8. Vuoto
Voce narrante
Una musica dolce come non ne avevo mai intese, triste e nostalgica, mi trasportò lontano nel tempo e nello spazio.
La nostra cucina era arredata con mobili chiari, moderni. Alla finestra, una tenda di pizzo bianco, scostata dal vetro, lasciava entrare la fulgida luce del sole alto in un cielo orfano di nubi. Mia madre, in bermuda tigrati e grembiule albicocca, cospargeva di vanillina una crostata di mele golden; rideva rivolta all'uomo che aveva sposato per amore. Lui, fasciato sui fianchi da un telo bianco, bisbigliò qualcosa e la baciò con labbra imperlate di succo d'acero. Non udii il suono squillante della risata di lei, né le frasi di mio padre. Mi ammaliava la vista di un quadretto gioioso diluito da lente, calde lacrime: le mie.
Esse mi riportarono indietro, di fronte a cespugli stecchiti che mal celavano una capanna di bambù. Forse da lì giungevano le sublimi note; volteggiavano nell'aria insieme a chicchi di grandine e si posavano sui rami secchi e gli spuntoni, avvolgendomi in un bozzolo di innaturale serenità. Poi, di colpo cessarono.
Un lampo. Un boato. Anatre in volo. L'urlo di una donna.
Tra grappoli di rimessiticci, due gocce di mare mi fissavano; uno sguardo magnetico, che conoscevo... o ri⁃conoscevo: gli occhi di Jurig.
Disserrai i miei. Dalla finestra della mia camera vidi la densa luce del mattino, quando il sole sta per uscire dal suo ricovero ed è ancora un po' assonnato. Quel che avevo vissuto qualche istante prima era solo un sogno, ma tanto vero che sarebbe potuto essere un ricordo.
Avevo un debito: tale è una promessa per il Galateo di un Persona Ammodo, ancor più se costei è un Servitore della Legge. L'ultimo legaccio che mi unisse a Jurig; avrei espletato quel barboso incarico e mi sarei sbarazzato di lui.
Con questi pensieri mi accinsi a iniziare la mia giornata lavorativa, una delle ultime nella Consociazione fondata con Amixandro; nessuno mai mi aveva squartato quanto lui. Mi catapultai sotto la cascata domestica per levare l'aspro che mi era restato addosso; quello che avevo in bocca, non se n'è ancora andato.
Immagini in movimento
L'uomo chiamato Felìpen si lava, veste e nutre. Esce di casa. Prende il veicolo. Percorre una tangenziale dal traffico congestionato Si ferma di lato a un palazzo in vetro e ghisa e lascia il veicolo in un parcheggio a pagamento. Si introduce a grandi passi nel portone aperto e a grandi passi ne viene fuori. Correndo, entra nella porta girevole di un grattacielo grigio, per uscirne poco dopo. Lo stesso fa per altre sette volte; ogni palazzo è uguale all'altro, ogni grattacielo spiccicato ai suoi gemelli. Il sole completa il suo viaggio senza che l'uomo abbia ingerito cibo o acqua. Con gli abiti in disordine torna nel suo ufficio; si siede, alza lo sguardo: di fronte a lui, l'uomo chiamato Amixandro lo fissa come se fosse un extra-mondestre.
Voce narrante
Come se tutto il sangue fosse affluito alle guance, alla fronte, al mento e al collo, Amixandro aveva le labbra sfigurate da Vituperio, il volto rubro e le punte delle orecchie e del naso grigiastre. Gli occhi erano piccole fessure da cui trapelava ben poco della sua intelligenza e dell'attitudine ad ammansire le emozioni, insita in lui quale dote congenita. Riconobbi, nel foglio scagliato come un'accusa sulla mia scrivania, la lettera da me redatta la sera antecedente.
«Non puoi farmi questo.»
«Sì che po-sso». Scandii le sillabe, affinché non restassero impastate con la lingua. «In ba-se all'arti⁃co⁃lo cento⁃»
«Diciannove. Lo conosco quanto te; questo, sai, e che siamo l'eccellenza della Giurisprudenza; tu e io, sullo stesso livello, senza eguali. Non potrei trovare altro socio della tua levatura, né tu potresti trovarne al par mio. È un dato di fatto, certificato da fatti e dati ufficiali.»
Gli permisi lo sfogo, il mio sguardo sul suo. Si cerziorò, nel verbalizzarlo, di ciò che stava rischiando: il suo precipuo punto di riferimento; spasmi gli sequestrarono deltoidi, bicipiti e tricipiti. Non potei gioirne; stavo perdendo molto anche io, ma non sarei ritornato sui miei passi.
"Che gli serva da lezione", pensai, mentre sillogizzava sul perché non avrei dovuto scindermi da lui.
Mi si rivorticò lo stomaco, all'udire l'ultimo asserto, derivante da una mente calcolatrice come da un cuore contrito:
«Ho Fede solo in te».
La mia lingua rispose di getto:
«Tanto, hai fede in me, da non gradire che frequenti tuo fratello. Ti faccio ribrezzo, hai detto».
«Non lo penso sul serio.»
«Sostantivi, aggettivi, avverbi, hanno una caratura; ce lo insegnarono il primo giorno di scuola. Per ciò la dizione vi pone enfasi se essi identificano quel che fa grippare gli addominali, sudare freddo, deglutire il niente di una gola secca.»
«Ero in Trepidazione per Jurig. Ci sono fatti che non sai, che non sa: se ne guasterebbe oltre modo. Fel, tu sei fuoco, lui è vento. Può soffiare su di te per spegnerti o incendiarti; puoi farlo sobbollire di Rabbia contro se stesso. Non si può controllare né difendere.»
«Lo conosci molto meno degli articoli di Legge. È più forte di quanto tu e la tua famiglia crediate; siete voi a renderlo fragile. Comunque, problema risolto: con lui ho chiuso.»
«Ecco perché non mangia, non esce dalla sua stanza e non ci parla. Che gli hai detto?»
«Nulla. Ne siete usciti puliti. Ho deciso io; me ne sono assunto piena Responsabilità, impersonando il mio personaggio: gli ho spezzato il cuore. Ora vattene e non entrare mai più qui senza il mio permesso. Entro il cadere delle foglie recederò dalle mie tutele; sparirò dalla tua vista e spero tu faccia altrettanto.»
Il mio tono sprezzante avrebbe segato anche il cordone più nerboruto. Il nostro lo era; stavamo per recidere molto di più di un sodalizio economico. Non ricordavo giorno in cui non fossimo stati uniti; era raro che due Figli degli Elementi appaiati in puerizia arrivassero a voltarsi le spalle.
Amixandro prese la mia lettera, mi rivolse un ultimo sguardo di Panico e si voltò per andarsene. Ristetti fermo e composto sulla sedia, i muscoli del viso tirati a nascondere qualsiasi emozione.
Immagini in movimento
L'uomo chiamato Amixandro e l'uomo chiamato Felìpen si guardano come due alleati che si fossero traditi a vicenda.
Il primo lascia la stanza. Il secondo resta seduto alla scrivania, davanti a un foglio pieno di appunti e tabelle. Sulle sue gote, goccioline salate si accalcano l'una sull'altra, confluiscono in rivoli zigzaganti, sfociano intra labbra schiuse; il diaframma si alza e abbassa per una dozzina di volte. Dopo un respiro più marcato, prende il foglio; con l'indice della mano sinistra segue quanto vi è scritto. Poi scatta in piedi, ripiega il foglio, lo mette nella tasca dei pantaloni dritti neri che indossa sotto una blusa bordò, afferra il giubbotto color ardesia dall'attaccapanni e corre a prendere il veicolo.
Voce narrante
Il Palazzo della Magistratura, le Carceri Cittadine, la Casa delle Truppe Unite per l'Ordine Sociale: questi, alcuni dei luoghi in cui mi ero recato a chieder notizie dei tre rubatori, con le donne e la bambina.
Al primo, non erano pervenuti documenti inerenti. Nella seconda non ve ne erano note nelle liste degli ingressi e delle uscite. Nella terza non riuscii a entrare; mi risposero solo, tra motti canzonatori, che chiunque fosse in servizio tra quelle mura non aveva altro da fare che girarsi i pollici da più di mezza stagione. Sui sei nemmeno una postilla.
Mi diressi alla Torre dei Notiziari. Tirai su il cappuccio e varcai la soglia. Salii al piano in cui si vagliano le Novità da far passare dalla scatola parlante. Il Direttore era mio amico. Bussai alla sua porta. Venne ad aprirmi di persona e mi accolse con ilarità.
«Vecchio mio! Tu qui?»
«Ho da chiederti⁃»
«Quel che so, è di pubblico dominio. Entra, ti offro un cicchetto di grappa all'arancia spumeggiante; la produce mia moglie, una vera bontà.»
Disquisimmo di distillati e manicaretti, e degli ultimi Sogni da Proiettare griffati dall'Azienda di mio padre. Satollo di discorsi di cortesia, gli posi la questione per cui ero lì con lui anziché a curare i miei affari.
«La notizia dei rubatori ammanettati, non ha avuto eco.»
«Non so di che parli.»
La cordialità si eclissò dal volto del mio amico, il quale, al sovvenire di un impegno impellente, mi chiese di alzare i tacchi e sloggiare. Non mi restava altro da fare che contattare il mio informatore. Dal mio veicolo, fermo al parcheggio, tentai più volte la connessione; a vuoto, come le mie ricerche, come quello lasciato da Jurig, e da Amixandro.
Una pioggerellina fina e fastidiosa mi costrinse ad attivare il tergilunotto. Fu così che mi accorsi del post-it in esso impigliato e non tanto annacquato, su cui era scritto: "Stai porgendo troppi interrogativi", intimidazione che avevo già letto, non ricordavo dove o quando. Mi pietrificai. L'ambascia non era per me, ma per i miei cari.
Mia madre è morta, lo so, ma il come è un tabù, tra me e mio padre. Serpeggiò nei vicoli più reconditi della mia mente una strana associazione tra queste due evenienze.
Smisi di occuparmi di gente della quale non mi sarebbe interessato un granché, se non fosse stato per Jurig. "Ci ho provato", giustificai me stesso. Tornai alla mia routine; agli editti e alle scartoffie, all'igiene della casa e ai miei hobby, ma non ai diletti della carne né a bere nei locali serali.
La natura si risvegliò e da Rixid non giunse contatto. Solitudine fu più tenebrosa di un pozzo senza fondo. Trascorsi gli ultimi giorni di lavoro a braccetto con Umore Nero.
Una sera in cui Angoscia era più inghirlandata, la sua richiesta arrivò:
«Per la stagione che sta per principiare, saremo io e te alla villa dei nostri nonni. Ti attendo».
«Verrò, per necessità di ricreazione e iodio. Per un breve soggiorno; non è mio Volere che tu rinunci ai tuoi amici.»
«Il mio Volere è non rinunciare a te. Essi mi hanno nelle altre stagioni.»
Così, eccomi qua, dopo la Stagione Calda più calda e uggiosa. Ho camminato qui e qua per la battigia; ho nuotato in lì e in là tra le scogliere e la spiaggia; ho bevuto frappé davanti a un falò da cui si allungavano l'ombra mia e quella di Rixid.
Speravo di scordare, accettare, digerire. Era sempre stato così. Avevo custodito i colori più belli di qualsiasi relazione, senza rimorsi né rimpianti. Ma quella con Jurig non era una relazione qualsiasi; non era neanche una relazione vera e propria. Era un Desiderio realizzato a metà; un quadro d'autore rimasto incompiuto; un'esclamazione inascoltata; un porto sicuro avvistato con il cannocchiale, da una nave sballottata al largo dalle onde di un mare in tempesta. Perso in abissi notturni, più volte ho sperato di colare a picco, per non dover più ascoltare la sirena che grida il suo nome.
♥♥♥
Spazio autrice&lettori
In seguito alle vostre osservazioni, ho tolto alcune ripetizioni nella parte in cui Fel visita, correndo, molti palazzi, da cui esce senza nulla di fatto. Spero di essere riuscita lo stesso a trasmettere il senso di ripetitività dell'azione.
Nella prima stesura questo sarebbe dovuto essere il capitolo finale della prima parte; ce ne sarà ancora uno, breve, per "chiudere il cerchio".
Vi ringrazio per essere giunti fin qui e per tutte le osservazioni, domande, critiche che vorrete continuare a lasciarmi!
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