6. Fiamme e mulinelli di polvere
Voce narrante
Non esistono, nelle Megalopoli-Stato di Mondo, Società prive di Gerarchia. Basata che sia sul potere o sulle competenze, poco importa. Ogni uomo e ogni donna ha il suo ruolo e il suo compenso.
A Borgo Magno e nelle terre annesse, sopra a Tutto aleggia il Diktat delle Autorità. Di queste fanno parte i Cittadini Privilegiati di Alto Rango: i Puri di Sangue o, talvolta, gli Scalatori Sociali, umani con qualche nucleotide, nel Dna, di razze Antiche; questi ultimi possono ricoprire cariche politiche o accumulare abbastanza denaro da comprare il loro gradino nella rampa che sale dritta verso il cielo; non giungono mai ai vertici di Governo, ma governavano le leggi del mercato.
In questa sala siamo tutti figli di Cittadini Privilegiati d'Alto Rango. I vostri genitori hanno ereditato il titolo, e così sarà per voi. I miei, come poche manciate di altri professionisti del Commercio, dell'Arte e della Medicina, l'hanno conquistato con sudore e astuzia.
Di niente si beneficia senza il gravame di un corrispettivo; quanto si ottiene, va restituito nei termini e nei modi sanciti dalla Legge. Nelle famiglie degli Scalatori Sociali, i neonati sono designati, sin dai primi vagiti, come rappresentanti di uno dei Sacri Elementi e formati per servire la Società.
Ignoro i requisiti di assegnazione. Non ho mai conosciuto il mio Sceglitore, colui che diede il primo impulso alla mia evoluzione. Avrei voluto chiedergli perché. Ho dovuto accontentarmi della risposta di mia madre:
«Sei sgusciato fuori dal mio ventre scalciando e sbraitando. Paonazzo in volto e in tutto il corpo, artigliasti con tenacia le sue dita».
Per questo, o chissà che altro, fui marchiato con il simbolo del fuoco, cresciuto per scaldare le genti e proteggerle dai nemici. Chi avrebbe immaginato che un giorno avrei dovuto proteggerle da me stesso?!
I fratelli Biri, il cui padre è consociato al mio, hanno tutt'altra tempra.
Amixandro è l'acqua che può spegnermi e io posso scaldare le sue temperature glaciali; per questo siamo stati abbinati dal primo ciclo della nostra formazione.
Braul è la terra che avrebbe potuto sfruttare le nostre doti, oppure fermarci, se impetuosi; ma non siamo mai andati d'accordo; è stato abbinato a un altro compagno e credo non mi abbia mai condonato l'averlo diviso da Amixandro.
Anche Nicol è acqua; assennata e diligente, era l'unica a portare Concordia tra di noi. Nevicava, l'ultima volta che l'ho vista. Guardai i fiocchi che si scioglievano contro i vetri della mia finestra, chiedendomi dove, e come, stesse.
Jurig porta il simbolo dell'aria; addestrato per soffiare la vita nella bocca dei moribondi, non so perché, ne fu dispensato. Aveva imparato a sbuffare e bruire, a levitare e a staccare arnesi da terra. Nascondeva bene la sua virtù: con me non l'aveva ostentata né l'avrei sgamata, se non ne avessi scorto la piccola spirale sulla caviglia.
Fermo davanti a me, era rivolto verso l'esterno. Poggiai la fronte alla sua collottola, aspirando l'oleolito di calendula con cui si era asperso la pelle. Lo abbracciai e baciai, invitandolo a restare per la notte. Annuì, si strinse forte le mie braccia al girovita, ruotò il capo, suggé le mie labbra con le sue e sferrò quelle parole.
La nuvola rosata in cui, senza averlo prefissato, c'eravamo involti, in un battito di ciglia si dissolse.
Avvampai. Il calore salì dai piedi verso l'inguine, l'addome, il torace, il volto. Dalle orecchie, le fiamme si drizzavano verso l'alto, come quelle degli zolfanelli: le vidi riflesse nel vetro e schizzai all'indietro, come se a scottare fosse lui, mentre il mio sangue ribolliva e sulle braccia spuntavano delle piccole vescicole incandescenti.
«No, Jurig! Per mille nebulose gassose, lo sai!»
Non mi riuscì di dire altro. L'aria che immettevo usciva ustionando i tubi respiratori, la bocca, il naso, gli occhi, e temevo arrivasse a lui. Mi sventolai con le mani; allargai le braccia e le mossi su e giù; girai su me stesso generando piccoli mulinelli di polvere; tutto nell'intento, vano, di raffreddarmi.
Jurig fu veloce; mi arpionò i polsi e mi stoppò.
«Lo so! Non dirlo. Non serve ripeterlo tutte le volte.»
Le sue mani erano fredde; più delle parole, mi diedero giovamento. Mi soffiò sul viso con alito di alta vetta dei Monti Silenti e riuscì a calmarmi come nessuno mai era riuscito, neanche mio padre, che mi conosce più di me stesso. La temperatura scese a livelli accettabili.
«Mi è scappato, scusa! Si dice così nell'abbordare qualcuno, no? Per galanteria.»
Parlava adagio, premuroso, anziché offeso.
«La tua non è mera galanteria.»
Mi lasciò andare.
«Non sei un po' presuntuoso?»
«No.»
Portai le mani tra i capelli e li tirai verso il basso.
Jurig aprì le mie dita e le intrecciò alla sue; la sua lingua diede refrigerio ai lobi accaldati. In un brusio, capitolò:
«È vero, tu mi piaci; ma ho accettato le tue regole e non ti chiedo niente».
Si staccò, andò presso il letto e raccattò da terra la biancheria.
Mi squassò, brusco risveglio nel bel mezzo di un sogno erotico.
«Che fai?»
«Metto gli indumenti e me ne vado. Rispetto gli accordi.»
Sarebbe stato meglio; per lui di sicuro, per me non saprei.
L'ululato del vento si insinuò nel silenzio.
Un flash: Jurig da solo in balia del mal tempo; fotogramma istantaneo, fece accelerare i battiti del mio cuore. Tremai dal freddo.
«Non sono così scriteriato da mandarti via con una bufera di neve in corso.»
«Non sei tu, infatti; sono io che lo decido.»
«È un suicidio. Non riuscirai a fare un giro di ruota.»
«Dormirò nel veicolo.»
«Jurig.»
Una sottile stoffa di cotone grezzo celava la Zona Proibita. Con garbo cercai di togliergli dalle mani i Blue Jeans.
«Mi dispiace; ho reagito da orco, ma non sono adirato. È che... mi hai preso alla sprovvista. Lascia da parte l'orgoglio.»
«Non è orgoglio. Non voglio recarti disturbo; mi sono attardato più di tanto.»
«Se ti capitasse un incidente, non me lo perdonerei.»
Jurig lasciò i pantaloni e li guardò cadere a terra. Il viso aveva preso un po' di colore, ma i suoi occhi erano velati da una pellicola di oscurità.
«Resto. I pallini bianchi, il vento forte...»
Gli accarezzai una guancia; era umida.
«Mi fanno paura.»
Aveva perso la sua spavalderia e la voce era un sussurro. Mi trattenni con pena dall'abbracciarlo.
«Dormirò sul sofà.»
«Non mi dai fastidio, se dormi nel mio letto. Siamo amici?»
Lo chiesi per rassicurare me stesso, prima che lui.
«Sì. Invio un contatto ad Amix.»
Il sonno sopraggiunse repentino e nella mia mente si abbatté la più consistente delle barriere.
Il candore del muro non lancinava più i miei occhi; riuscivo a distinguere delle sagome: un comodino, uno scrittoio, una seggiola; un lenzuolo immacolato mi copriva fino ai baffi. Riconobbi la stanza ove mi ero risvegliato dopo l'accidente di cui non ho ricordo e che mi costò la memoria del Periodo in cui sono stato via. Il muro si mosse verso di me e il forellino al centro si appose al mio occhio sinistro. Si era ingrandito abbastanza da poter vedere dall'altra parte.
Fusti nodosi, virgulti intricati, foglie frastagliate.
Una capanna di canne di bambù.
Grandine: chicchi piccoli, sporadici, fluttuanti.
Una musica malinconica; si spandeva sulla brughiera come nebbia.
Un lampo. Un boato. Anatre in volo. L'urlo di una donna: «Scappa!»
Geyser di fumo.
Mi svegliai in un sussulto, sollevando il busto e inspirando a fondo, manco fossi stato per molto tempo in apnea. Il fumo usciva dal mio naso.
"Jurig mi ha solo sfiorato", pensai. "Che sarebbe successo se mi avesse toccato la fronte?"
Non ero predisposto per avere la risposta.
"Non può dormire con me, non deve sapere cosa avviene quando dormo".
Non riuscii più a prendere sonno.
Si fece mattino. Il sole aveva percorso metà tragitto verso il suo punto di cielo più alto. Stavo a pancia in su e guardavo il soffitto; era annerito per i miasmi del camino vetusto che accendevo spesso, prima di farne una libreria.
Non mi ero alzato per non svegliare Jurig. Lo sentivo stronfiare voltato verso di me. I muscoli facciali erano rilassati. Non appariva turbato da quanto avvenuto tra noi.
Non mi lasciai ingannare dal suo sonno tranquillo. Avrei dovuto trovare la maniera, e la forza, di farlo uscire dalla mia vita, uscendo, così, dalla sua.
La richiesta di contatto di Amixandro suonò come un campanello funesto.
«Buongiorno. Che c'è?»
«Non riusciamo a contattare Jurig. Non è rincasato, stanotte. I suoi amici l'hanno visto al birrificio con te.»
«È qui. Sta dormendo. Non ti ha avvisato?»
Jurig stirò le gambe, sbadigliò e aprì gli occhi. Capì che ero connesso e restò in silenzio.
«Si è svegliato, gli dico che lo state cercando.»
Chiusi il contatto e informai Jurig.
«Uffa», rispose stizzito. «Non era contattabile, troppe interferenze. Mica è esorbitata una Luna! Lui e Braul mi trattano come uno scolaretto.»
«Ci sono state collisioni, e deragliamenti, a causa del vento e della neve; è un caso particolare.»
«Non è solo in questo caso. Origliano, pedinano, frugano nei miei pensieri. La nostra... amicizia... l'avevo inguattata. Ora la dovrò salvaguardare con doppio lucchetto: non li lascerò entrare nei nostri anfratti; dovranno smetterla di violare la mia intimità.»
Non conoscevo la sua biografia, né che rapporto avesse con la famiglia; ascoltai il suo sfogo senza commentare e lo invitai a restare per pranzo. Il suo umore migliorò e avvertì i fratelli che sarebbe rientrato nel pomeriggio.
Immagini in movimento
Seduti al tavolo della cucina, l'uomo chiamato Felìpen e l'uomo chiamato Jurig mangiano fagottini di cavolfiore. Le bocche sono mosse dalla masticazione; gli sguardi si schivano. Riordinano ed escono dall'appartamento. Si fermano nel parcheggio. Dal cielo biancastro non scende nulla e le cime degli alberi sono quiete.
Alcuni veicoli sono stati liberati dalla coperta di neve; una gran quantità di essa è stata ammucchiata, un bambino e una bambina ne stanno facendo un pupazzo. Hanno le ginocchia piegate; i pantaloni fradici di lui strusciano il brecciolino; la gonna di lei copre in parte le gambe escoriate. Hanno cappotti rattoppati e stivali da fungaiolo troppo larghi. Sciarpe e cappelli sono gli unici indumenti che non stonano, neri per lui, rossi per lei.
I due uomini, in pesanti abiti scuri, puliscono i loro veicoli, i più lussuosi, i più capienti. L'uomo chiamato Jurig entra nel suo, che si muove a bordeggiare un edificio per salariati. L'altro guarda l'omino che si sta formando tra le mani dei bambini, dà loro una moneta ciascuno, rientra in casa, chiude la porta e la tempesta di cazzotti. Il corpo scomposto, il volto deformato e la bocca spalancata gridano Disperazione.
Voce narrante
Tra noi nulla cambiò. Jurig teneva a freno i suoi sentimenti e io i miei. I miei sogni tornarono tranquilli. Continuammo a frequentare i suoi amici; ci entrai in confidenza; uno di loro mi chiese come avere un paio di biglietti per il Festival delle Proiezioni, che si tiene nella Città della Cultura, una Stagione delle Foglie che Cadono ogni cinque; non gli promisi che li avrebbe avuti, gli assicurai che li avrei chiesti a mio padre.
Jurig non dormì più da me: avevo paura della sua presenza, e delle sue illusioni. Cercai di mostrarmi meno affettuoso nei nostri Incontri Ravvicinati, più meccanico, attento alle sue esigenze quel che bastava per non sentirmi egoista.
Mi ribadivo che non saremmo potuti andare avanti così, e, prima che la Stagione Fredda lasciasse il posto alla Stagione dei Risvegli, dovetti prendere una ponderata, lapidaria, inderogabile decisione.
♥♥♥
Spazio autrice&lettori
Quale decisione prenderà Fel? A me viene già da piangere :-(
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