Capitolo 19
Buona sera, Londra. Prima di tutto vi prego di scusarmi per questa interruzione: come molti di voi, io apprezzo il benessere della routine quotidiana, la sicurezza di ciò che è familiare, la tranquillità della ripetizione; ne godo quanto chiunque altro. Ma nello spirito della commemorazione, affinché gli eventi importanti del passato, generalmente associati alla morte di qualcuno o al termine di una lotta atroce e cruenta vengano celebrati con una bella festa, ho pensato che avremmo potuto dare risalto a questo 5 novembre, un giorno, ahimè, sprofondato nell'oblio, sottraendo un po' di tempo alla vita quotidiana, per sederci e fare due chiacchiere. Alcuni vorranno toglierci la parola, sospetto che in questo momento stiano strillando ordini al telefono e che presto arriveranno gli uomini armati. Perché? Perché, mentre il manganello può sostituire il dialogo, le parole non perderanno mai il loro potere; perché esse sono il mezzo per giungere al significato, e per coloro che vorranno ascoltare, all'affermazione della verità. E la verità è che c'è qualcosa di terribilmente marcio in questo paese. Crudeltà e ingiustizia, intolleranza e oppressione. E lì dove una volta c'era la libertà di obiettare, di pensare, di parlare nel modo ritenuto più opportuno, lì ora avete censori e sistemi di sorveglianza, che vi costringono ad accondiscendere e sottomettervi. Com'è accaduto? Di chi è la colpa? Sicuramente ci sono alcuni più responsabili di altri che dovranno rispondere di tutto ciò; ma ancora una volta, a dire la verità, se cercate il colpevole... non c'è che da guardarsi allo specchio. Io so perché l'avete fatto: so che avevate paura, e chi non ne avrebbe avuta? Guerre, terrore, malattie: c'era una quantità enorme di problemi, una macchinazione diabolica atta a corrompere la vostra ragione e a privarvi del vostro buon senso. La paura si è impadronita di voi, e il caos mentale ha fatto sì che vi rivolgeste all'attuale Alto Cancelliere: Adam Sutler. Vi ha promesso ordine e pace in cambio del vostro silenzioso obbediente consenso. Ieri sera ho cercato di porre fine a questo silenzio. Ieri sera io ho distrutto il vecchio Bailey, per ricordare a questo paese quello che ha dimenticato. Più di quattrocento anni fa, un grande cittadino ha voluto imprimere per sempre nella nostra memoria il 5 novembre. La sua speranza, quella di ricordare al mondo che l'equità, la giustizia, la libertà sono più che parole: sono prospettive. Quindi, se non avete visto niente, se i crimini di questo governo vi rimangono ignoti, vi consiglio di lasciar passare inosservato il 5 novembre. Ma se vedete ciò che vedo io, se la pensate come la penso io, e se siete alla ricerca come lo sono io, vi chiedo di mettervi al mio fianco, a un anno da questa notte, fuori dai cancelli del Parlamento, e insieme offriremo loro un 5 novembre che non verrà mai più dimenticato.
(V.)
Ludwig si accomodò su una delle poltrone situate nella sala principale. Di fronte a lui c'era Nail, mentre Natthasol era andato ad appendere il suo cappotto.
«Cosa ti posso offrire, amico mio?» chiese Ludwig.
«Qualcosa di forte?» replicò Nail, più per cortesia che per altro. Era allo stremo delle forze, dolorante, e doveva pur ingerire qualcosa che fosse in grado di aiutarlo.
«A quest'ora del mattino?» Dapprima perplesso, Ludwig capì subito la situazione.
«Sì, mio caro. Mi serve un qualche carburante per mandar giù un altro triste giorno.» La sua risposta arrivò alle orecchie di Ludwig come un misto tra ironia e verità.
«Se ti fa male la gamba, basta dirlo: non c'è bisogno di tanto mistero.»
Conosceva il modo di fare di Nail, che era sempre terribilmente restio nell'aprirsi, nell'ammettere che qualcosa lo stava affliggendo; per questo aveva deciso di scuoterlo un po', anche se era buffo che fosse proprio lui a farlo, visto che erano così simili ed entrambi odiavano essere messi allo scoperto.
«Per favore, Natthasol, puoi portare qualcosa di forte per Nail?» riprese a parlare, rivolgendosi direttamente a lui.
«È tuo fratello o il tuo cameriere?» scherzò Nail.
«Vuoi ancora bere?» chiese Ludwig di rimando.
Il loro dialogo era sempre stato composto da un continuo scambio di battute.
Natthasol tornò da loro con in mano un bicchiere ricolmo di Whisky, certo che questo sarebbe potuto andare bene per attenuare il fastidio di Nail. Glielo porse senza indugi e si trovò ad arrossire quando questi lo fissò negli occhi.
«Grazie mille, fratello minore di Ludwig» disse. E sorrise, sfiorandogli perfino la mano nel passaggio del bicchiere. Voleva farlo parlare, integrarlo. In fondo, Ludwig non li aveva nemmeno presentati; una grave mancanza da parte sua, ma non poteva biasimarlo, perché sembravano così presi dall'improvvisa rimpatriata che avevano dimenticato ogni formalità.
«Il mio nome è Natthasol, come avrai potuto sentire, e non "fratello minore di Ludwig"» puntualizzò, ritirandosi chissà dove per leggere qualcosa. Non era abituato a stare al centro dell'attenzione, anzi: era un ragazzo fin troppo solitario e con la testa tra le nuvole.
Nail guardò Ludwig perplesso, poi sorrise e disse: «Che caratterino, sono già innamorato!»
«Non sapevo di queste tue nuove inclinazioni» rispose, lievemente piccato; più per gelosia da fratello maggiore che per altro.
«Sono un estimatore della bellezza, esattamente come te... A buon intenditor, poche parole.»
Ludwig sospirò, rassegnandosi alla parlantina dell'amico. Sapeva che non c'era via d'uscita, in fondo.
«Ah, a proposito, non ti sei più sposato? Quando eravamo al fronte non avevi forse una fidanzata?»
Sentendo quella domanda, Nail percepì il bisogno di accendersi una sigaretta. Tuttavia fu Ludwig a porgergli la fiamma prima che fosse lui stesso a incendiare il tabacco.
«Ricevetti una lettera dalla sua famiglia. Purtroppo venni informato della sua prematura morte. Colpa della tubercolosi...»
«Ah, già, mi ricordo, ma non ne hai più parlato da quel giorno...» mormorò dispiaciuto. Sapeva bene cosa significasse un lutto di quel genere.
«Perché avrei dovuto? Per gravare ancora di più sul mio amico? No, erano affari miei, caro mio, e come ben puoi vedere sono sopravvissuto anche a questo!»
«Oh, non lo metto in dubbio. Ma non mi avresti gravato, davvero, anzi: mi avrebbe fatto piacere esserti di conforto» ammise Ludwig con tutto il suo affetto.
«E tu, invece? Quello sposato non eri tu?»
Anche per Ludwig arrivò il momento di accendersi una sigaretta; il discorso di Regan lo innervosiva sempre.
«Sono stato sposato fino a qualche tempo fa, poi mia moglie si è suicidata all'interno dell'istituto psichiatrico in cui si trovava.»
«Capisco...»
«D'altra parte, credo che abbia fatto bene. Se non fosse stata lei a farlo, presto o tardi l'avrebbero ammazzata loro; era imperfetta...» Lo sguardo di Ludwig si fece più malinconico.
Nail lo conosceva da anni, perciò non impiegò molto a comprendere cosa fosse celato dietro il suo improvviso silenzio: si sentiva colpevole.
«Sai, non dovresti sentirti così» disse schiettamente.
«Così come?» Ludwig si accigliò.
«Lo sai, in colpa.» Lo guardò. Nell'aria aleggiavano nubi grigie, una tempesta nella stanza.
Ludwig parve risvegliarsi brutalmente dai propri pensieri. Riuscì anche a sorridere, non mancando di sorprendersi per l'acume di Nail. Schioccò la lingua e si lasciò sfuggire un: «Dici?»
«Sì, è successo perché doveva succedere, Ludwig. Non crucciarti, non chiederti se potevi fare di meno o di più. No, ormai è passato e devi archiviare tutto.» Spense la sigaretta nel posacenere e mandò giù il Whisky in un sol colpo. «Caspita è forte!» esclamò, quasi compiaciuto della scelta di Natthasol.
«Sei stato tu ad aver chiesto un buon rimedio per il dolore...» sottolineò Ludwig.
«Tuo fratello voleva uccidermi, altroché.» ridacchiò, accendendosi subito un'altra sigaretta.
«Si vede che non ama molto la tua lingua lunga» infierì Ludwig, chiaramente consapevole del debole che aveva per suo fratello.
«Impossibile, piace a tutti!» Convinto della sua affermazione, Nail liberò la sigaretta della cenere superflua. Si sistemò meglio sulla poltrona e, per sua fortuna, non venne rimbeccato dal cipiglio contrito di Ludwig, perché questo fu interrotto da Natthasol e dall'ospite al suo seguito.
«Stai bene?» Ludwig spense la sigaretta nel posacenere e si alzò di scatto per
avvicinarsi ad Aleph con aria preoccupata.
«Ed ecco le inclinazioni di Ludwig...» ironizzò Nail venendo bellamente ignorato dall'amico.
«Sì, Ludwig. Sei stato tu a dirmi che potevo venire a trovarti quando volevo, perciò eccomi qui.» Aleph sorrise amichevolmente al suo indirizzo.
«Hai fatto bene, davvero, solo che non mi aspettavo di vederti così presto... Per un attimo ho pensato che qualcosa fosse andato storto.»
Sentendo quelle parole, Aleph accarezzò una ciocca dei capelli di Ludwig con un gesto dolce e rassicurante, ma non disse niente.
«Sento odore di cospirazione e questa cosa mi piace...» disse Nail, facendo voltare Ludwig nella sua direzione.
«Potresti stare tranquillo per un po'?» gli chiese questi con gentilezza.
«Va bene, però noto che abbiamo gli stessi gusti...» Nail sembrò riferirsi alle evidente somiglianze fra Aleph e Natthasol, ma Ludwig non gli diede peso e si concentrò anzi sulle presentazioni:
«Aleph, lui è Nail; posso presentarti con il tuo vero nome, perché sono certo che lui ci aiuterà e che sarà degno di fiducia». Ludwig indicò l'amico, che fino a quel momento era passato inosservato agli occhi di Aleph, e lo vide deglutire a vuoto. Dopotutto non aveva cercato di nascondere la sua velata minaccia alle orecchie di Nail, anzi.
«Lieto di conoscerti, Nail.» Aleph sorrise al suo indirizzo, stregandolo con sincera bontà e fiducia.
«Lui, invece, è mio fratello Natthasol; l'ho nominato giusto ieri sera» continuò Ludwig, vedendo Aleph annuire di rimando. E si disse che, probabilmente, loro due si fossero già presentati sulla porta.
«Ludwig, per favore, posso parlarti un momento?» Aleph lo guardò negli occhi come in una silente richiesta d'aiuto.
E lui si congedò dai presenti, conducendolo in un'altra stanza. Dovevano parlare da soli, lo sapevano entrambi. Ma non appena Ludwig chiuse la porta, Aleph lo abbracciò. Si alzò sulle punte dei piedi e infine lo baciò dolcemente.
Ciò che fece girare la testa a Ludwig fu la morbida inesperienza di quel tocco infiammato.
«Ehi...» sussurrò. Lo vide arrossire prepotentemente, mentre il suo respiro gli carezzava le labbra.
«Scusami, sono stato avventato.» Aleph si pentì subito per la propria impulsività. Infondo non c'era niente di concreto e specifico fra loro, perlomeno cos' si disse; eppure Ludwig sembrava di tutt'altro avviso.
«E di cosa dovrei scusarti?» chiese, la voce bassa. «Puoi farlo tutte le volte che vuoi, anzi: devi farlo.» Questa volta fu lui a baciare Aleph. E lo fece in modo diverso, più famelico, tanto che lo sentì ricambiare goffamente e senza quasi il respiro. «Che cosa
devi dirmi?» riuscì a dire dopo qualche istante di umido silenzio. Poi gli carezzò il viso concedendosi un lungo sguardo negli occhi di Aleph; gli era mancato tanto, e averlo così quasi vicino non gli sembrava vero.
«Volevo ringraziarti per aver portato via da lì me e mia madre. Però ammetto che questa notte non sono riuscito a chiudere occhio... Quella era la mia casa, in fondo, e so che prima o poi saremmo dovuti andar via, ma è stato un duro colpo. La verità è che tu hai soltanto trovato il momento adatto.» Aleph si prese una piccola pausa, non mancando di essere ascoltato da Ludwig anche nell'attesa, infine disse: «Però, vedi, non è questo il problema...»
«E quale sarebbe il problema?» Ludwig batté le palpebre con un po' di confusione.
«La mia nuova identità...» Aleph abbassò gli occhi in un moto di vergogna. Si sentiva un ingrato a parlare in quel modo, ma aveva bisogno di comunicare a Ludwig il suo contorto disagio interiore. «Ho paura di non abituarmi, di sentirmi diverso, di confondermi e di sbagliare. Ho paura che tu non mi chiamerai più come sempre, ho paura che tu non pronuncerai più il mio nome in quel modo...» Aveva gli occhi lucidi, eppure continuava a trattenere le lacrime con orgoglio. Era conscio del fatto che i propri timori fossero dovuti all'emotività, ma rispetto a qualche mese prima aveva decisamente più cose da perdere.
«Che cosa c'è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo. Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d'avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome?»
Ludwig citò "Romeo e Giulietta" proprio per far intendere ad Aleph che un semplice nome non sarebbe mai riuscito a fargli cambiare idea sul suo conto.
«Ludwig, io...» Quasi si commosse nel sentire quelle parole. Ludwig lo comprendeva e lo accettava. Avrebbe voluto dirgli quello che sentiva nel profondo, ma non ci riuscì a causa dell'improvviso bussare alla porta.
«Mi dispiace disturbarvi» esordì Nail dal corridoio. «Ma credo che qualcuno debba spiegarmi in cosa consisterebbe il mio aiuto. Prima lo saprò e prima potrò rendermi utile.»
Ludwig si riscosse immediatamente, conscio del fatto che Nail avesse ragione; dopotutto non poteva perdersi in chiacchiere. Prima di rispondere, però, strinse ancora una volta il viso di Aleph tra le mani e lo baciò frettolosamente, quasi sperando di placare il suo istinto con un greve senno di poi. Allorché si schiarì la voce, aprì la porta ed uscì.
«Eccoci» disse, fiancheggiato da Aleph. «Torniamo in salone, così posso spiegarti tutto quanto».
Silas non aveva mai preso un treno ed era davvero elettrizzato all'idea. Dentro di lui albergavano un misto di paura ed eccitazione tali da scuotergli l'anima.
Hans e Agnes riuscirono a passare inosservati ai controlli, salendo sul vagone precedente al loro. Sembrava che il piano stesse filando liscio: nessuno si era accorto di niente e, come da legge, le donne non venivano ispezionate, cosa che permise ai volantini di restare al sicuro nelle loro borse.
A Silas e Lothar, invece, vennero visionati i documenti; alla vista del cognome del primo, i militari parvero tranquillizzarsi, così i due furono presto liberi di sedersi: Silas vicino al finestrino, Lothar al suo fianco.
Sentendolo sbuffare, Lothar lanciò uno sguardo nella sua direzione. Non lo giudicava, poteva benissimo comprendere il suo nervosismo, e dopotutto non faceva altro che rispecchiare quella sensazione in silenzio. Si erano imbarcati in una missione decisamente grande, ma l'ideale che li animava era ancora più vasto, forse al punto da far loro commettere delle evidente imprudenze.
«Buongiorno signori.» A parlare fu un uomo mai visto, lo stesso che prese posizione sui sedili di fronte, assieme a un suo collega in divisa. Sorrise amichevolmente, venendo subito ricambiato dai due che, seppur con disgusto, dovettero mandare giù. «Buongiorno a voi» rispose Silas, riuscendo chissà come a mantenere i nervi saldi dinanzi alla facciata perbenista di quegli assassini con l'espressione perfetta. «Bella giornata, non credete?» Cercò di sembrare naturale, di colloquiare, di distrarre i soldati da una possibile inclinazione espressiva di Lothar.
«Bellissima. Siamo felici che il sole risplenda sulla nostra Patria, che la illumini e che la renda fiera delle proprie meraviglie.»
Quella risposta fece letteralmente salire un conato a Lothar. Nonostante ciò, dovette mantenere la calma e perfino rilassare i muscoli contratti del volto che, sotto pelle, non volevano proprio saperne di stare al loro posto. La verità era che non sopportava quell'atteggiamento borioso e ostentato in discorsi privi di senso logico; l'impulso di saltare al collo di quei tizi era forte, tuttavia non abbastanza da renderlo pazzo: rimase in ascolto, pronto a intervenire in qualsiasi momento, e si trattenne; con fatica, ma si trattenne.
«Davvero incredibile.» Silas avrebbe voluto toccarsi i capelli in un tic nervoso, ma a impedirglielo fu il ricordo degli ultimi eventi che li vedevano protagonisti. Forse, si disse, era meglio non metterli in mostra più di quanto non facessero da se. E continuò a sorridere, conscio tanto quanto Lothar che la propria preoccupazione potesse risaltare sotto lo sguardo di un attento osservatore.
«Vi sentite bene? Siete pallido...»
Quella domanda lo riportò alla realtà e gli fece addirittura battere le palpebre. Non sapeva se fosse diventato ancora più diafano o se le sue guance si fossero colorite per il terrore, tuttavia si fece coraggio e rispose: «Benissimo, grazie. Forse non c'è sufficiente aria nel treno.» Distese appena le labbra cercando dentro di sé la stessa sicurezza che lo rendeva leader del proprio gruppo. «Vi ringrazio per esservi preoccupato per me... » Con gli occhi cercò ancora una volta di sondare le mostrine che decoravano la divisa del soldato, e una volta individuate disse: «Grazie davvero, Maggiore, non dovete preoccuparvi per me.»
L'interpellato sorrise nella sua direzione, segno evidente che Silas avesse riconosciuto i gradi. Poi chiese: «Siete diretti a Monaco?»
«Sì, signore. Siamo diretti a Monaco. Voi, se posso chiedere?»
«Siamo diretti a Halle, dobbiamo fare dei controlli...» La tranquillità del Maggiore attirò l'attenzione del suo sottoposto. «Silas Dubois, giusto?» domandò.
Il cuore di Silas perse un battito in quell'esatto momento. Non si era presentato e il solo fatto che uno sconosciuto conoscesse il suo nome parve farlo vacillare. Eppure cercò di trovare una spiegazione plausibile, riuscendo a trovarla in suo padre: si disse che, magari, conoscendo Ludwig conoscesse di rimando i componenti della sua famiglia.
«Sì, signore. In carne e ossa...» E sorrise, lasciando che l'orgoglio che gli infondeva il suo nome trasparisse sul proprio viso.
«Bene, la vostra fama vi precede.»
Se prima era stato Silas a sentire la paura attraversargli il corpo, in quel momento era accaduto a Lothar. Non poteva fare a meno di chiedersi cosa intendesse con quella frase.
«Davvero, signore? Allora ne sono onorato.» Perfino Silas era confuso, ma a suo dire era meglio non concentrarsi su dei possibili sospetti. L'unico cruccio che lo tormentava come un tarlo era che si fosse sparsa la voce, che qualcuno li avesse visti, chissà come e chissà quando, o che fosse stato lo stesso ufficiale della Gestapo ad aver parlato di loro.
«Vi ho visto con vostro padre, un giorno: vogliate portargli i miei saluti.»
Silas avrebbe volentieri sospirato per liberarsi della tensione che, fino a quel momento, gli era scorsa nelle vene come fiele. All'improvviso aveva realizzato che tipo d'uomo era quello seduto di fronte a sé: un ammiratore di suo padre, o comunque qualcosa del genere.
«Certo, sarà fatto» rispose. «Non appena metterò piede in casa, gli porgerò i vostri saluti.» Sorrise ancora e poi prosegui nel parlare: «Potete dirmi il vostro nome? Così so di chi dovrò portare gli omaggi.»
«Sono il maggiore Klaas Becker».
A Silas non diceva nulla quel nome, ma forse suo padre lo conosceva e avrebbe potuto dargli delucidazioni al riguardo, perciò annuì.
«E voi? Di grazia, potreste dirmi perché vi state recando a Monaco?» chiese quello.
«La nostra amatissima e prestigiosissima scuola ci ha assegnato un compito che noi vogliamo svolgere in maniera eccellente, impeccabile.» Quella era l'unica parte vera del discorso, o meglio, della copertura. «La nostra educatrice ci ha detto di scrivere un tema sulla Madre Patria, e siccome noi crediamo che la nostra gloriosa Germania è vasta e immensa, abbiamo pensato di spingerci fino a Monaco per visitarne le bellezze e arricchire così il tema...» disse Silas, improvvisamente raggiante, mentre Lothar continuava a scrutarlo in cerca di una risposta al suo quesito più grande: era l'agitazione a renderlo così? Oppure stava recitando? Ciò che era ovvio e scontato, tuttavia, era che lo avrebbe benedetto per la sua retorica e la sua parlantina.
«Oh, eccellente! Il Reich e il Führer sarebbero sicuramente fieri di due ragazzi come voi.»
Un'altra fitta colpì lo stomaco di Lothar il quale dovette trattenere un ennesimo conato; c'era troppa nefandezza davanti ai suoi occhi!
Il viaggio con i due militari si protrasse ancora per un po', facendo eco di domande cui anche la serietà di Lothar dovette far fronte. La loro compagnia, fortunatamente, cessò nel momento in cui il treno si fermò per una delle tante tappe, quella di Halle. Loro si alzarono e li salutarono come da copione.
«Mi raccomando, ricordatevi di porgere i miei saluti a vostro padre» disse il Maggiore, osservando i due ragazzi ricambiare il saluto.
Silas annuì, sorridendo e facendo un piccolo cenno con la testa. Li seguì con lo sguardo, non differentemente da Lothar, e infine si lasciò andare a un lungo sospiro di sollievo.
«Sei consapevole che da qui in avanti sarà sempre peggio?» La voce di Lothar lo riportò alla realtà e gli fece battere le palpebre con un accenno di confusione.
«Ne sono consapevole» ammise, guardandolo. «O forse no...» aggiunse. «Effettivamente non so cosa potrebbe succedere, ma non voglio tirarmi indietro.» Notò il cipiglio di Lothar, così cercò subito di cambiare discorso: «E poi adesso sono preoccupato.»
«Per Agnes e la sua amica?» chiese, preferendo rimanere sul vago.
«Sì.»
«Ecco, se sei preoccupato devi renderti conto che d'ora in avanti non ti sono concessi errori. Devi cercare di essere il più meticoloso e meno avventato possibile...»
Una ramanzina in piena regola, o almeno così si disse Silas La verità era che quelle parole erano pregne di apprensione e paura: Lothar non voleva perderlo.
«Sì, lo so, non rimproverarmi. Non ho fatto nulla di sbagliato, almeno in questo momento. Starò attento» disse Silas, e sembrò anche un po' infastidito dall'atteggiamento di Lothar, perché continuava a chiedersi quando questi avrebbe smesso di trattarlo come un bambino, come qualcuno che non fosse in grado di badare a se stesso in una situazione del genere; sapeva gestirsi, ne era certo.
Ma Lothar si fidava di Silas, a preoccuparlo era solo la sua impulsività.
Salve gente! Adesso le cose cominciano a farsi complicate, sarò felice se continuerete a seguire le loro vicende. Quello che posso dire è che da ora in avanti è cominciata la vera resistenza.
Fatemi sapere cosa ne pensate, non siate timidi!
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