erede della mia famiglia e della mia stirpe. Sei uno sciagurato! Una vergogna per tutti.» Lo aveva interpretato perfettamente, sia nel tono che nella gestualità. «E poi ordinerebbe alla servitù di farmi picchiare, perché un uomo come lui, di così alto rango, non può permettersi di punire suo figlio.» Ludwig pronunciò quelle parole con un tono prettamente canzonatorio.
«Una vera carogna, appunto. Avevo ragione» disse Elger, ridendo ancora.
«Senza ombra di dubbio, senza ombra di dubbio» rispose Ludwig.
«Questa sera dove andiamo? Il solito posto? Oppieria? Quel nuovo locale che hanno appena aperto?» domandò Ludwig, curioso di sapere cosa Elger avesse progettato per quella serata. Non aveva voglia di pensare a suo padre, non più. Voleva solo concedersi del meritato divertimento; in fondo era quello che si doveva fare alla sua età.
Ludwig, come al solito, aveva sognato uno dei propri ricordi frammentati. Era strano, però; almeno per lui. Solitamente veniva catapultato nel futuro o catapultato in eventi spiacevoli del suo passato. La notte trascorsa con Aleph gli aveva fatto bene. Sorrise quando si risvegliò, felice di vederlo al suo fianco ancora addormentato.
Si mise a sedere sul letto dopo aver recuperato la biancheria e i pantaloni. Afferrò il pacchetto di sigarette che aveva su un mobile vicino al letto, ne estrasse una e l'accese. Si beò per un po' di quella sensazione nostalgica e gioviale che gli aveva lasciato il sogno. Era tanto che non si sentiva così stranamente libero, sebbene la realtà lo tenesse ben ancorato con i piedi per terra.
Aleph, però, rappresentava il proibito: qualcosa che lui aveva perso da tempo, l'adrenalina di amare qualcuno che, secondo la legge, non era permesso. Sorrise appena, beffardo, sapendo che avrebbe fatto carte false per lui; come se non le avesse già fatte. Rimase a fumare quella sigaretta, dando le spalle al suo amore addormentato. Si concentrava sul lento ritmo ondulatorio del fumo che si spargeva nell'aria e si rilassava con il ritmo pacato del respiro di Aleph. Ne sentì uno più profondo, segno evidente che l'altro si stesse risvegliando. Si aspettava che parlasse, ma non sentì proferire parola. A quel punto, incuriosito dal suo strano comportamento, si voltò e notò un'espressione incredula.
Ludwig si rammentò del proprio tatuaggio, dimenticatosi di come Aleph l'avrebbe presa, e a quel punto sospirò.
«Non ti piacciono i tatuaggi?» gli domandò. Quello di Ludwig, tra l'altro, non era un tatuaggio piccolo e sobrio; al contrario, percorreva tutta la sua schiena e rappresentava il Red Dragon di Blake, uno di quei dipinti che l'artista aveva prodotto per illustrare la Sacra Bibbia.
Aleph non rispose, non subito almeno: stava cercando di capire cosa significasse per Ludwig, perché se fosse stato cattolico o protestante non gli sarebbe importato; in fondo se lo aspettava. Ma era altro a preoccuparlo: temeva che Ludwig potesse appartenere a un culto che neanche lui avrebbe saputo accettare.
«Qui non si tratta di tatuaggi, Ludwig.» Aleph era serio.
«Ah no? Perché a me sembra proprio un tatuaggio.» Ludwig rispose con tutta la sua sarcastica franchezza.
«Che cosa significa per te?» Domandò Alpeh timoroso di sapere la risposta.
«Rappresenta quello che per te potrebbe rappresentare la stella di David» ammise.
In quel momento Aleph si sentì crollare il mondo addosso. Non poteva credere che Ludwig potesse appartenere a un culto così oscuro. Non sembrava una di quelle persone cattive, una di quelle che sarebbe stata in grado di sacrificare qualcosa o qualcuno, non di certo un satanista, o un uomo dedito all' occulto. Ma era anche vero che lui stesso aveva sempre sostenuto che l'apparenza sarebbe stata in grado di ingannare chiunque.
«Puoi spiegarmi?» domandò Aleph, ancora prima che potesse diventare un fiume in piena. Era un ragazzo emotivo e, sotto certi aspetti, anche pignolo; specie quando si trattava di religione.
«Non c'è niente da spiegare. È quello che vedi: non credo nel tuo Dio, né tanto meno nel Dio cristiano. Preferisco ammirare il suo avversario, come dite voi. Ci tengo a precisare, però, che non prego e non venero nessuno. Credo soltanto nelle mie potenzialità, nella mia forza e nel mio unico aiuto. Credo che l'unico Dio al quale io possa appellarmi: me stesso. Non penso che qualcuno ascolterebbe mai le mie preghiere.» Ludwig cercò di spiegargli il tutto nella maniera più chiara possibile o quasi. Di certo non poteva dirgli che la sua famiglia, sin dalla nascita della sua stirpe, era stata sempre avvezza al paganesimo o al satanismo.
«Mi hai preso in giro.» Aleph lo accusò.
Ludwig alzò un sopracciglio, irritandosi nel sentire quelle parole.
«E come lo avrei fatto? Salvandoti la vita?» Il suo sarcasmo era pungente e ironico, se ne rendeva perfettamente conto, ma quando veniva accusato ingiustamente c'era una strana molla che scattava dentro di lui e che a stento riusciva a controllare.
«Mi hai taciuto questa cosa sapendo benissimo che io sono ebreo» ammise Alpeh arrabbiato.
«Ti puoi fidare di un ufficiale delle SS, ma non ti puoi fidare dello stesso ufficiale nel momento in cui vieni a conoscenza del suo credo.» Ludwig, lo rimproverò. Quel discorso fatto da Aleph gli sembrava ipocrita.
Aleph stava per rispondergli, ma venne interrotto da Ludwig, che proseguì a parlare:
«Non dici niente di questo tatuaggio...» Ludwig alzò il braccio per mostrare quello all'interno: era il suo gruppo sanguigno, quello che veniva marchiato su tutte le SS per essere soccorse in caso di pericolo. «Però hai da ridire sull'altro» concluse.
«Quello non lo hai fatto per tua scelta. Non so perché tu sia finito a ricoprire quel ruolo, ma quel tatuaggio lo fanno a tutti... l'altro lo hai fatto perché tu lo volevi» ribadì Aleph ferito.
«Il tatuaggio che tu non giudichi è quello che a me permetterebbe di ucciderti, di arrestarti o di farti deportare. Sei al corrente di questo?» gli domandò Ludwig retorico. «Invece, nonostante tutto, io ti ho accettato. Non mi importa se tu sei ebreo, cristiano o quello che vuoi essere... a me importa chi sei tu. Non giudicarmi per il mio credo, perché io non ho giudicato te.» Il tono di Ludwig si era improvvisamente abbassato e addolcito, dopo la durezza delle parole precedenti.
Si era reso conto di aver esagerato, ma immaginare che Aleph potesse rifiutarlo per quella differenza lo fece impazzire, perché lui non ci aveva pensato due volte a rischiare tutto, compresa la vita, per lui.
«Sono stato abituato a conoscere quel credo in un modo... mi dispiace di averti ferito, Ludwig» rispose Aleph. La bellezza di quel ragazzo era insita nella sua sensibilità: nonostante ci fosse rimasto malissimo per come Ludwig lo avesse trattato, infatti, riuscì a comprendere il motivo della sua reazione.
«Dispiace anche a me. Ma credimi se ti dico che non ho mai leso a nessuno per il mio credo.»
«Hai ragione tu: dobbiamo rispettarci e accettarci entrambi. Probabilmente è quello che mi hanno sempre insegnato ad avermi fatto reagire in quel modo... sono certo che vicino a te potrò ricredermi» ammise Aleph sorridendogli, Ludwig lo afferrò per la nuca, e lo tirò a sé per un bacio.
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