Il temporale

All'ordine di Lanciani di circondare le uscite erano tornati di corsa in macchina. Aveva visto Giulia partire verso i campi con la moto. Si erano diretti all'entrata principale; Catalano aveva inviato due pattuglie sui lati a controllare il perimetro e un'altra sul retro. Giusy aveva estratto l'arma ed era rimasta nascosta dietro l'auto. Gli ordini di Lanciani erano chiari: non entrare. Per quanto male le facesse starsene lì al freddo sotto la prime gocce di pioggia, coi capelli sbattuti dal vento, Giusy non poteva che fissare quella porta a vetri, davanti alla fontana spenta ormai da decenni e coperta di erbacce. Come faceva a non pensare che lì dentro, in quel basso edificio dai contorni inquietanti, da solo, Fabio si era ritagliato il suo teatrino, la sua vendetta personale, anche a costo di farsi ammazzare?

Non voleva chiudere quel mese assurdo davanti ad una bara. Non era così che se l'era immaginata la cattura di Carsi. Catalano continuava a urlare ordini e a parlare alla radio e lei si sentiva morire. Aveva paura di udire un colpo di pistola o un tonfo o un urlo. Eppure, il vento era l'unico rumore in quella notte assurda, copriva anche il suo respiro. Quando il cielo borbottò protestando sonoramente sopra di lei sobbalzò. Catalano la guardò stupito. Il suo sguardo diceva solo: "non fare qualcosa di cui potresti pentirti". Giusy alzò le braccia e rimase immobile. Il vicebrigadiere annuì convinto. Giusy non capiva come facesse a non tremare, ma forse era lei stessa l'ossimoro, la situazione diversa, insana, non regolamentare, lei e Fabio. Tremare per un collega era umano, ma non era sano se volevi continuare a fare il loro mestiere. Quel problema non era più solo di Fabio, ma era anche suo e non poteva continuare così.

Il temporale si stava avvicinando. I primi a tornare furono le squadre dai campi: l'africano era stato ammanettato e lo stavano accompagnando sul piazzale. Le altre auto li raggiunsero completando il cerchio attorno a quell'ingresso ancora deserto. Un pubblico impaziente di berline scure coi lampeggianti manuali accesi ma silenti attendeva l'arrivo della super star da applaudire. A Giusy non piaceva la ribalta, le luci puntate o chi si gongolava sotto di esse e una parte di lei aveva paura che invece Fabio amasse quel genere di attenzioni. Di certo Carsi un applauso non lo meritava. Agli occhi di Giusy un arresto non era una vittoria, una condanna lo era, dare giustizia ad un innocente lo era. Ammanettare un uomo era solo la sconfitta di una società che davanti all'impossibilità di ritagliare un posto ad ogni individuo trovava quale unica soluzione dimenticarsi di queste persone e nasconderle in un luogo invisibile, il più possibile lontano dalla città e dalla vita. Un posto in cui potessero dimenticare che il male esisteva e che risiedeva in ognuno di loro, nessuno escluso.

Quando vide Fabio comparire sulla soglia di quella discoteca abbandonata ebbe un crampo allo stomaco, non poté che piegarsi in due e tentare di continuare a respirare, con gli occhi coperti di lacrime. Catalano per fortuna non se ne accorse, scattò sull'attenti restringendo il perimetro e organizzando la presa in consegna di Carsi in prima persona, quasi ne sentisse la responsabilità. Fabio sembrava stravolto, si teneva il braccio ferito e si guardava attorno come intontito. Consegnò l'arma a un collega. Proposero di chiamare un'ambulanza, lui rifiutò. Quando se lo ritrovò davanti, Giusy era ancora piegata in due. Alzò gli occhi deglutendo a fatica. Vederla lì in lacrime, pallida e spaventata col golfino di sua madre addosso e la pistola gli diede un'impressione strana. Avrebbe tanto voluto abbracciarla, baciarla, stringerla, forse voleva proprio crollare tra le sue braccia. Invece rimase immobile, fermo, come una statua. Nascosto dalla macchina le prese solo la mano e la aiutò ad alzarsi in piedi.

«È fatta, respira, scorterò Carsi in centrale e sarà tutto finito» le sussurrò.

«Non spetta a te. Ho letto il regolamento sai, anche se a volte non sembra.» Giusy si asciugò gli occhi e tentando di sorridergli.

Fabio si sciolse davanti a quella battuta. Era come se quelle parole avessero aperto una breccia: erano così terribilmente parte di Giusy, del suo essere sé stessa ad ogni costo, senza preoccuparsi di piacere a qualcuno o di rientrare in una regola.

«Vai a farti curare quella spalla, io ce la faccio» disse lei convinta, prese un profondo respiro e raggiunse il vicebrigadiere salendo sulla volante. Catalano fece un cenno di saluto al suo ufficiale in comando, innescò la sirena e partì nella notte buia.

La pioggia stava cominciando a scendere più copiosa e il cielo protestava sonoramente. Il vento si era fermato sostituito da una cappa pesante ed umida che penetrava anche in quell'auto scura ed anonima lanciata a sirene spiegate sulla Romea. Giusy si era seduta sul sedile tutta intirizzita e fissava dritta davanti a sé le gocce di pioggia che cadevano sempre più abbondanti. L'idea di avere un pluriomicida dietro di lei le mozzava il fiato anche se cercava di salvarsi la faccia. In quell'auto non c'era nemmeno una paratia antiproiettile a separare gli scompartimenti, le pareva di percepire l'alito di quell'uomo sul collo. Di cadaveri ne aveva visti, ma non è la stessa cosa guardare un morto negli occhi e fissare il suo assassino. Lanciani non aveva voluto farle leggere il verbale della scena del crimine di via Ravenna. Quindi doveva essere osceno, almeno tanto quanto lo era stato quello della nonna del carrozziere che aveva recuperato dall'archivio. Forse aveva sbagliato a lasciarsi prendere dalla curiosità. Catalano era muto, teso, rigido, col volto contratto.

Carsi si grattava nervosamente un braccio, a disagio. Il temporale non gli era mai piaciuto. Avendo vissuto tra quei lidi tutta la vita conosceva bene la furia con cui può scatenarsi il cielo sopra la terra: la grandine, le mareggiate, il fragore del vento lanciato nei campi. Sua madre guardava sempre la finestra nervosa al pensiero delle barche e del mare mosso.

"Se quello s'accoppa, chi la porta in tavola il pane, eh?" protestava continuamente. Girava per casa pulendo i mobili nervosamente come se fosse posseduta da un demone. A volte si dimenticava pure che era ora di mangiare e quando glielo ricordavano si tramutava in una furia, così il piccolo Massimiliano rubava qualcosa dalla dispensa per sé e il fratello e si nascondevano in soffitta a guardare i fulmini. Un giorno suo padre colò davvero a picco con la nave. Coi soldi dell'assicurazione aprì il mutuo per quella cascina che era l'unica cosa che gli aveva lasciato, insieme a una marea di debiti. Se lo avesse portato via la tempesta, come sua madre tanto temeva, avrebbero avuto tutti una vita migliore. Alla cascina, con l'invalidità permanente, era peggiorato: sempre a casa davanti al televisore, ubriaco, nervoso, intrattabile. Forse era quello a dargli tanto fastidio nella sua gamba, che gli ricordava l'infortunio del padre, che nel suo incedere zoppo gli sembrava di essere diventato una sua copia sputata e ai suoi occhi non c'era davvero destino peggiore. Una pioggia torrenziale cominciò a scrosciare fuori dal finestrino, Catalano fu costretto a rallentare per la violenza dell'acqua. L'umidità nell'auto crebbe ancora di più.

«Sto soffocando» disse il trafficante dal nulla. Con le manette cercava di tirarsi verso il basso la camicia, ma era già aperta.

Giusy si girò preoccupata. Era suo compito far stare buono Carsi, Catalano doveva guidare. «Si calmi, possiamo mettere l'aria condizionata.»

Catalano eseguì meccanicamente, ma da quelle bocchette non usciva che polvere. Il vicebrigadiere scosse la testa. Giusy lo guardò allibita.

«È scarica, forse» sussurrò Catalano. Quell'auto non veniva usata da diversi mesi: non era una vettura regolamentare e la manutenzione a volte subiva dei rallentamenti.

«Allora tiriamo giù i finestrini di qualche centimetro» propose Giusy con un sorriso forzato. La macchina non era blindata pertanto i vetri potevano essere abbassati: un piccolo spiraglio forse sarebbe bastato a far calmare Carsi.

«Non è possibile da regolamento, lo sai!»

«Andiamo, quell'uomo sta soffocando!»

«O sta fingendo di soffocare, tu non lo conosci.»

Giusy si girò per controllarlo: era tutto rosso in viso e aveva gli occhi stralunati.

«Aprite questi cazzo di finestrini o li apro io a rivoltella!» urlò Carsi.

Detto questo con un movimento fulmineo infilò una delle sue mani nei pantaloni e nonostante le manette estrasse un'arma di piccolo calibro. A Giusy morì il fiato in gola, riuscì soltanto a ritrarsi verso la portiera prima di udire il colpo partire. Le mancò il fiato, iniziò a rantolare: sentiva una lama infuocata bloccata nel fianco poco sotto al giubbotto antiproiettile. Per un attimo i suoi occhi terrorizzati si incrociarono con quelli di Catalano. Erano di spalle, chiusi in una lattina di ferro con un pluriomicida che stava avendo una crisi di nervi: prima di poter anche solo estrarre le pistole, Carsi li avrebbe uccisi.

«Giusy, salta giù!» urlò Catalano togliendo il blocco. Con un attimo estremo di lucidità lei mise la sua mano sulla maniglia e diede una spallata al vetro. Il vicebrigadiere la fissò allucinato sparire nel nulla, quindi frenò pesantemente; l'auto si arrestò d'improvviso eiettando Carsi in avanti che finì contro il cruscotto, picchiò la testa e cadde riverso indietro.

Catalano spalancò la portiera e si gettò fuori, a terra sull'asfalto bagnato e viscido. Senza fiato, col cuore che andava a mille allora, estrasse la pistola e sparò. Il trafficante si sporse verso di lui e fece fuoco. Avvertì il primo peso infrangersi sul giubbotto, il secondo trapassargli il collo. Istintivamente mise le mani a coprire la ferita, sentiva il sangue sgorgare e il respiro corto, rotto, tagliato. Rimase allucinato a guardare quell'uomo scavalcare per mettersi alla guida: col naso rotto, la faccia insanguinata e la camicia sporca. Un grosso rivolo scendeva da sotto il braccio sinistro del vecchio allargandosi a chiazza.

Carsi chiuse la portiera facendola sbattere, abbassò il finestrino e partì a tutto gas con la sirena in funzione. La portiera del passeggero sbattè, ma rimase agganciata. Aveva ancora le manette ai polsi, ma finalmente respirava: scoppiò a ridere come un bambino il giorno di Natale, sguaiatamente, coperto a mala pena da quella sirena. Sentiva la pioggia bagnargli il viso, l'adrenalina pompare nel corpo, gridava come un pazzo ignorando le pesanti ferite e quel lurido liquido porpora che si appiccicava ai vestiti. Odiava l'idea di essere coperto di sangue, specie se era altrui, ma in quel momento era troppo su di giri anche solo per accorgersene.

L'auto impattò una vecchia buca riapertasi nell'asfalto e colma d'acqua, perse aderenza e cominciò a girare su stessa. Fu allora che vide quella giostra, non una qualsiasi, proprio quella famosa che sua madre gli aveva proibito quel giorno a Casalborsetti. Lì nel mezzo della Romea alle 3:40 di notte di un qualsiasi 21 giugno sotto un diluvio la sentiva suonare, mentre tutto girava attorno a lui e gli sembrò di vedersi bambino sbracciarsi per salutare dal cavallo bianco tirando le redini, lui che era cresciuto guardando i film western al televisore e che ora con una nove mm in mano cavalcava un'auto della polizia verso la libertà. Poi vide il tronco di un platano comparire davanti ai fari dell'auto. Non fece nemmeno in tempo a cambiare espressione. Il cofano si accartocciò come una fisarmonica, l'airbag esplose e Carsi sfondò il parabrezza. L'ultimo biglietto di giostra lo pagò con la vita. E non la sua soltanto.

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