Capitolo 2
Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio intorno:solo, alla ventate,
odi lontano, da giardini e orti,
di foglie un cader fragile- L'estate
fredda, dei morti.
(Novembre -Pascoli)
Aleph era del tutto riluttante nel farsi accompagnare da quell'individuo che tutto sembrava tranne che gentile; Ludwig era un uomo imponente, aveva le spalle larghe ed era molto alto – anche se il ragazzo non avrebbe saputo definire esattamente quanto misurasse.
Si fece coraggio, però, e fece strada allo Standarteführer, imboccarono una vietta con passo svelto e pensando a sua madre nello stesso tempo: sapeva che si sarebbe potuta spaventare nel vederlo entrare con uno di loro – avrebbe dovuto rassicurarla all'istante, ma di certo non avrebbe potuto, considerando le attenzioni che doveva prestare al colonnello.
«Manca molto?» Chiese Ludwig, guardandolo di sguincio, mentre Aleph si voltava a scrutarlo per rispondergli; cercò di raccapezzarsi e di fare largo tra le tante risposte che gli avrebbe potuto dare, pur conscio del fatto che solo una di queste fosse quella giusta.
«No, non manca molto», rispose e Ludwig sembrò non proferire altre parole, mantenendo sempre quell'espressione seria e professionale in volto.
Gli aveva posto quella domanda per essere certo della destinazione, perché di certo non voleva farsi prendere per il naso da un civile qualsiasi che era sceso in piazza per comprare del pane.
Pensava che lo stesse conducendo da tutta altra parte e se così fosse stato, Ludwig era già pronto a considerarlo uno sciocco: in fondo era armato.
Davanti al loro orizzonte si faceva largo la visione dell'emarginazione nazista – era praticamente un altro quartiere. Sulle vetrine dei negozi era stata dipinta la raffigurazione della stella di David proprio a simboleggiare la loro discendenza, così valeva per i palazzi e le case: li avevano segregati agli angoli della città così che non si potessero notare, un po' come se fossero topi; la Germania voleva debellare il suo popolo da quei bacilli.
«Ecco siamo arrivati», annunciò il ragazzo mentre dalla tasca dei pantaloni scuri prendeva una chiave che di lì a poco avrebbe inserito nella serratura per aprire la porta di casa.
Ben presto poté fare largo a Ludwig, facendolo passare per primo dopo aver sbaragliato l'ingresso, ravvivandosi i capelli con un gesto nervoso; ora, uno dei peggiori esponenti del partito sapeva dove abitava e la cosa non poteva che fargli salire l'ansia, perché prima era individuabile solo il quartiere e non la sua casa nello specifico.
Ludwig si guardò intorno, constatando che l'arredamento fosse costituito da mobili in legno, probabilmente del decennio passato, e che non sembrasse una casa povera – neanche benestante, però, probabilmente avevano quanto bastava per vivere dignitosamente e, se non andava errando, per permettere al ragazzo di studiare.
Mosse qualche passo, tendendo maggiormente l'atmosfera con il rumore dei tacchi degli stivali, accarezzando i mobili con la mano libera dal guanto per sentirne la manifattura – sembravano fatti davvero bene, si disse.
Stava perquisendo quella casa, più per una formalità che altro, mentre Aleph lo guardava, seguendo ogni suo movimento.
«Vostra madre?»
L'uomo lo ridestò dal suo torpore, colpendolo dritto al cuore nel nominare quella donna al quale era tanto legato; dal canto suo, lei se ne stava a letto, ammalata, mentre suo figlio temeva il peggio per la sua salute. Per paradosso, l'unica nota positiva era che la donna fosse davvero nelle condizioni in cui l'ebreo aveva dichiarato – altrimenti chissà in che guai sarebbe finito con il colonnello.
«Per di qua. Prego, seguitemi.»
Aveva paura, dannatamente paura, ma il suo orgoglio gli impediva di mostrarla; così condusse Ludwig fino alla camera da letto dove sua madre riposava tranquilla e lui la vide tirarsi a sedere quando sentì dei passi – era sicura che fosse suo figlio, ma dovette ricredersi quando percepì un altro passo muoversi insieme al primo.
Giunti in quella camera, Ludwig si parò davanti la porta aperta, scorgendo il volto della donna agitato. Non mostrò alcun cedimento, restando semplicemente serio.
«Cosa vi costringe al letto?» Gli chiese lui, per accettarsi della sua salute e della sincerità di Aleph.
«Una febbre molto alta Standartefüher.» Ludwig annuì, ascoltando la donna.
«Vi ha già visitato un medico?»
«Sì, Standartefüher.» Lei lo guardava mentre si copriva pudicamente con il lenzuolo, andando a coprirsi fino al collo.
«Cosa vi ha consigliato?» Domandò lui. Si preoccupava davvero per le persone, ma non poteva certo palesare un suo ipotetico interesse reale per la salute della donna, sopratutto di quella donna ebrea.
«Devo prendere una medicina due volte al giorno e restare in assoluto riposo, è per questo che ho mandato mio figlio a comprare del pane anche se non era orario...»
Aveva intuito subito che Aleph fosse stato colto alla sprovvista da quell'individuo mentre faceva le compere che gli erano state richieste, solo che lei non sapeva il modo buffo col quale si era fatto scovare.
«Riguardatevi allora e fate in modo che vostro figlio non sia trovato da altri come me», le consigliò, perché lui era indulgente – e già lo aveva salvato – ma altri suoi colleghi non vedevano l'ora di fare ancor più stragi gratuite di quanto non facessero già.
Senza aggiungere altro, prese un taccuino dalla tasca del suo pesante cappotto in pelle nero – parte integrante della sua divisa – e lo aprì, svitando poi il tappo della stilografica per scriverci sopra.
«Ditemi il vostro nome e cognome.»
Miriam e suo figlio impallidirono all'istante quando udirono quella richiesta di suoi dati, dopodiché si guardarono un attimo e lei gli fece cenno di parlare – innervosirlo o indispettirlo non avrebbe di certo giovato a nessuno.
«Aleph Bresner.» Pronunciò il suo nome chiaramente, senza essere titubante, anche perché a far intendere ciò bastava il suo sguardo inquieto.
«Quanti anni avete?»
«Ventitrè.» Aleph cominciò ad agitarsi alle sempre più frequenti domande di Ludwig: lo guardava, mentre i suoi occhi si muovano spaesati da lui alla figura di sua madre – altrettanto preoccupata – e non sapeva perché l'altro stesse facendo una lista con i suoi dati; sperava almeno che non fosse quello che temeva.
«E avete studiato ingegneria, naturalmente.»
Ludwig lo aveva guardato come se non volesse sentire risposte differenti dall'affermazione appena pronunciata, anche perché era meglio per tutti che non conoscesse il suo reale titolo di studio; sarebbe stato ancora più difficile manomettere consapevolmente un documento già contraffatto di suo.
Lo aveva fissato negli occhi, fiero e deciso, forse mettendogli anche un po' di soggezione nella convinzione che questa non guastasse mai in certi casi.
Aleph deglutì prima di pronunciare qualsiasi cosa, allorché si disse che avrebbe fatto meglio a limitarsi a ripetere l'ultima parola dell'altro.
«Naturalmente», disse.
La cosa curiosa era che Aleph non conosceva neanche il concetto più basico di quella materia, essendosi specializzato in tutt'altro – ovvero letteratura.
Aveva studiato lettere perché il suo defunto padre gli aveva trasmesso quella passione sin da quando era piccolo, quando ogni sera gli leggeva un racconto dei fratelli Grimm; poteva ancora ricordarlo, impegnandosi appena: un piccolo Aleph se ne stava nel suo letto, sognando quella storia e di giorno, quando non poteva sognare, lo faceva ugualmente, imperterrito, a occhi aperti.
Scriveva storie da lui inventate, fantasiose, e senza neppure accorgersene aveva lasciato che quel diletto gli sfuggisse di mano: da un passatempo era diventata una vera e propria passione.
Aveva conseguito la laurea da poco ed effettivamente non sapeva ancora cosa fare del suo futuro, specie di quei tempi – non riusciva a ragionare in maniera molto lucida, preoccupato più per la sua sorte che per quella di sua madre; era felice, però, di aver potuto raggiungere almeno parte del suo sogno e del suo bisogno.
«Scusate la domanda Standarteführer, ma a cosa vi servono i dati di mio figlio?»
Ludwig si voltò verso la donna che lo guardava un poco preoccupata. C'era della fierezza in quello sguardo, però, e lui l'avrebbe rispettata – rispettava sempre le persone che, nonostante la paura, riuscivano a dire quello che pensavano anche a figure autorevoli come la sua.
«Per un visto falso che gli consegnerò.» Aleph sgranò gli occhi non riuscì a credere alle sue orecchie.
Perché quell'uomo si spingeva fino a tanto per lui? Non capiva se c'era qualcosa dietro o se l'altro era del tutto disinteressato, perciò cominciava a essere sospettoso di quell'atteggiamento, soprattutto perché anche la notte dei cristalli fu proprio Ludwig a salvargli la vita.
Ora, però, c'era di mezzo anche il visto che Ludwig gli avrebbe fatto gratuitamente; avrebbe corso un rischio per poi consegnarglielo lui stesso – o per lo meno quello era ciò che questo aveva fatto intendere schiettamente e senza alcun giro di parole.
Era davvero arrivato a pensare che lo stesse raggirando e perciò non riuscì neppure a ringraziarlo, mostrandosi invece perplesso e stupido allo stesso tempo.
«Un visto?»
«Sì, un visto: dei documenti falsi dove io stesso dichiarerò che Aleph è utile al Reich e che non può essere né arrestato, né deportato.»
Si rivolse più alla madre che a lui, perché per quanto Aleph potesse avere cara la sua vita, sicuramente la donna era molto preoccupata verso il proprio figlio – e Ludwig lo sapeva bene, essendo padre a sua volta.
«Standarteführer...» La donna pronunciò quell'appellativo quasi bisbigliando, non riuscendo neanche a finire la frase. Voleva ringraziarlo, avrebbe pianto per la gioia, ma era troppo basita e attonita per quella notizia; al contrario di suo figlio, questa non riusciva a essere sospettosa nei riguardi di quell'uomo, perché voleva sperare davvero che qualcuno potesse essere buono almeno una volta – sì, voleva sperare che al mondo ci fosse ancora qualcuno umano.
«In modo che possa badare anche a voi», concluse. «Ora devo andare, consegnerò il documento io stesso.» Ludwig finì il suo concetto, gli sarebbe dispiaciuto vedere quella donna uccisa solo per una febbre, solo perché ritenuta inutile; nessuno era inutile, così come nessuno era indispensabile.
Non amava che il suo partito giocasse a fare Dio, a quel Dio a cui lui neanche credeva.
«Aspettate, non vi abbiamo offerto nulla... siamo stati proprio sbadati.» La donna parse agitata nell'essersi dimenticata della cortesia primaria di quanto si aveva un ospite in casa, specie di quel calibro.
«Non preoccupatevi, non ho bisogno di niente.» Ludwig non aveva davvero bisogno di nulla e qualora gli avessero offerto qualcosa avrebbe di certo accettato solo per cortesia.
«Adesso devo proprio andare», disse, richiudendo il taccuino e riponendolo in tasca; dopodiché salutò la donna come voleva la consuetudine del saluto nazista, pur disgustato da quello stesso gesto, e fece altrettanto verso il giovane.
«Aleph, accompagna lo Standarteführer alla porta», ordinò Miriam a suo figlio. Se avevano avuto quella prima dimenticanza, adesso non potevano cadere nella più totale maleducazione, specie dopo la gentilezza che Ludwig sembrava incline a volergli fare.
Aleph gli fece strada, quindi, accompagnandolo e aprendo la porta dopo aver fatto una leggera pressione sulla maniglia per lasciare che questa si aprisse.
«Aleph, confido in voi che non ne facciate parola con nessuno, neanche con vostri amici o colleghi: non sono un distributore di visti.»
«Non vi preoccupate, terrò la bocca chiusa. Non ne farò parola con nessuno.»
«D'accordo, allora, mi fido di voi. Tornerò io fra tre o quattro giorni circa. Auf Wiedersehen.»
«Auf Wiedersehen.» Lo guardava, mentre Ludwig si incamminava verso una destinazione che il ragazzo non conosceva, potendo soltanto ammirare le sue spalle, che adesso diventavano via, via sempre più piccole; allora la sua figura sparì del tutto e ciò che parve essere rimasto ad Aleph fu soltanto la speranza che nutriva quella buona azione – sì, sperava davvero che non fosse una menzogna, bensì che fosse reale.
Quel pastello blu sembrava volto a rappresentare un oceano, una distesa immensa dei suoi pensieri, un luogo nel quale lui poteva estraniarsi da quel mondo grigio e spento. Quelle linee che disegnava tumultuose con una placida apparenza mostravano un mare agitato per contrastare la sua natura apparentemente cheta.
Portava una rabbia così potente dentro di sé, da non riuscire a farla emergere. Era rilegato da qualche parte, mentre, di tanto in tanto, il mondo esterno avrebbe detto che questo si fosse come bloccato a scrutare un punto fisso; o incantato dallo stesso ondeggiare del suo mare di pastelli, poiché non poteva più perdersi nel mondo immaginario senza essere vittima anche di questo.
Quel tratto dapprima morbido e lineare era diventato un succedersi di linee dure e continue, quasi come se volesse oltrepassare il foglio per uscire dalla marea.
Chiuso in un cosmo catatonico, il suo io batteva con i pugni serrati contro le pareti di se stesso.
Fammi uscire. Gridava così forte la sua voce interiore da stordirlo, anche se al di fuori non si udiva niente. Voglio uscire, fammi uscire.
Continuava con quella cantilena dentro di sé, scuotendolo dal profondo; ma Salazar la rilegava meccanicamente in un angolo della sua persona, ridestandosi dal suo torpore e ricadendoci di nuovo.
Sapeva che se ascoltava quel canto, se davvero avesse teso le mani a quella richiesta, tutto il suo mondo, anche quello immaginario sarebbe andato distrutto – in frantumi – e allora a lui cosa sarebbe rimasto? Un cumulo di macerie che non sarebbe stato in grado di raccogliere neanche volendolo con tutto se stesso.
Il suo sguardo azzurro, paradossalmente come quel mare, era perso chissà dove, oltre le trame di quel foglio di carta, oltre i segni blu lasciati dalla punta ormai consumata del pastello.
Una mano gentile ma risoluta si posò sulla sua, arrestandolo.
Ci mise un attimo a ridestarsi da quel torpore, mentre inclinava la testa leggermente di lato, facendo scivolare con essa qualche ciocca dei suoi capelli neri e rivolgendo uno sguardo colmo di astio verso chi lo stava guardando.
«Non ti ho insegnato a colorare così.»
Il suo sguardo si riposò di nuovo sul foglio, vedendo che aveva perforato quell'oceano – lo aveva distrutto come aveva desiderato e adesso era malinconico, triste, perché aveva abbattuto parte del suo mondo solo per non essersi saputo controllare; ma come poteva a tredici anni controllarsi più di quanto non facesse già?
Rivolse lo sguardo nuovamente verso gli occhi scuri della madre.
«No, mamma», ammise.
La donna gli aveva insegnato a colorare nella massima della precisione inquadrandolo in modo tale che questo non uscisse mai dai margini ipotetici di un disegno; era per quello che, forse, tentava in tutti i modi di disintegrare quelle onde infrangendole, si sentiva soffocare, gli mancava il respiro come se fosse veramente in apnea.
Sapeva già che Regan avrebbe preso il suo disegno e lo avrebbe strappato, per negargli ancora una volta la visuale di altro mondo, del mondo aperto dalla sua mente.
Quella mestizia e quel rancore non gli davano neanche la forza di ribellarsi tant'è che si alzò dalla sua postazione – era seduto in terra con le gambe incrociate fino a poco prima – sciogliendo le gambe dall'intreccio assunto per sedersi, spolverandosi poi con le mani i pantaloni dall'ipotetica polvere che poteva esserci finita sopra – era impossibile che ci fosse, effettivamente, poiché le domestiche pulivano ogni santo giorno per ordine di Ludwig, ma ormai quello di Salazar era un gesto meccanico; aveva tante di quell'ossessioni già a quell'età che tutto si manifestava apertamente e in maniera del tutto tecnica.
«Dove stai andando?» Sua madre lo raggiunse con una grande falcata, afferrandogli il polso e strattonandolo appena.
«A dormire», rispose con aria assente.
Salazar era presente solo a se stesso e non a quel mondo, le domande di lei gli arrivavano soffuse, ovattate, come quando si oscura una lampada con un foulard.
Lo lasciò andare stizzita.
Salazar avrebbe giurato di aver sentito uno schiaffo contro il suo braccio, ma non ne poteva essere comunque certo, visto e considerato che le sue sensazioni erano così alterate e divergenti; la descrizione perfetta per rappresentare lui sarebbe stata quella di specchio rotto. Era così che sentiva la sua mente: come uno specchio rotto – tanti pezzi, troppi, per poter essere rimessi tutti assieme nella speranza di ricreare un equilibrio.
Così, dando le spalle a quella donna, mentre affranto se ne andava, sentì il rumore del foglio che veniva stracciato e strappato. Si diresse verso la sua camera, dove passava davvero poco tempo visto che lei era sempre tra i piedi – onnipresente; allorché si stese sul letto, finalmente solo mentre lei, colta da chissà quale attacco di isterica gelosia, uccideva la sua arte.
Salzar accarezzò la sua cartella con i disegni e la nascoste nuovamente, poi prese il libro Il giardino segreto, lo aprì alla pagina a cui era rimasto e proseguì la lettura, tuffandosi nuovamente in un altro mondo che, pur non appartenendogli, sapeva dargli comunque la possibilità di perdersi nel labirinto di quel segreto.
Se Salazar era relegato in quella casa opprimente, costretto a leggere pur di non soffocare nel suo dolore, potendo studiare solo quando sua madre lo desiderava, Silas faceva il diavolo a quattro in quella scuola di elite tanto rinomata tra i nazisti; tamburellava con le dita sul proprio banco, impaziente che quella dannatissima e noiosissima lezione finisse: non ce la faceva più a sentire la cantilena sulla nascita della loro gloriosa razza, anche perché per lui non c'erano razze e visto quello che facevano i tedeschi, quantomeno non aveva niente di glorioso se davvero doveva denominarla a quel modo.
Così si ritrovava a quindici anni a pensare che quelle persone fossero state dei poveri inetti, convinte nelle stupidaggini che si andavano a raccontare in giro.
A volte non si capacitava di come la gente potesse negare l'evidenza: come potevano considerare Hitler un esempio di pura razza se questo non possedeva neanche uno dei cosiddetti tratti distintivi? Eppure c'erano donne che giuravano di vedere in lui un uomo dai capelli biondi, gli occhi azzurri e il fisico possente – no, davvero non riusciva a credere a quanto la gente fosse suscettibile a volte.
Era arrivato persino sbuffare per la noia di quelle chiacchiere che lo stavano invadendo.
«Qualcosa non è di vostro gradimento?» La sua autorevole professoressa, vestita in maniera austera, con i capelli biondi raccolti e gli occhiali postati sul naso, lo guardava minacciosa perché lui aveva osato oltraggiarla col suo tedio.
Era una donna dalla corporatura massiccia, tipica della germana campagnola, che aveva superato la soglia dei quaranta.
«Dite a me? No, la lezione è perfetta, degna di voi...» Era dotato di un sottile sarcasmo e di una verità pungente; se la donna fosse stata più stupida di quello che sembrava, sarebbe senz'altro caduta nella trappola della finta adulazione e invece non fu così, perché intese subito l'offesa.
«Vi pregherei di lasciare la mia aula prima che io possa mandarla dal preside e farla sospendere.» Silas si alzò battendo i tacchi e salutando la donna come se stesse salutando il Führer in persona, uscendo poi dall'aula.
«Un altro affronto e un'altra mancanza di rispetto e vi faccio sbattere fuori», gli disse lei, mentre il biondo usciva e non l'ascoltava affatto.
Si aggirava per i corridoi della scuola, cercando di occupare il tempo nel miglior modo possibile, ma effettivamente non si reggeva neanche tanto in piedi visto le sue notti brave. Era un tipetto precoce che già faceva stragi di cuori e poteva vantare un bel numero di amanti – attuali e trascorsi.
«Che seccatura, ci mancava pure lei a rendermi pessima già quest'orribile giornata...» sbuffo sonoramente, nel bel mezzo del silente corridoio; allorché intercettò un suo compagno d'istituto – più grande di lui di un anno – e guardandosi per un attimo e si compresero al volo: dovevano parlare e conferire riguardo a quello che avevano progettato di fare.
Silas annuì facendosi segno con la testa, indicandogli così di ritrovarsi al solito punto: un luogo nascosto all'interno della scuola dove lui e altre tre ragazzi parlavano del misfatto che volevano compiere.
Si era fatto trovare alle spalle della palestra, dove il loro istruttore, solitamente, li istruiva nel miglior modo possibile per raggiungere il corpo degno di un tedesco – degno di un ariano, dicevano tutti.
Si era acceso anche una sigaretta mentre guardava il cielo al quale loro sottostavano; ecco, per lui era la natura sola a poter sottomettere l'uomo con la sua maestosità.
L'altro ragazzo lo raggiunse poco dopo, ponendosi appena davanti a lui.
Silas gli offrì una sigaretta e questo, di rimando, estrasse una piccola scatoletta rettangolare dalla quale fece uscire un fiammifero. Sfregandolo dalla parte giusta la fiamma si accese e così poté accendersi anche la tanto desiderata sigaretta gentilmente offerta.
«Hai fatto quello che dovevi fare, stanotte?» Era rimasto molto sul vago semplicemente perché doveva esserlo: se qualcuno li avesse sentiti sarebbero potuti finire nei guai, invece, rimanendo su un discorso astratto, l'unica cosa per cui potevano riprenderli era semplicemente perché si trovassero al di fuori dell'aula durante l'ora di lezione.
«Sì, ma sarebbe anche l'ora che facessi qualcosa anche tu, invece di andartene in giro per Night Club», disse il ragazzo moretto davanti a lui. Questo portava il classico taglio di capelli che andava tanto di moda in quel periodo: più corti sotto, quasi rasati e più lunghi sopra, tagliati in maniera lineare, senza nessuna pecca, quasi come se li avessero accorciati seguendo la linea di una scodella.
«Certo, ma al momento giusto», si giustificò Silas.
Non era un lavativo, né tantomeno aveva paura di rischiare, ma doveva badare alcune cose molto importanti – come le vite dei suoi famigliari che di certo non potevano essere messe a repentaglio per i suoi colpi di testa; anzi Ludwig già rischiava parecchio con tutti i richiami che i suoi professori gli facevano: più di una volta era stato mandato a chiamare per un guaio combinato da Silas e più volte Ludwig stesso era stato rimproverato per non aver saputo educare bene suo figlio. Il problema, fondamentalmente, era soltanto uno: educava i figli in base alla libertà, non in base a un'idea imposta da lui o, ancor peggio, da uno stato.
«E quale sarebbe il momento giusto per il signorino?» Lothar era stufo di dover aspettare i comodi di Silas: non lo comprendeva interamente, così come non comprendeva interamente le sua intenzioni, e spesso credeva che stesse facendo il doppio gioco; non sapeva se fidarsi o meno di quel figlio di un'SS.
«Il momento giusto lo so io quand'è e tu aspetterai in silenzio, che ti piaccia o no, altrimenti sai benissimo cosa ti aspetta.» Silas restrinse appena lo sguardo azzurrino e luminoso, puntandolo in quello scuro dell'altro come se lo stesse minacciando anche se non era realmente così: voleva semplicemente imporre la sua autorità in qualche modo, visto che lui, come gli altri del gruppo, lo avevano riconosciuto come loro capo.
«Mi stai minacciando?» Scattò in avanti, prendendolo per i rever della giacca blu oltremare e poggiandolo appena contro il muro gli fece urtare la schiena. Che Silas fosse il capo o meno a lui non interessava: Lothar voleva solo che tutto quello finisse e per lui, quel biondino era d'intralcio ai suoi piani per il momento – rallentava il tutto.
«Minacciarti, io? Un ragazzino di quindici anni? Suvvia, no!» Sul volto di Silas era apparso un sorrisetto saccente e sicuramente fastidioso agli occhi di Lothar.
Non si sopportavano spesso e volentieri, ma avevano in comune un ideale ed era quello che li teneva ancora uniti per il loro scopo.
Lothar lo strattonò appena, lasciando poi la forte presa che fino a poco prima aveva disturbato la giacca di Silas.
«Tu e la tua ironia da quattro soldi...» borbottò, osservando l'altro che prendeva a sistemarsi i rever un poco sgualciti; allorché questo sospirò appena, tornando a guardare il suo compagno di rilvolte.
«Senti, torniamo seri... non posso agire adesso e lo sai bene, sai anche il perché dobbiamo attendere.» Tentava di insistere su quel punto, anche perché era vero: Silas voleva quanto Lothar combattere e opporsi, ma lui era più razionale e sapeva che attaccare qualche manifesto di notte contro la propaganda nazista, non bastava per lo scopo ultimo; cosa potevano combinare quattro ragazzi adolescenti contro un esercito di assassini?
Nessuno voleva aspettare, ma avevano accettato il suo piano.
Silas aveva in mente di attirare a sé comunisti come loro che, attratti dai manifesti che affiggevano contro ogni muro possibile, uscissero allo scoperto e si facessero vedere. Solo avendo numerosi alleati potevano sperare di fare una resistenza.
«Io e gli altri ci siamo stancati di attendere mentre tutte le sere rischiamo la pelle e tu scondinzoli vicino a qualche gonnella.» Lothar era stufo di sapere che Silas andava a divertirsi la notte, a discapito di coloro i quali rischiavano di venire catturati da qualche soldato di pattuglia; quello che non sapeva nessuno, però, era che Silas si divertiva certamente nei Night Club, ma era come se avesse mille orecchie: quelli erano covi popolati dai loro nemici e qualsiasi cosa potesse sentire era sempre un'occasione per poter scovare un qualche punto debole – uno spiraglio da cogliere per poterli attaccare, qualcosa a cui appigliarsi.
«Non posso ti ho detto, non posso mettere a rischio la vita di mio fratello e di mio padre solo perché voi avete fretta: ve l'ho detto, a tutti quanti voi, che se decidevate di percorrere questa strada con me sareste dovuti stare alle mie condizioni per ragioni valide e più che evidenti.»
Lothar stava per rispondergli ancora una volta, ancora non convinto della buona fede dell'altro, si stava dando anche dello stupido per essersi fidato sin da subito di Silas, invece che aspettare per vedere come si comportava e quali fossero le sue brillanti idee; ma anche lui, come gli altri, era rimasto colpito dalla forza con quale il biondo parlava – e si vedeva perfettamente nei suoi occhi quella scintilla che lo animava: la libertà era visibile nello sguardo di Silas.
Non riuscì a dire quello che pensava, perché alle loro orecchie giunse un'altra voce.
Si voltarono entrambi e si guardarono appena: non ci voleva proprio, il ragazzo che era apparso era uno dei figli di quei pazzi fanatici e lui stesso lo era – un pazzo fanatico, esaltato e annoiato sedicenne.
«E voi che ci fate qui?» Friederich si avvicinò a loro, sorridendo sornione come se li avesse colti sul fatto: si erano animati un pochino verso la fine del discorso e in quel momento sperarono entrambi che l'altro non avesse sentito nulla. Silas lanciò uno sguardo d'intesa a Lothar come a indicargli di lasciarlo fare, così il ragazzo sorrise gioviale di rimando a colui che li aveva appena salutati.
«Friederich! Ciao,fumavamo una sigaretta: ne vuoi una anche tu?» Prese il suo porta sigarette e lo aprì, girandolo e porgendolo all'altro che, allungando appena la mano, ne prese una.
«Mh... perché no.» Se la portò alle labbra e guardò i due come se li invitasse uno dei due ad accendergli la sigaretta; allorché Lothar, prontamente, fece quanto gli era stato silenziosamente richiesto.
«Danke.» Friederich sorrise di rimando per la cortesia ricevuta, anche se quel suo sorriso non era mai sincero – aveva avuto degli esempi decisamente sbagliati che lui aveva colto e che svolgeva alla lettera: era un ottimo studente e disprezzava tutto ciò che un buon nazista doveva disprezzare.
Silas e Lothar rimasero incastrati in un chiacchiericcio inutile e che detestavano ma che, purtroppo, non potevano ignorare – dovevano sottostare a certi discorsi per non farsi smascherare.
Ecco cosa erano lui e i suoi compagni di rappresaglie: di giorno figli di nazisti in vista e altolocati, di notte comunisti rivoltosi, oppositori politici che volevano mettere fine a un regime che disprezzavano.
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