Il fante di bastoni

L'acqua livida gorgogliava sotto di lui nera come pece; pareva la notte avesse colorato di petrolio quel fiume che scorreva lento verso il mare. Non soffiava un filo d'aria quella sera. Il vento era cessato all'improvviso e una cappa pesante d'afa aveva preso il suo posto: in casa non riusciva a respirare. Era senza le sue medicine ormai da tre giorni, il sonno era un lontano ricordo. Max sfiorò quel fiume con la delicatezza con cui avrebbe accarezzato la coscia di una signorina. Non aveva mai desiderato le attenzioni di una donna, a parte sua madre, ma la sua terra l'aveva amata e detestata con tutto sé stesso, al pari di una moglie che sei stato costretto a portare all'altare perché nasconde in grembo tuo figlio. Non ami quello che ti ha forzato a fare, la vita che ha scelto per te, ma in cuor tuo detestarla è uguale a strapparti l'anima e allora, col tempo, finisci per affezionarti tanto a lei da non potertene più andare. Il vento, l'afa, le zanzare, la pioggia, l'acqua cheta che scivola tra i canali, lo sciabordio delle barche, l'odore forte del pesce.

Quelle medicine lo facevano respirare, era grato che gliele avessero date, ma da un altro punto di vista, quelle medicine era come se abbassassero il volume. Lui sentiva tutto. Lui sentiva troppo. Da sempre. Quel mondo lo teneva stretto per la gola da tempo. Per un po' era stato rinfrancante smettere di trattenere il fiato, ma quell'intruglio chimico gli aveva portato via la sua anima, la sua disperazione, il suo dolore, ma anche la vita. Che esistenza può essere senza provare nulla? Non puoi sentire la musica se abbassi il volume e lui guardando quel fiume si chiedeva se fosse troppo vecchio per trovare il coraggio di alzare la posta in gioco, ancora una volta, se poteva riprendersi quello che era suo e pareggiare finalmente i conti.

Chiuse gli occhi e si grattò la testa, allontanando le zanzare. Gli pareva quasi di vedersi: un moccioso trascinato sulla sponda opposta di quel fiume, il polso stretto tra le dita della madre, i pantaloncini corti e grigi, quelle barche sporche che lentamente scivolavano avanti e indietro lungo la riva. C'era il luna park quella sera in paese e lui non voleva andare via, non voleva scendere dalle giostre, ma sua madre l'aveva trascinato sulla riva, con le lacrime agli occhi, l'aveva portato fin sulla barca di suo padre: lui era sdraiato in modo scomposto su una panca, immobile, di un colore pallido e violaceo, le vene in rilievo sul volto. Si capiva a fatica se fosse vivo o morto. La madre gli aveva dato un calcio. L'uomo aveva brontolato e grugnito, ma senza svegliarsi. Sua madre aveva gridato, gli aveva sputato addosso e lui niente, incosciente. Quindi la donna gli aveva guardato nelle tasche e aveva contato i pochi spiccioli che aveva trovato.

"Dì grazie a tuo padre! Gli uomini sono la rovina del mondo... " aveva stabilito granitica nel suo dialetto strascicato e li aveva trascinati, lui e il fratello, che teneva in braccio, dritti verso casa senza dire una sola parola.

Tornato in camera sua era rimasto a guardare le luci della ruota panoramica che girava nella notte e ad ascoltare il vociare lontano. Si era detto che quando sarebbe stato un uomo avrebbe fatto in modo che nessuno potesse mai dirgli quando era ora di scendere dalla giostra. Né sua madre, né suo padre. Né un brigadiere. Studiò tra le mani unte la pistola fredda al tatto. Si slacciò gli ultimi bottoni della camicia a quadri e inspirò profondamente. Vedeva ancora gli occhi di quella vecchia davanti a lui, allucinati, terrorizzati, ma decisi, come quelli di sua madre. Alla fine, aveva vinto lei: perché si era portata nella tomba il suo grande segreto. Chi aveva svuotato il pollaio? Chi aveva preso la loro droga?

Non era ancora pronto a scendere, questa volta. Si alzò spostando il peso sulla gamba sana e appoggiando per ultimo il piede dell'arto dolorante. Sbattè sull'asfalto i mocassini consumati e lisi. Si tolse la polvere dei pantaloni e guardò dritta negli occhi un'auto che stava arrivando a tutta velocità sullo stradone. Allora ebbe l'idea. Pensavano di aver vinto? Non erano nemmeno a metà della partita. Questa era la sua mano ed era pronto a calare il fante di bastoni. Aprì il cancello e raggiunse Bunga che si era addormentato sul divano in salotto. Lo scosse fino a svegliarlo.

«Prendi le chiavi del camioncino e portalo fuori, seguimi»

«Dove andiamo, Max?» chiese Bunga stupito. Era diversi giorni che Carsi parlava a mala pena. Bunga era preoccupato: aveva anche pensato di darsela a gambe, ma la verità era che aveva paura di lui. Era meglio non farlo irritare, specie ora che aveva finito le medicine. «Prendi le buste. Le consegniamo questa sera.» disse l'uomo senza il minimo tentennamento.

Bunga venne percorso da un brivido: aveva un che di definitivo e incontrovertibile quell'affermazione. Gli porse la sua busta senza proferire parola. Carsi l'afferrò, guardò all'interno per un attimo e poi gliela ridiede indietro. Infine, prese le chiavi dell'auto sportiva, un altro caricatore della pistola e aprì il garage che gemette cigolando.

Bunga rimpianse di non avere a sua volta una rivoltella, ma Carsi non aveva mai voluto che fossero armati, né lui, né l'albanese. In effetti, erano passati indenni almeno a un paio di controlli. Tutto poteva dire di lui, meno che sapesse quello che stava facendo: ora doveva solo fidarsi e sperare di non finire morto ammazzato. Puntarono dritti verso la Romea e seguirono la strada fino a Lido degli Estensi. Carsi fermò l'auto coi P-zero rosso davanti alla posta deserta e ordinò a Bunga di scendere e spedire le lettere; quindi, pigiò sull'acceleratore e sparirono nella notte lasciandosi il mare alle spalle in direzione Ferrara.

Carsi non aveva mai guidato prima di allora. I medicinali gli annebbiavano la vista, ma ora doveva vederci piuttosto bene perché filava come un razzo facendo stridere gli pneumatici nuovi di zecca. Lasciarono la super strada seguendo il fiume; l'auto sembrava un faro nella notte, come un fulmine lanciato verso terra. Percorsero via Ravenna fino alla rotonda e poi Carsi svoltò a destra deciso, senza nemmeno mettere la freccia. Bunga non aveva la più pallida idea su dove fosse diretto con tanta foga. L'orologio nell'abitacolo segnava l'1:30.

Carsi rallentò. Passò davanti a una chiesa moderna dai colori vivaci, lanciò un bacio al cielo e accelerò di nuovo. Pochi minuti dopo svoltò lentamente a sinistra in una laterale puntando dritto all'insegna azzurra che illuminava incerta un cortile: Autocarrozzeria Fanti.

Bunga parcheggiò il camioncino più avanti lungo la via. Carsi invece lasciò la berlina davanti al cancello, scese mettendosi i guanti, estrasse un coltellino e cominciò ad armeggiare con il pesante lucchetto. Quindi prese la pistola e diede un colpo forte e atono che si perse sordo nella notte. La catena cadde a terra.

«Aspettami qui fuori, al coperto, luci spente, se mi servi, ti chiamo al telefono.»

Bunga annuì contento di rimanere al sicuro nel suo mezzo. Non avendo visto, non doveva mentire. Non voleva affatto sapere cosa Carsi avesse in testa, non quella sera.

Carsi costeggiò l'edificio e si inoltrò su per una scala laterale. Arrivato al campanello studiò il nome inciso e sorrise: Giorgio Fanti. Aveva venduto la catapecchia della nonna ad un Golf Club e aveva aperto l'auto carrozzeria, ma a lui e a Vitaliano quell'affare puzzava lontano un miglio. Non gli ci volle molto a far scattare la serratura. Giù nell'officina c'era un impianto d'allarme da migliaia di euro, ma lì sopra nulla, ovvio! Per quei quattro mobili che quel saltimbanco teneva in casa. Entrò attento a non toccare alcun oggetto, muovendosi nell'oscurità su quelle mattonelle lisce e scivolose. Sentiva un rumore ovattato provenire dalla camera da letto. Si intrufolò. La porta cigolò dietro di lui. Si bloccò respirando a stento. Sentiva l'orologio del salotto ticchettare con regolarità; il suo cuore andava alla stessa velocità. Tac-tac-tac.

Giorgio Fanti russava a bocca aperta addormentato a letto davanti ad un televisore che sarà stato almeno un cinquanta pollici. Quel bastardo! Carsi pensò che fosse invecchiato e ingrassato da quando l'aveva visto al processo. Forse era quell'orribile canottiera sporca di unto. Odiava le macchie, fin da ragazzo, in questo aveva preso da sua madre; eppure, la vita l'aveva costretto a sporcarsi, giorno dopo giorno, senza potersi mai più ripulire del tutto. E quello che gli faceva più senso era il sangue, perché si attaccava alla pelle più dell'unto o del grasso. Allontanò il pensiero.

Estrasse dalla tasca un fazzoletto, lo conficcò nella bocca aperta di quell'uomo; quindi, gli diede un colpo alla pancia col calcio dalla pistola. Il carrozziere cominciò a tossire e sbatté gli occhi alla luce soffusa del televisore che cambiava continuamente colore. Protestò e fece per alzarsi, ma Carsi gli puntò l'arma dritta in faccia e godette nel vedere il terrore dipinto nei suoi occhi. Mugugnava disperato scuotendo la testa: vile, come era sempre stato. Strappò il filo della lampada e gli legò le mani sul davanti.

«Alzati e non fiatare, ho una macchina che ha bisogno della tua attenzione» Lo spinse in salotto e poi giù dalle scale verso il cortile.

Fanti rimase stupito davanti alla berlina e lo guardò perplesso.

«Portala dentro» Carsi gli lanciò le chiavi.

L'uomo mugugnò sorpreso.

«Togli quel fazzoletto, non si capisce un cazzo di quello che dici!»

Il carrozziere, visibilmente sollevato, digitò la combinazione disattivando l'allarme e aprendo faticosamente il portellone dell'officina, legato com'era. Quindi gettò a terra il fazzoletto e tornò al veicolo. Lo guidò all'interno; stava per scendere, ma il trafficante Lo costrinse a non muoversi. Entrò e chiuse il portellone dell'officina dietro di lui.

«Bella macchina! Dove l'hai rubata?» Fanti tentava di capire, guardando lo specchietto, cosa cercasse quel vecchio pelato nei suoi tavoli di lavoro di cui era così geloso.

«Non sono fatti tuoi» tagliò Carsi. Era come se ancora non l'avesse riconosciuto e il pensiero un po' lo irritava. Pensare che quella donna si era fatta ammazzare per un invertebrato del genere!

Trovò un nastro da imballaggio e una corda. Si avvicinò all'auto, aprì la portiera e diede un colpo deciso dietro la nuca al carrozziere che si accasciò scomposto. Assicurò col nastro la testa al sedile e le mani al volante e sorrise soddisfatto. Quindi tornò ai tavoli afferrò un paio di pinze e una batteria. Era un negozio di caramelle quel posto! Vitaliano sarebbe stato fiero di lui. Si sarebbe morso la lingua per non portar partecipare. Carsi lanciò gli attrezzi sul sedile posteriore, fermò l'auto coi pesi perché non si muovesse e cosparse il cofano con la benzina. Non ce n'era molta nella tanica, ma sarebbe bastata al suo scopo. Infine, salì in auto, prese la batteria e infilò i due elettrodi per un attimo ai lati del collo taurino del carrozziere che rinvenne lanciando un grido.

«Ben svegliato, prima di mandarti a fare un pisolino come si deve io e te dobbiamo parlare» sibilò Carsi sporgendosi dal sedile di dietro. Quindi prese la corda ed iniziò a premerla contro la giugulare. Il meccanico cercava disperatamente di liberarsi, aveva le lacrime agli occhi dalla paura. Dall'odore disgustoso Carsi immaginò si fosse pisciato sotto.

«Adesso ti ricordi di me?»

L'uomo annuì. Forse mentiva ed era solo troppo spaventato.

«Bene, allora dov'è la mia droga? Nostra...» si corresse pensando all'amico in carcere.

«Fottiti!»

«Ottimo, aspettavo che lo dicessi. Non vedevo l'ora!» Prese le pinze e strinse il lobo dell'orecchio. Il prigioniero cacciò un urlo isterico.

«Riproviamo, dov'è la mia droga? L'hai venduta?»

«No, no, no. Ci ho provato, ma nessuno me ne prendeva mai più di qualche busta.»

«E allora come ti sei comprato questo po' po' di roba vedendo la casa della nonnina?»

«Ho fatto un mutuo, cazzo!» giurò il carrozziere sputacchiando.

«Temo che non finirai mai di pagarlo se non mi dici ora dove sta la droga.»

Il meccanico scoppiò in lacrime. Carsi riprese la corda e la tirò contro il collo dell'uomo iniziando a tirare. Tossiva disperato tentando di respirare.

«Sai cosa si prova a morire soffocati? La gola che brucia, la vista che traballa, il dolore pungente al collo come se ti perforasse un ago, la fame di ossigeno. La chiamano proprio fame. È un bisogno fisiologico. Naturale e totalizzante.»

«Aspetta» sussurrò l'altro col fiato che gli rimaneva.

«Sono tutt'orecchi» sorrise Carsi attenuando la presa.

«Il deposito delle gomme! Si accede dal retro del capannone. Liberami e te lo mostro.»

«Quanta ne è rimasta?»

«Non lo so, non l'ho mia contata, l'ho nascosta e basta.»

Carsi sospirò: a volte il destino era proprio ingiusto. Regalare cinquanta chili di cocaina a un imbecille svuota cantine.

«Se l'hai tenuta male, giuro che ti ammazzo.» Carsi estrasse il telefono.

Bunga rispose al primo squillo.

«Sul retro nel deposito di gomme, porta il camioncino vicino, quando hai finito richiama» Carsi quindi si mise comodo sul sedile posteriore incrociando le braccia dietro la testa.

«Pensare che la tua nonnina si è fatta ammazzare per non dirmi che eri stato tu. E questa è la soddisfazione?»

«Io sono sempre stato una persona onesta.»

«Una persona onesta trova cinquanta chili di roba in un pollaio e chiama la polizia» disse adirato Carsi lanciandogli addosso le pinze. «Una persona onesta salva la nonna, la porta lontano da quel pollaio, non la lascia sola in casa sua quando sa che due trafficanti di droga lo stanno cercando. Una persona onesta non tiene cocaina in mezzo agli pneumatici da neve e ai quattro stagioni!» Era talmente disgustato da quell'uomo, dal suo odore putrido, dalla sua paura e dalla sua pochezza. «Il mio mestiere bisogna saperlo fare, non si improvvisa. Io sono forse venuto qui a mettermi in concorrenza con te senza nemmeno chiedere? Io non sono un carrozziere e tu non sei un trafficante. Se giochi ad essere chi non sei, caro Fanti, poi finisce male. Per la nonnina in primis e poi anche per te.»

Il telefono trillò: era un messaggio di Bunga. C'era un selfie del nigeriano con la roba in mano e un gran sorriso. Carsi sospettava veramente che gli africani avessero qualche dente in più degli occidentali. Sbuffò scontroso.

"I sacchi sono chiusi?" scrisse solo in ansia. L'africano confermò.

Carsi tirò un sospiro di sollievo: la prima buona notizia! «Scommetto che a tua nonna mica gliel'avevi detto cosa hai trovato nel pollaio!»

«Tu non sai com'è essere nato in questo posto orribile» brontolò Fanti.

«E dove pensi che sia sbucato io? Nemmeno una casa aveva mia madre sulla testa, mi ha partorito su una barca attraccata al porto.»

«Romantico!» Fanti si lasciò scappare un sorriso sornione, per un attimo.

«Di un'altra parola su mia madre e sei morto!» scattò il trafficante stringendogli la corda sul collo.

«No ... ehi... no.... fermo... ti prego!»

Carsi infine lasciò la presa. Scese e rimontò sedendosi a fianco del meccanico, accese la vettura, mise in folle ed alzò la radio al massimo volume.

«Sei pazzo, a quest'ora della notte ti sentiranno tutti!» urlò il carrozziere.

Carsi si mise solo a ridere e poi si fermò a fissare il vuoto, davanti a lui. Gli sembrava quasi di vederla quella giostra che girava coi cavalli bianchi al luna park e quelle luci che volteggiavano nella notte, la musica allegra. Sapeva che era un'allucinazione dovuta all'astinenza dai farmaci, eppure non voleva fermarla perché era proprio così che si sentiva: felice come un bambino, davanti a quella giostra e ora aveva il biglietto in mano per risalire in pista, alla faccia del brigadiere Lanciani.

"Finito, sono qui fuori" messaggiò Bunga.

«Bene, il nostro tempo è concluso, ti posso dire che senz'altro il piacere è stato tutto mio. Salutami tua nonna quando la vedi» aggiunse uscendo dall'auto.

Fanti gridava contro di lui, lo minacciava di chiamare i carabinieri, di fargliela pagare. «Marcirai all'inferno!» Era tutto sudato e rosso in volto.

Carsi con una freddezza assoluta fischiettando si diresse verso la porta: era a qualche metro da essa quando estrasse l'accendino e lo lanciò contro l'auto. Si sentì un botto e poi una serie di urla straziate del carrozziere legato ancora al sedile dell'auto e coperto ormai dalle fiamme. Dalla morte di sua nonna aveva imparato la lezione: è più facile uccidere qualcuno senza mettergli le mani addosso o guardarlo dritto negli occhi mentre esala l'ultimo alito di vita. Montò sul camioncino fischiettando e si voltò a guardare quei sacchetti ben ordinati e impilati come piaceva a lui.

«La berlina?» chiese solo Bunga.

«All'inferno, parti!»

Bunga rimase perplesso per un istante e poi la porta del garage esplose cadendo a terra e rivelando un profondo fumo nero. Accelerò prendendo la strada a tutta velocità. Carsi gli mise una mano sulla gamba.

«Tranquillo, Bunga, respira: non ci sono impronte o segni di pneumatici. Nessuna telecamera e l'allarme l'ha tolto lui con le sue manine d'oro e non ho dovuto sparare un solo colpo, la pistola aveva ancora la sicura. Prima che arrivino a noi saremo in un paradiso tropicale. Ora mettiti a fare i cinquanta e punta verso i lidi, ma niente stradone.»

Bunga inspirò, rallentò e si voltò a guardarlo sconvolto. Non aveva mai visto nei suoi occhi quella luce diabolica. Chi era davvero quell'uomo?

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