7. Rose rosse
Voce narrante
"Petali en velour carminio e laceranti aculei ramati: anelati diademi dell'amor", declamava, a ragion veduta, il Primiero Cantore del Romantico Novo Stile, tanto caro al caro mio.
Richiese assestamento di abitudini e caratteri, l'abitare con Jurig; e un imparare a stare insieme, per saper stare separati.
Gli alberi persero le foglie, e il cielo gli storni, in migrazione verso il mare; le giornate si fecero pungenti e funeree; al terzo plenilunio della Vera Luna non ci eravamo ancora scannati.
Lui si affaccendò per evadere le ordinazioni di cambio stagione. Io decisi che fosse ora di contabilizzare le ultime parcelle e archiviarne il relativo Diario di Controversia. Col principiare dell'imminente Stagione Fredda, avrei potuto fondare un'Azienda in Solitaria, anche se non avevo idea di come fare: per la nostra, se l'era sbrogliata Amixandro, a cui mai e poi mai avrei chiesto consultazione.
Stavo cenando da solo per l'ennesima cena, e per l'ennesima notte avrei dormito da solo.
Contattai Jurig scongiurando la Buona Sorte di beccarlo in un attimo di stasi. Anche gli altri condomini erano avvezzi alle sue stridule rimostranze qualora osassi farmi diga nella dirompenza del suo flusso creativo, e non chiedevano più se fosse il caso di chiamare i Neuro Curatori.
Accettò il contatto. Non approfittai del momento propizio, fui conciso:
«Domattina esco. Torno in ufficio a depennare deleghe e prendere carabattole».
Non mi aspettavo una risposta complessa; nemmeno il silenzio che seguì: Jurig chiuse il contatto e io ristetti con la forchetta a mezz'aria a reiterarmi che anche questo era parte di lui, il rovo che mi stavo impratichendo a maneggiare per poter aspirare fragranze estasianti.
Ebbi il sentore che non fosse finita lì.
«Me tapino, me tapino, me tapino!»
Stavo addentando un panzerotto ricotta e spinaci; dal piano di sopra, la sua voce si approssimava; mi predisposi a una sfuriata epocale.
Davanti a me si palesò un tornado di ossa, carne e pelle con gli occhi chiusi.
Come avevamo ratificato per le emergenze, lo irretii in un sacco in fibra ignifuga, lo legai con una fune a doppio intreccio e lo bloccai contro il muro acciocché non si ferisse; lo stesso avrebbe fatto lui, se avessi preso fuoco.
Si placò, per blaterare:
«So che non dovevo. So che non dovevo. So che non dovevo».
La lagna per mettersi sulla difensiva non aveva più efficacia. Non eravamo padre e figlio, patrizio e schiavo, marito e moglie delle famiglie più arcaiche. Avevamo stessi diritti e doveri, capacità decisionali e responsabilità.
«Falla finita con questa sceneggiata e dimmi che hai fatto.»
«No fatto. Detto. Mi sfratterai?»
«Dipende. A chi?»
«Amix.»
Allentai la presa. Il mio fiuto si fidava del mio ex amico.
«Cosa?»
«Del tuo sangue.»
L'avrei sberleggiato. Assillato dal non dire, era andato a spifferare i capperi miei, i più intimi, i più delicati.
Lo sentii dimenarsi sotto le mie dita. Lo strinsi forte a me.
«Calmati. Ormai è fatta.»
«Mi tartassava, diceva che per te sono solo un giocattolo. Che ti stancherai e mi rottamerai. Come tutti gli altri.»
Il reticolo davanti alla bocca attenuava il suono delle sue discolpazioni.
«Sei arrabbiato?»
No; ero deluso, da Amixandro.
«Vai avanti.»
«Gli ho risposto:"Sono stati loro a rottamare lui. Li amava, e ama me", ma lui perseverava:" Sei condiscendente con un estraneo e non dai retta a tuo fratello?" Io. Non. Non respiro con questo sacco.»
Sciolsi la fune e allargai il tessuto davanti al suo viso.
«Va meglio?»
«Sì. Tu, non sento calore, come stai?»
«Riesco a mantenere Controllo, se non ti agiti.»
Prese due boccate d'aria; lo toccai sulla nuca per rassicurarlo.
«Gli ho detto che credo in te perché credi in me. Che hai il sangue contaminato e per ciò se ne sono andati, ma hai chiesto loro il favore di tacere. Ti amavano davvero, se lo hanno fatto.»
Gli tolsi il sacco e accostai la sua fronte al mio petto.
«Deve essere mia Decisione di dirlo e a chi. La prossima volta potrei non essere così clemente, ma non ci sarà una prossima volta, vero?»
Gli alzai il mento per indurlo a guardarmi. Annuì.
«In questo caso specifico, mi hai tolto una bega. Da ora in poi ba-sta fingere di essere quello che non sono, o di non essere quello che sono. Non andremo ad affiggere i manifesti nelle Pubbliche Bacheche, ma se qualcuno ti provoca e mi calunnia, ti sono grato se controbatti. Mi rincresce per il tuo alterco con Amixandro. Vi siete riappacificati?»
«Mai, se non avvalla la nostra Unione.»
«Ritiene di fare il tuo bene.»
«Lo difendi, anche?»
«So com'è.»
«Lui, invece, sa molto poco di te.»
Lo staccai da me e gli posai un lieve bacio sulla fronte.
«Vuoi mangiare?»
«Sì, stavo per fare un break.»
Jurig non venne a letto, dopo aver cenato. Non vide le lacrime che aveva estorto il giudizio di Amixandro, il mio compagno, il mio massimo amico, il mio socio; suo fratello.
"Estraneo".
L'attributo mi si sfracellava sui timpani, Moscerino di Laguna ammattito.
"Forestiero, alieno, con cui non si ha alcun rapporto".
Estranei io e lui, culo e camicia, pane e cacio, pappa e ciccia da più di un quarto di secolo?
O estraneo io per Jurig, che mi frequentava, tra alti e bassi, da più di cinque stagioni, mi aveva visto truccato e svestito, sveglio e addormentato, eccitato e furente, stanco e rinvigorito, e usava la cascata domestica mentre, nella stessa stanza da bagno, evacuavo sozzure?
Non sognai, perché non presi sonno. Al mattino mi lavai con acqua fredda, stesi sulle occhiaie una pomata al cetriolo, misi i miei panni più pregiati e, con i capelli sciolti e il petto in fuori, affrontai quello che credevo sarebbe stato il mio ultimo ingresso nella sede della Jay&Biri Corporation.
Dalla finestra che dava sulla strada, filtravano i raggi di un sole nascente. Stavo in piedi, chino su alcuni faldoni da vidimare. Amixandro bussò alla mia porta e fece irruzione. Con la barba curata e capelli pettinati alla Rodolph Valent Ino, nella toga da Patrocinatore in Servizio, pareva in procinto di pronunciare un'arringa; l'atteggiamento con cui mi si parò davanti, sbattendo i palmi delle mani sulla scrivania, era più consono alla formulazione di un'accusa.
«Guardami, Felìpen, e rispondi: sei sincero?»
Finsi di spulciare un incartamento avvizzito.
«Sai che lo sono.»
«Non hai detto il vero. A me oppure a Jurig.»
«Avrei amputato la lingua, per non dirgli il falso.»
«Guardami negli occhi, Fel! Sono il tuo massimo amico! Perché non ti sei confidato con me?»
«Hai dato per assodato che fossi il cinico Spezza Cuori di cui tanto si bagolava. Non me ne hai chiesto conto, guardando nei miei occhi, e ora io dovrei guardare nei tuoi? Per trovare? Raccapriccio?»
«Sei piccato per l'ignobile sostantivo eruttato dalle mie fauci. Mi avevi amareggiato.»
«Mai quanto tu a me. Non siamo più amici.»
«Per Convenzione siamo tuttora abbinati. Possiamo conversare civilmente o preferisci il Ricorso a un Conciliatore?»
«Che vuoi?»
«Il mio amico, e il mio socio.»
«Non so chi siano.»
«Felìpen, ti prego. Ti sto domandando perdono. Devo genuflettermi?»
Mi buttai esausto sulla mia poltroncina girevole e la feci roteare di qua e di là.
«Non ostacolarmi con Jurig.»
«Mai più.»
«Lo chiederò in sposo. Fai sì che tuo padre sottoscriva il Beneplacito.»
«Arriveresti a tanto?»
«Tra gli svantaggi di stare con un declassato, un vantaggio: la mia casa sarà la sua casa, e ciò vale per la mia quota della nostra Consociazione, dalla cancelleria agli immobili, dai proventi ai Bonus di Governo, da⁃»
«Sì, sì, occhei!»
«Resto e ti perdono. Lo faccio per lui: che siano suoi i miei averi; che non abbia attriti con suo fratello. Se dovesse capitarmi una disgrazia, almeno...»
«Cosa temi?»
«Mia madre è stata uccisa e io colleziono messaggi minatori. Prima che tu me lo chieda: Jurig sa. Siediti, ti spiego.»
Astio fu debellato dall'affetto fraterno mai del tutto svampato. Amixandro non era solo tutto quel che era stato per me, ma anche quel che era stato per l'uomo che amavo. Questo armistizio lo dovevo a me e lo dovevo a Jurig. Il nostro amore non poteva essere semenzato nella ruggine. Il nostro matrimonio sarebbe stato celebrato sotto i migliori auspici, tra spine e corolle di velluto.
Panoramica
Posto a semicerchio, un roseto racchiude un piccolo anfiteatro. I fiori hanno i calici offerti al cielo sereno.
L'uomo chiamato Jurig è in piedi al centro dell'arena, con le mani giunte davanti al viso, le orecchie fucsia e gli occhi arzilli. Inginocchiato ai suoi piedi, l'uomo chiamato Felìpen gli porge una scatola blu contenente un cerchietto di platino in cui sta incastonato un diamante dalla fattezza di un chicco di riso.
Dietro il roseto: un piazzale con tre veicoli parcheggiati all'ombra di alberi a chioma larga. Oltre gli alberi: un casolare a due piani. Al secondo piano: una finestra; dietro al vetro: Amixandro osserva la coppia, sorride.
Voce narrante
La natura si risvegliò in tutta la sua effervescenza. Io e Jurig fummo ospiti nella casa di campagna della sua famiglia. Ne conoscevo ogni stanza e ogni mobile; avevo corso per gli anditi, gareggiato nella sala dello sport e osservato il trasformismo delle nuvole dalla vetrata al pianterreno. Eppure feci il mio ingresso come se fosse la prima volta, a passi misurati. La mamma di Jurig mi abbracciò e tutto tornò come quando ero bambino, con Amixandro dalla mia parte del biliardino, lo scorbutico Braul che vantava gol e parate senza abbisognare di un compagno, e Nicol! Levissima, Nicol, all'ottavo quarto di Vera Luna della sua seconda gravidanza! Il loro padre mi diede una pacca sulla spalla; il mio, sbucato fuori non so da dove, la diede a Jurig.
Mio complice, Amixandro ci tirò via dai discorsi dei due vegliardi e, mentre le donne armeggiavano in cucina e l'altro fratello suonava una mandola, ci invitò a fare quattro passi tra le aiuole. Al quinto, accusò un incriccamento delle giunture e corse in casa facendomi l'occhiolino. Jurig lo seguì per un po' con lo sguardo; si accorse con qualche respiro di ritardo che il mio trabocchetto era lì ai suoi piedi, balbettante:
«Jurig. Non sono un romanziere, non sono un vate. Sono un oratore, ma di cause vinte; con te ho perso le staffe e il piacere della solitudine. Ho scardinato sovrastrutture, preconcetti, menefreghismo. Pezzi di falso me si sfaldano alle rare fiamme a cui la tua aria sottrae ossigeno per inalarmelo nei polmoni, nel cuore, nelle arterie, nelle cellule epatiche e nei neuroni. Non sono un poeta, e forse sto vaneggiando. Ma so che ti amo e vorrei essere Uno di un Duo, con te. Vuoi unirti a me in Matrimonio?»
Sto ancora aspettando la risposta verbale; da piroette, squittii, e battimano dedussi che fosse un Sì, ma non ho ben chiaro se codesto scodinzolamento fu per la proposta in sé o per il brillocco che gli avevo messo sotto al naso.
Dopo il pasto, chiesi la sua mano, e lui chiese la mia. I nostri padri si strinsero le loro. Come me e Amixandro, amici, abbinati, collaboratori, brindarono alla nostra Buona Ventura.
Il Signor Amandoro si accese un sigaro e mi fece cenno di seguirlo nel patio.
«Era lui, quindi? Ottima fattura.»
«Grazie, papà.»
Da una finestra aperta sentivo Jurig sproloquiare sul nostro ménage.
«C'è con noi anche un piccolo felino, Leone.»
«Perché questo nome?»
La voce di Nicol attizzò i miei recettori di Allarme.
«Quando lo abbiamo trovato, o, meglio, quando ci ha trovati e ha raspato alla nostra porta, aveva un collare con su scritto Le⁃»
Nicol svenne, il che fu attribuito al suo stato. Entrai in casa. Jurig era un blocco di ghiaccio.
Non mi avvicinai: tanto ero rovente, che avrei potuto scioglierlo e farlo evaporare.
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