Capitolo 1

Esistono tre tipi di despota.
C'è il despota che tiranneggia il corpo.
C'è il despota che tiranneggia l'anima.
C'è il despota che tiranneggia sia l'anima che il corpo.
Il primo viene chiamato principe.
Il secondo Papa, il terzo popolo.

(Oscar Wilde- L'anima dell'uomo sotto il socialismo)


La radio aveva preso a decantare quella follia e la voce di Gobbels si era fatta sentire maestosa e tonante per convincere tutti di quanto era accaduto: non stava certo mandando messaggi di pace, tutt'altro, erano accuse belle e buone – del tutto infondate, per di più.

La comunità ebraica era stata additata per l'omicidio dell'ufficiale Rath.

Le fiamme avevano preso a divampare dall'interno di templi e sinagoghe, mentre le vetrine s'infrangevano in quella dannata notte dei cristalli.

Ludwig era sommerso: si sentiva immobile, eppure sembrava partecipare anche lui a quella catastrofe. Doveva dettare ordini che non gli appartenevano, che lo straziavano, ma forse era ancora troppo codardo per ribellarsi – in fondo era soltanto un essere umano e, come tutti, teneva ancora alla sua misera e insignificante vita.

Quella notte, il cielo si era trasformato: non era più di quel blu intenso e avviluppante, ma anzi era diventato grigio come se fosse il ritrovo di tutte le ceneri. La città brillava come se fosse giorno e le fiamme illuminavano tutto.

Era sconvolto. Il rumore degli spari impetuosi, senza sosta, lo agitavano inesorabilmente, perché sapeva che non erano rivolti verso un reale nemico, ma a creature indifese che non c'entravano nulla con quel massacro.

Li avevano colti alla sprovvista, tutte le truppe delle SS partecipanti si erano recate sul luogo in borghese per non destare il minimo sospetto e poi avevano fatto sopraggiungere il caos.

Correva a perdifiato da una parte all'altra, cercando di evitare il possibile come poteva, perché per lui avrebbe fatto la differenza una morte in più; eppure pareva che stentasse a trovare delle motivazioni logiche in quel perpetuo mentire per salvare la vita di un povero innocente.

Una morsa lo erodeva nel centro del petto, mentre correva affaticato, cercando di ritrovare il contegno non appena incontrava qualcuno dei suoi.

Svoltò in un vicolo, poi, quando vide una delle scene più raccapriccianti che si sarebbero potute posare davanti ai suoi occhi: un bambino era stato brutalmente ucciso da un suo sottoposto esaltato, una piccola creatura, forse vestita troppo leggera per il freddo che avvolgeva la città.
Aveva visto una macchia rossa espandersi contro la superficie bianca della neve e il piccolo, immobile, in terra.

Aveva esplicitamente detto: Non toccate i bambini, arrestateli solo se necessario; purtroppo, però, qualche folle c'era sempre – e ci sarebbe sempre stato. Ludwig non era esente dall'aver commesso altre tragedie e d'innanzi a quella visione non ci pensò due volte, fu un attimo che rivolse il suo sguardo colmo d'odio verso un suo pari – quello sguardo torvo in contrasto con lo scenario innevato – e portando la mano alla fondina prese la pistola.
Sparò, prendendo la mira e colpendo l'uomo alla fronte, dopodiché vide quel corpo cadere a terra.

Aveva il respiro pesante, provava vergogna per se stesso, perché premere il grilletto non lo aveva certo reso migliore di altri, ma non tollerava certi atti: non potevano morire così dei bambini.
Non riusciva a capacitarsi di niente, mentre i suoi occhi si dilatavano un poco – mai si sarebbe abituato nell'uccidere un uomo. Provava vergogna per se stesso, sì, per quello che aveva fatto e per quello che il suo popolo stava compiendo.

Prima che ebrei, la maggior parte di loro erano tedeschi – e allora che senso aveva tutto quello? Ah, ma sapeva bene che non c'era da porsi troppe domande, conosceva tutte le scuse che i suoi diretti superiori utilizzavano per attuare certi misfatti.

Rinfoderò la pistola, constatando che fortunatamente non era stato visto da nessuno, e ritornò al punto di partenza: immobile, mentre vedeva un mare di persone in fila indiana che venivano arrestate, le fiamme che crescevano alte, i corpi dei meno fortunati ammassati a terra – no, non ce la faceva decisamente più a sopportare quella visione, non la tollerava più; eppure non faceva niente se non continuare a guardare.

Vigliacco, si disse tra sé e sé. Quello era un giudizio inevitabile, si sentiva un vigliacco, ma cosa avrebbe guadagnato con la morte? Chi ci avrebbe pensato a salvare quelle poche vite che poteva liberare?

Improvvisamente vide un altro sottoposto – un caporale in carica, per l'esattezza – spingere violentemente un giovane uomo verso il muro. Probabilmente voleva giustiziarlo lì, ma Ludwig procedette con grandi falcate in quella direzione e poggiò il braccio per arrestare l'azione dell'altro tedesco.

Lo sguardo che gli venne rivolto era di disappunto e curiosità, oltre che diffidenza. Il suo subalterno lo stava scrutando, ma fortunatamente, Ludwig arrivato fino a quel punto sapendo bene cosa dire.

«Dimmi, ragazzo, che cosa fai: studi?» Ludwig guardò il giovane uomo con altezzosa severità, ma dagli occhi cercava di fargli trasparire una sorta di fiducia, di speranza: doveva solo rispondere alle domande giuste.

«Sì signore.» Era un po' timoroso, quel ragazzo ebreo che, totalmente confuso, cercava di non fare passi falsi. Lo guardava speranzoso, cercando di non far trasparire troppa paura – non voleva di certo essere ucciso in mezzo a quella piazza dove già tante persone erano dipartite.

«Cosa studi?»

«Ingegneria.» Ludwig avrebbe voluto sospirare sollevato in quel momento, anche se non poteva.
Si rivolse così al carnefice: «Fatelo mettere in riga come tutti gli altri: studia ingegneria, quindi farà l'ingegnere e ci tornerà utile.»

Il caporale, credendo alle sue parole e non avendo scelta dinanzi agli ordini del suo colonnello, fece come gli venne richiesto.

L'ebreo guardò Ludwig per un breve istante, fissò i suoi occhi celesti contro quelli neri dell'altro e con un cenno del capo lo ringraziò. Il cuore gli si strinse nel petto quasi a dolergli: era riuscito a salvarlo, almeno per quel momento, e probabilmente aveva avuto più paura dell'ignaro ragazzo.
Era sì riuscito a salvare un uomo, ma spostandosi poco più avanti aveva visto una donna in terra, vittima di uno stupro – e dovette passarle dinnanzi, senza potersi inchinare, cosa che, ne era quasi certo, fece più male a lui che a lei; ma non poteva agire diversamente, ancora una dannata volta.

Altri bagliori e scoppiettii arrivavano alle sue orecchie: urla, grida strazianti di dolore e suppliche. Tanti altri cadaveri, innumerevoli, gli apparvero di fronte, e improvvisamente Ludwig si accasciò a terra preso dal panico più totale: non respirò più.

Si sedette di scatto sul letto, svegliandosi a causa di quell'incubo che faceva ogni tanto da ben due anni. Troppi orrori – inutili – avevano visto i suoi occhi per poterlo lasciare in pace.

Si passò il dorso della mano sulla fronte per asciugarsi quel poco di sudore che nel sonno gli aveva imperlato le tempie e, cercando di regolarizzare il respiro piuttosto affannato, si alzò dal letto lentamente, tirandosi su per indossare la vestaglia da camera bordeaux che era stata poggiata ordinatamente su di una poltrona.

Aprì delicatamente la porta, nonostante fosse agitato, muovendo altrettanto lentamente i suoi passi fino alla cucina ─ non voleva svegliare sua moglie che dormiva in una camera differente dalla sua.

Prese un bicchiere dalla credenza e aprendo il rubinetto ci fece scorrere dentro un po' d'acqua.

Appoggiato contro il lavello, come per sorreggersi da quelle oscenità che aveva rivissuto nel sonno, prese a sorseggiare l'acqua come se potesse spengnere un incendio interiore – come se quel solo bicchiere bastasse a non fargli più rivivere l'inferno in terra.

Non ci voleva proprio. Era agitato, ma, come al solito, dall'esterno non si percepiva: ormai era talmente abituato alla sua compostezza che neanche dentro casa sua riusciva a lasciarsi andare.

Sentì poi dei passi, immaginando che fossero quelli di sua moglie, e così fu: la vide entrare con indosso la sua preziosa camicia da notte e i bei capelli biondo grano, sciolti, che le ricadevano lungo la schiena – anche se una ciocca, prepotente, si era spinta sul davanti.

«Cosa ci fai in piedi a quest'ora? Non stavi dormendo?» Le domandò lui, pacatamente, preoccupatosi che lei potesse sentirsi male.

Erano sposati da quindici anni, eppure quella donna gli piaceva ancora: era legato a lei immensamente e la sua etica gli impediva di tradirla, almeno con altre donne, ma anche Ludwig aveva i suoi motivi.

«Certo che stavo dormendo, ma avevo sete proprio come te e quindi mi sono alzata.» Aveva un'aria presuntuosa, come se dovesse essere ovvio che lui sapesse tutto ciò che la riguardava.
Magari fosse stata solo sete quella di Ludwig, era semplicemente una fuga – anche se consumata solo con un bicchier d'acqua.

«Non potevo immaginarlo, solitamente porti sempre l'acqua con te.» Era davvero premuroso – ingenuo, per lo più – e per un attimo aveva creduto che questa fosse in grado di nascondergli qualcosa per non farlo preoccupare; ma che sciocco che era! Figuriamoci se lei, quella donna così algida, poteva avere un pensiero gentile per lui – eppure Regan non era stata sempre così, non con lui almeno.

«Questa volta me la sono dimenticata, puoi passarmi due bicchieri?» Gli domandò. Un bicchiere era per lei e uno per loro figlio – con il quale dormiva, premurosa, per farlo addormentare. Sembrava credere che lui avesse ancora un paio di anni, mentre l'altro figlio, se non fosse per Ludwig, sarebbe stato completamente abbandonato a se stesso.

«L'altro è per Salazar?» Domandò stupidamente, come se non fosse scontato. In quel momento, Ludwig era ancora immerso in quella piazza, immerso nei corpi, nelle ceneri e nella visione di quel bambino morto d'innanzi i suoi occhi – no, di sicuro non poteva far caso alla normalità domestica.

«Certo per chi altri potrebbe essere? Ludwig, sei distratto, che cos'hai: ti ha forse lasciato l'amante?» Quella domanda ironica e subdola arrivò decisamente nel momento sbagliato e lui si sentì come raggelare, come se qualcosa lo avesse ferito veramente: non se l'aspettava, sopratutto da lei che sapeva cosa lo facesse soffrire tanto.

«Come puoi dire questo? Sai benissimo che non tocco una donna da dodici anni, proprio perché tu lo hai voluto. Da quando sei stata operata hai respinto tutti, eccetto Salazar. Sei consapevole di avere un altro figlio che ha bisogno delle cure amorevoli di una madre? Ne sei consapevole?» Le lanciò quelle domande con il suo tono scuro e profondo, sempre pacato: non aveva bisogno di urlare per andare dritto al punto. «Che ti piaccia o no, hai due figli Regan – e per quanto io posso fare, di certo non posso sostituire una madre. Lui la sente la tua mancanza, sa che lo stai ignorando proprio perché non è Salazar

Sul volto della donna si andò a formare un'espressione d'orrore e disgusto. Quelle parole andarono dritte a smuovere le corde che tanto pazientemente lei aveva sistemato.

«No, mi spiace, ma ti sbagli: io ho solo un figlio.» Era austera e schietta, sicura di quello che affermava.

Ludwig la guardava silenziosamente, scrutandola con un velato disprezzo. I loro bambini erano stati il frutto d'un amore intenso, finito col secondo parto della donna – o per lo meno era finito da parte di lei che ormai considerava suo marito come un peso, desiderosa di vivere solo con suo figlio.

«Silas, chi altro sarebbe allora? Nostro figlio, che dorme nella sua stanza da solo... chi sarebbe?» Era sconvolto, seppur tentasse di mantenere la sua voce modulata ed equilibrata.
Sapeva che Regan, da quando le avevano asportato l'utero, si era praticamente dedicata solo al loro secondo nascituro; ma non tollerava che si comportasse così, proprio non lo accettava.

«Quello è tuo figlio.» Lei era spietata e crudele quando sentiva parlare del suo primo bambino, ormai quindicenne.

«Tu lo hai partorito e quindi è anche tuo figlio.» In quel momento non gli importava di essere disumano, voleva solo scuoterla un po' – e a giudicare dalla sua espressione spaesata ci era riuscito di gran lunga; ricordare a Regan che aveva avuto un altro figlio, prima di Salazar, quando ancora stava bene, la faceva regredire a uno stato di semi incoscienza.

Non disse più nulla, ormai preda delle sue antiche paure e disperazioni. Prese i due bicchieri che Ludwig aveva posato sul tavolo e li riempì d'acqua, uscendo da quella cucina senza pronunciare alcunché.

L'SS che, tanto di temibile aveva solo quella sigla, era praticamente un uomo distrutto: renderla in quello stato lo annichiliva profondamente, lo rendeva marcio dentro quasi, come se una creatura oscura lo rosicchiasse dall'interno, dando il peggio di sé all'altezza della gola.
Ricordarle ciò che aveva passato era però l'unico modo per richiamarla all'ordine, anche se mai avrebbe voluto che il suo primo figlio – qualora fosse passato per caso di lì – potesse udire le nefandezze che sua madre andava dicendo.

Regan era tornata in camera da suo figlio che se ne stava rannicchiato da un lato del letto mentre guardava fisso il muro davanti a sé.

Quel bambino aveva qualcosa che non andava: era sempre catatonico, non parlava quasi mai e l'unico con cui si apriva era suo fratello – lo faceva con i suoi disegni, dove spesso imprimeva quel mondo immaginario e parallelo che si era costruito all'interno della sua mente per sfuggire dalla realtà distorta costruita da Regan.

Sua madre gli posò il bicchiere d'acqua sul comodino accanto al suo lato, dopodiché gli accarezzò i capelli neri e morbidi – colore che aveva ripreso da suo padre, a differenza del figlio che lei tanto disdegnava e che li aveva biondi proprio come i suoi, più slavati diceva questa.
Si rimise sotto le coperte, accanto a Salazar, abbracciandolo dolcemente e chiudendo gli occhi pronta a rituffarsi in un sonno armonioso, mentre lui fissava quel muro non riuscendo neanche a sbattere le palpebre.

Alle prima luci dell'alba, Ludwig era già sveglio.
Una volta alzatosi dal letto, dove era riuscito a riprendere sonno solo un'ora dopo, leggendo numerose pagine di un libro, tirò fuori dall'armadio la sua divisa – sempre in ordine, sempre rigorosamente stirata, tirata a lucido; era di una precisione incredibile quell'uomo, forse più ordine vedeva fuori dalla sua testa e meglio era: la giornata prendeva sicuramente una piega differente.

Ludwig sorrideva a malapena a suo figlio, ma era tanto che non riusciva a fare un sorriso reale – uno di quelli dolci, da mozzare il fiato, e non si ricordava neanche da quanto tempo era che non rideva.

Davanti allo specchio appese al suo posto alcune delle medagliette restanti – doveva sfoggiarle tutte: così volevano e così doveva fare, anche se ci faceva ben poco delle medaglie all'onore che lui neanche sentiva.

Infine si sistemò i capelli, guardandosi allo specchio e constatando che l'unica cosa di diverso che si era permesso di lasciare, erano quei capelli leggermente più lunghi di quanto convenisse – come se fosse l'unico vezzo che gli fosse rimasto o quantomeno concesso. Scendevano appena a toccare l'inizio delle spalle e lui li lasciava sciolti fin che poteva, ma poi li legava in una piccola coda nera per risultare più ordinato.

Suo figlio – quello che a dire di Regan era soltanto suo – dormiva ancora nel suo letto, ma era ora che lo svegliasse per accompagnarlo in una di quelle tanto prestigiose scuole tedesche. Non poteva fargli più da precettore e doveva garantirgli un'istruzione degna di nota e di merito, cosa che lui da solo non poteva fare – ma di certo non si tirava mai indietro alle richieste del figlio.
Si sedette sul suo letto, delicatamente, accarezzando appena i capelli biondi per svegliarlo dolcemente da quel torpore, sapendo che svegliandolo lo avrebbe riportato nuovamente a un mondo d'infamie, privo d'ogni possibilità d'amore.

Silas era un ragazzo di quindici anni, ormai indipendente, ma Ludwig sapeva che aveva ancora bisogno delle sue cure, almeno per dieci minuti, per non fargli sentire quel vuoto – quella voragine crudele, in realtà – lasciato dalla madre che non si rendeva più conto di quanta sofferenza potesse recare ai restanti membri della famiglia.

«Silas, svegliati...» sussurrò appena, mentre la sua mano era scesa sulla spalla del giovane per scuoterlo. Il ragazzo emise qualche mugolio assonnato e infastidito, ma la carezza di suo padre già lo riportava al mondo con quel calore che, se anche non era sufficiente, c'era.

«Che ore sono?» Borbottò lievemente, con la bocca impastata dal sonno. Non riusciva ancora ad aprire gli occhi, ma perlomeno cercava di intrattenere un breve dialogo con suo padre per riportare la mente a una lucidità accettabile.

«Tutte le mattine mi fai questa domanda, sono le sette e devi andare a scuola, lo sai benissimo.»

«Mein Gott...» sussurrò, scuotendo la testa «... anche oggi devo vedere quel mucchietto di fanatici deficienti.» Non aveva mezzi termini per esprimersi, odiava quel regime e chi ne andava tanto fiero: l'unico che sopportava era suo padre, giacché sapeva che fosse di tutt'altra natura. Ludwig, tempo addietro, aveva trovato tra le cose del figlio anche un volantino comunista che incitava alla sovversione – volantino che buttò per il bene di Silas, ovviamente.

«Ma come, non ti adorano? Dicono che sei l'esempio di pura razza ariana.» Ludwig sorrise appena, canzonando il figlio bonariamente – ecco, in quei brevi attimi di serenità riusciva a sorridere ed era grato a Silas per questo.

«Sì, e io li ucciderei volentieri tutti, ma non lo faccio solo perché sennò diventerei uguale a loro.»

Silas aveva una lingua tagliente, era un ragazzo del tutto anticonvenzionale per il Reich: voleva vivere la vita di un quindicenne come facevano i suoi coetanei americani, magari tra cinematografi, salotti e teatri, una vita Bohemien – sì, era decisamente nelle sue corde.

Certo anche parecchi dei nazisti erano avvezzi a quel tipo di routine artistica, ma Silas la riteneva un'ipocrisia bella e buona: chi si circondava di morte, non poteva vivere per la bellezza e la purezza del sentimento. I Nazisti, quindi, vivevano nell'orrore che mascheravano a festa.

«Sì, sì lo so, sei il solito sovversivo, ma le rivoluzioni non si fanno dormendo a letto.»

«Quelle del cuore sì, papà.»

Ludwig lo guardò, alzandosi dal letto per farlo scendere, e sospirando appena rispose: «Ecco, magari queste me le risparmi, d'accordo?»

Silas, ancora assonnato, annuì alle richieste del padre, tirandosi giù dal letto con molta fatica, ma riuscendoci. Rabbrividì quando poggiò i piedi sul pavimento freddo e andò alla ricerca delle pantofole per poi filare dritto, dritto nel bagno che era comunicante con la stanza da letto.

«A proposito, papà, dove devi andare oggi?» Alzò il tono di voce, facendosi sentire così dal bagno. Sapeva cosa facesse suo padre, anche la divisa lo dimostrava in maniera lampante, ma conosceva i suoi pensieri e quindi questo non lo deludeva molto – sperava solo che suo padre, prima o poi, cercasse il modo di mettere fine a quel miasma nazionalista, anche se, di certo, da solo non poteva farcela.

«Devo andare a casa di un mio collega, mi ha chiesto di fare da precettore a suo figlio.» Aspettava il ritorno di Silas e, senza toccare niente, buttava un occhio qua e là tra i suoi scritti e i suoi libri.

Era un piccolo rivoluzionario ed era evidente, tra i volantini del partito comunista, altri che Ludwig non era riuscito a trovare e a far sparire, e romanzi, libri di poesie e alcune opere di Oscar Wilde.

«Oh, povero bambino...»

Ludwig si accigliò un poco a quell'affermazione, avvicinandosi alla porta chiusa del bagno.
«Cosa vorresti dire?» Chiese a suo figlio, ferito scherzosamente nell'orgoglio.

«Che sei severo, papà, che sei severo.» Cercò di addolcire la pillola per non far rimanere suo padre troppo male rispetto a quanto aveva detto.

«Devo esserlo, altrimenti un bambino di sette anni come impara?» Chiese di rimando pensando che effettivamente poteva sembrare severo – ma ci metteva sempre la giusta dose di calma e pazienza quando spiegava e trasmetteva ciò che conosceva.

«Non posso neanche assegnargli tutti i libri che vorrei», ammise Ludwig. A causa della censura non poteva far leggere tutti i libri che solitamente avrebbe fatto leggere a un suo allievo anni a dietro.

Qualche libro nascosto ce l'aveva ancora, ma di certo non poteva portarlo in casa di un altro SS che lo avrebbe dichiarato come traditore.

«Quel povero ragazzino si è salvato allora.»

Dichiarò Silas uscendo dal bagno e ridacchiando appena, mentre con un asciugamano si asciugava i capelli lunghetti, strofinandoli accuratamente – questi, da bagnati, erano ancora più mossi. Nel sorridere aveva rivolto al padre lo sguardo azzurro e sfaccettato, dolcemente: era enormemente grato a Ludwig di quello che faceva per lui.

«E Salazar?» Voleva sapere come suo fratello avrebbe passato la giornata, se almeno una volta poteva sperare in un piccolo cambiamento che gli avrebbe giovato.

«Salazar resterà a casa e come al solito gli farà da insegnante tua madre.»

«Mia madre...» Silas aveva pronunciato quell'appellativo in modo sommesso, rattristendosi subito nell'udire l'eco di quella parola. Gli mancava sua madre, effettivamente, anche se non aveva nessun ricordo di lei e non la vedeva accanto a sé da quando aveva due anni, nonostante abitassero assieme; era come se fosse un fantasma, lontana da quel figlio che tanto disdegnava dal profondo.

«Silas...» Suo padre lo chiamò alla realtà, dispiaciuto per averlo fatto rattristare.

«Si ci penserà lei, ma ci pensa anche troppo, papà, e poi gli strappa i disegni di nascosto e lui si dispera. Lo hai mai visto disperarsi? Lui durante il giorno disegna – non l'ho visto catatonico solo quando si mette lì a disegnare – colora anche e sembra rappresentare un qualche mondo. Ecco, lei sembra gelosa pure di questo mondo e gli distrugge i disegni: l'ho visto piangere quando l'ha scoperto, ma piangeva così forte, papà, che alla fine era diventato afono. Ti prego, controllalo, cerca di fare qualcosa per lui...»

Ecco un'altro paletto conficcato nel cuore di Ludwig.

Da quando sua moglie era stata operata e aveva subito l'asportazione dell'utero, lei si era attaccata morbosamente a suo figlio, considerando che questo fosse anche l'ultimo che avrebbe potuto avere, così tanto da allontanare tutti e da esserne gelosa. Ludwig era a conoscenza della sua morbosità e si trovava in mezzo a due fuochi: da una parte c'era la salute di suo figlio e dall'altra quella di lei. Mai avrebbe immaginato che l'affetto di sua madre potesse essere tanto devastante per Salazar – c'è da dire, però, che lui non era a conoscenza di tutto quello che Regan faceva al piccolo, bensì solo del fatto che fosse apprensiva in maniera quasi disperata.
«Ci proverò, Silas», gli disse, accarezzandogli appena il viso per rassicurarlo, mentre questo si allontanava per finire di vestirsi.

Facevano la strada insieme, almeno per un pezzo, tutte le mattine.
Silas andava in questo tanto rinomato liceo, mentre Ludwig si districava tra il quartier generale e insegnamenti vari.

La mattinata, insieme quel bambino, era stata pessima: era un moccioso viziato e privo di qualsivoglia interesse per lo studio. Poteva capirlo, visto e considerato che il bambino aveva sette anni, ma non tollerava la maleducazione. Era più forte di lui: era inquadrato, per lo meno in quello, e non poteva passare oltre simili affronti; ma era schiavo anche di quell'infante, poiché figlio di un nazista nonché suo collega.

Era uscito da lì verso mezzogiorno, ravvivandosi i capelli per lo stress subito e desideroso di tornare a casa prima di uscire nuovamente per districarsi in chissà quale missione omicida.

Voleva tornare in tutta fretta e a piedi ci avrebbe messo più del normale, ma camminare gli piaceva e sopratutto gli schiariva le idee: l'aria pungente era sempre un ottimo mezzo per offuscare o fare luce nella sua mente.

Il mese di Novembre si stava facendo largo lungo le vie delle strada di Berlino – ed era sempre in quel mese che faceva il suo incubo, perciò neanche quell'anno era mancato.

Il cielo era grigio e i raggi del sole cercavano di farsi largo prepotenti tra le nuvole, provando a riscaldare così alla meglio i passanti. Nell'aria poteva percepire benissimo la tensione mista alla serenità: c'era chi doveva aspettare degli orari prestabiliti per fare tutte le commissioni e chi, invece, poteva camminare spensierato – per quanto questo fosse possibile.

Fu in quel momento che un ragazzo decisamente di fretta lo urtò e si maledì nel vedere contro chi era andato a sbattere – contro quella divisa. Stava fuggendo proprio da quella divisa, perché era uscito a un'ora del giorno in cui non sarebbe potuto sgattaiolare fuori casa e aveva con sé una busta con del pane, preso in chissà quale spaccio. Sua madre stava male, per questo non sarebbe potuta uscire all'ora designata, e lui aveva preso impudentemente il suo posto in un momento del tutto sbagliato.

«Scusatemi, io non volevo...»

Ludwig non rispose subito, cercò di capire cosa era successo, ancora scosso per l'urto dato dal ragazzo che lo aveva fatto vacillare un poco. Gli sembrava di averlo già visto, ma dove?
Il ragazzo, invece, fattosi coraggio, decise di alzare la testa, e nel guardarlo lo riconobbe immediatamente; spalancò gli occhi nel ricordarsi dell'uomo che gli aveva salvato la vita quella notte orribile – altrettanto impressa nel sua mente quanto in quella del possessore della divisa.

«Non vi preoccupate, non è successo niente.»

Il ragazzo era davvero sbalordito nel constatare che l'uomo non solo si fosse mostrato magnanimo con lui quella notte di due anni prima, ma anche in quello stesso giorno.

Sembrava gentile, così si disse, ma doveva stare attento, perché l'apparenza ingannava e quelle persone – le SS – erano subdole e sopratutto indagatrici.

Dio solo sa quale piano avrebbe ordito una di queste per cercare di incastrarlo in qualche modo.

«Posso sapere il vostro nome?»

Ludwig, per quanto fosse disinteressato, voleva capirci di più su chi gli ricordava qualcosa – ma soprattutto desiderava conoscere il nome di chi lo aveva urtato con tanta fretta.

Il ragazzo deglutì, sapendo che il suo nome lo avrebbe bollato all'istante come ebreo, ma poi rispose: «Aleph, signore.»

Ecco che tutto apparve nuovamente come un lampo nella mente di Ludwig, ricordandosi immediatamente del ragazzo dai capelli ramati che quella notte dei famigerati cristalli aveva salvato per puro miracolo.

«Lo sapete che non potete uscire a quest'ora?» Gli domandò retorico, utilizzando un tono pacato e calmo – il suo classico tono armonioso – nel pronunciare perfettamente la sua lingua.

«Sì, lo so signore, ma vedete... mia madre è ammalata e non poteva uscire, perciò io sono dovuto correre fuori a prendere almeno del pane per pranzo.» Sperò nella gentilezza dell'altro, avendolo riconosciuto – se lo aveva salvato una volta, si disse, di certo non l'avrebbe condannato in quel momento.

Ludwig sospirò, non poteva certo lasciarlo alla mercé di qualche antisemita pronto a sparare a vista soltanto alla percezione di un giudeo.

«Vi accompagnerò fino a casa vostra.»

Aleph spalancò gli occhi, immaginando già quali atroci atti potesse commettere: deportare lui e sua madre, arrestarli, sequestrargli quei beni che avevano. Non poté dire nulla, però, e così annuì, facendo strada all'uomo che sembrava troppo serio e dimenticò di averlo salvato, sebbene in realtà fosse tutto il contrario.

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