6. Felino nero
Immagini in movimento
Una sagoma dorata spalanca la porta di casa con una fiancata; gronda pioggia da viso e tessuto; lascia pedate fangose. Posa sul tavolo un tremulo gomitolo di pelo nero in cui spiccano tondi globi verdi dalle pupille verticali; gli toglie un collare di cuoio e lo tampona con un panno assorbente.
L'uomo chiamato Felìpen posa il sasso sul ripiano di una madia. Stupore gli inumidisce gli occhi.
«Jurig, che significa?»
L'uomo chiamato Jurig mantiene lo sguardo su ciò che sta facendo.
«Cosa?»
L'uomo chiamato Felìpen allarga le braccia e indica la scatola che cuoce i cibi, la vasca per le stoviglie, il tavolo.
«Tutto questo.»
«Ho approntato un pasto.»
«E lui?»
«Raspava alla porta. Piove. L'ho portato al riparo. Spero non ti scocci.»
L'uomo chiamato Felìpen è sul punto di scoppiare a piangere, e di scoppiare a ridere.
«Non so che fare con te.»
«Semplice: amami; il resto verrà da sé.»
«Ti prendo una tuta asciutta.»
Voce narrante
Ponemmo il felino in camera, sopra un tappeto, in una cuccia di vecchi maglioni.
Jurig si cambiò, io mi vestii e ci sedemmo a tavola.
Amalgamando semplici ingredienti, Jurig aveva cucinato uno sformato di zucca moscata e formaggio fonduto da leccarsi tutte e dieci le dita.
Deliziato che fu il palato, ripresi il discorso inconcluso:
«Non mi hai dato risposta».
«A cosa?»
«A quanto ti ho detto.»
Jurig alzò le spalle e strizzò un labbro con l'altro.
«Sono io la risposta, e questo cibo.»
Cincischiò con la forchetta nel piatto senza distogliere lo sguardo dal mio.
«Lo sono dal primo analcolico alla "Luppolo e paillettes".»
Puntellò il gomito sinistro sul tavolo e ci appoggiò il mento sopra, guardandomi a occhi stretti.
«Non volevi che sondassi la tua mente; non l'ho fatto, ma due più due fa ancora quattro.»
«Tu avevi capito?»
«Respingermi. Accettarmi, ma con le tue regole. Farmi, farci, scostare quando Braul ti ha scambiato per il suo pungiball: hai occluso le narici con le mani, ti sei medicato da solo e da solo hai bonificato porta, parete e pavimento. Non era il tuo modo per dirlo?»
Sbigottimento mi fece torcere il collo da un lato e corrugare le sopracciglia.
«E sei rimasto.»
Fece spallucce.
«Jurig, non si tratta di un colore al posto di un altro, ma di avere il sangue impuro di una razza inferiore e con effetti collaterali non del tutto chiari. Se ti contagiassi, non potresti sposare un uomo o una donna di Alto Rango né adottare orfani. Saresti radiato dalle graduatorie per le Professioni Pubbliche e le Truppe di Sicurezza Privata. Non potresti svolgere attività che possano comportare lesioni.»
«Ciò non mi tange.»
«Citazione dotta! Non usi spilli e forbici, per il tuo mestiere?»
«Ho i dispositivi salva-mani e salva-dita, non mi sono mai lesionato, neanche quando ero un allievo di bottega.»
Sgomberammo il tavolo. Lavai le stoviglie e Jurig le asciugò.
Stavamo spalla a spalla, a riordinare piatti, pentole, bicchieri e posate nella credenza. Mi voltai verso di lui.
«L'insidia più grande è omessa alle masse. La contaminazione esagera le doti rendendole difetti. Potrebbe portare me all'autocombustione e te a un moto caotico. Potrei surriscaldarti e sbalestrarti, e... e... Io sono fuoco, tu aria... Una relazione complicata.»
«Di te mi fido.»
Di nuovo questa enunciazione, che mi indisponeva e, allo stesso tempo, suonava rassicurante.
«Non sono note le ripercussioni transitorie e durature sugli organi⁃»
«So tutto.»
«Come puoi? Sono informazioni riservate.»
Il patan di un'anta chiusa rimarcò il mio sconcerto.
«Forse qualcuno, come te, ha parlato.»
«Siamo in pochi e abbiamo fatto Solenne Voto di non divulgazione. Ci riconosciamo dal colore violaceo apposto al nostro segno distintivo, che sia il simbolo della Purità o di uno dei Sacri Elementi. Dimmi come lo sai.»
Un automa avrebbe avuto un tono più vivace del mio.
«Non lo so. Non ti basta sapere che voglio stare con te?»
«No.»
«Non lo so come lo so. So le cose, ma dimentico come le ho sapute. Scusa, dovevo tacere, lo dice sempre mio padre che parlo a vanvera.»
Jurig divenne grigiastro e, avvitandosi su se stesso, turbinò tanto veloce che non riuscivo a distinguerne i connotati. Avrei voluto contenerlo in un abbraccio, ma temevo che si rompesse in mille pezzi che non sarei stato capace di riassemblare.
"Rifletti." Dovevo agire in fretta. "Cosa può fermarlo?"
Spremetti le tempie con le dita: quarantadue gradi centigradi, o anche di più.
"Jurig è succube dell'autorità paterna. Potrei pareggiare?"
Non mi aggradava affatto, ma le sue spalle, i suoi fianchi, urtavano i mobili; il capo pigiava sul soffitto; i piedi si spiattellavano al pavimento.
«Fermati!» imperai.
Rallentò e caracollò giù.
«Non dico più, non dico più, non dico più», cantilenava.
Mi inginocchiai dinanzi a lui.
«Non sono tuo padre, o tuo fratello. Con me puoi, devi, dire ciò che sai, ciò che pensi. Tra noi non ci sono gerarchie.»
Un miagolio attirò la nostra attenzione. Jurig tirò su col naso.
«Avrà fame», piagnucolò.
«Diamogli un po' di latte di capra.»
«L'ho usato tutto. Non ti ho chiesto il permesso, scusa scusa scusa!»
Gli accarezzai le braccia.
«Da oggi. No, da ieri, questa casa è anche la tua casa. Puoi fare, usare, dire ciò che vuoi.»
«Ci sono dei cereali, ho visto.»
Per il resto della giornata ci prendemmo cura del felino e dei nostri cuori che chiedevano una tregua dai patemi.
Immagini in movimento
L'uomo chiamato Felìpen e l'uomo chiamato Jurig sono davanti a un edificio basso. Sulla targa è scritto: "Anagrafe Zooiatrica".
Entrano da una porta a vetri e si fermano davanti a una scrivania.
Un uomo canuto li accoglie:
«Come posso esservi utile?»
L'uomo chiamato Jurig gli mostra una borsa aperta.
«Questo felide ha bussato alla nostra porta. Siamo qui per accertarci che non sia Proprietà Privata e non abbia smarrito la strada di casa.»
L'uomo gli palpeggia una chiappa.
«Sì, è lui. Ha qui un lipoma. Una donna ce lo ha portato qualche giorno fa per disfarsene e dopo poco... puff! Non c'era più.»
«Siamo nello stesso quartiere in cui abbiamo festeggiato Maurisius. C'era un felino nero nella spazzatura.»
«Ci ha seguiti, Fel, ci ha scelti.»
«Che sia. Lo terremo sotto nostra Protezione.»
I due uomini sono in strada. Non piove più. Piccole pozzanghere intermezzano il marciapiede su cui camminano per qualche passo. Si fermano davanti al veicolo dell'uomo chiamato Felìpen.
L'uomo chiamato Jurig sistema la borsa sul sedile posteriore, mentre l'altro gli tiene lo sportello aperto.
«Fel, posso restare da te anche questa notte?»
«Tutte le notti che vuoi.»
«Tutte le notti, allora. Per sempre.»
I due uomini si abbracciano. Una sfera luminescente che penzola dal balcone sopra di loro si accende; pone un accento sulla sinfonia di inspirazioni, apnee, espirazioni frammiste a schiocchi di labbra e guizzi di lingue.
Voce narrante
Quella notte stessa gli consentii di prendere il timone delle nostre fantasie. Avemmo un lungo, variegato Incontro Ravvicinato, suddiviso in più round, come fosse un match di lotta libera a livello agonistico, o la trattativa per un contratto. Ma senza competizione e con una consonanza che mai avevamo sperimentato prima: le nostre anime, libere di esprimersi, trovarono il giusto andamento guidando i corpi verso l'intesa perfetta.
Ci addormentammo avvinghiati.
Sognai.
Alberi, cespugli, un mucchio di immondizia. Lontane capanne.
Una giovane bionda, pallida, sdraiata con gli occhi chiusi, le labbra livide.
Una donna con capelli corvini raccolti in una crocchi; cercava di rianimarla.
Un nibbio bruno decollava stridendo disappunto.
«Ko ko ko ra», tartagliai, aprendo gli occhi.
La faccia di Jurig era sopra la mia faccia.
«Che mi hai fatto?»
«Ti ho solo accarezzato. Il resto lo hai fatto tu. È tornato qualche ricordo, vero?»
«Sì, ma non sono sicuro di essere pronto.»
«Ti aiuterò io.»
«Devo dirti una cosa. Avevi ragione: c'è altro che non ti ho comunicato.»
«Se vuoi, questo può essere il momento per farlo.»
«Ti ho mentito. Non è vero che non ti amo.»
«Sapevo anche questo, ma è bello sentirtelo dire.»
Seguirono sdolcinerie vocali e profusione di tenerezza.
«Gli altri tuoi amorosi?» domandò Jurig mentre si rivestiva. «Anche loro, li hai messi alla porta per non dire?»
«Essi sanno. Se ne sono andati. Ho chiesto loro Diffamazione, con l'etichetta di mal-uomo, che usa e poi getta.»
«Perché?»
«Mi vergognavo.»
«Di cosa?»
«Non lo so.»
«Non lo sai?»
«Anche a me capita di non sapere. Potrei aver mischiato il mio sangue con il sangue di una donna o di un uomo o di più donne o di più uomini di Razza Infima, tramite Incontri Ravvicinati, Accoppiamento selvaggio o scambio di aghi. Ho temuto di perdere amici e clienti.»
«Avrà avuto le sue motivazioni, chi ti ha voltato le spalle; alzo le mani e taccio. Ma solo uno sciocco si priverebbe della tua tutela; e un amico che sia Amico non se ne va.»
«Non è così facile. Il non conoscere atterrisce.»
«Allora è il non conoscere la gramigna da estirpare. Non tu, o il colore del tuo sangue.»
«Parli così perché mi ami.»
«Ti amo perché so chi sei.»
Mi diede un bacio e se ne andò.
Per tutto il giorno mi chiesi se sarebbe tornato e se avessi fatto bene a fidarmi di lui. Il cuore diceva di sì, la mente temeva di no.
Tornò dopo pranzo, con il suo veicolo e parte della sua roba. Il resto arrivò con un veicolo in affitto, entro sera. Affastellammo il tutto in una mansarda che avevo rassettato per lui, costruita in mattoni e calce, sopra il tufo.
Fermo immagine
Uno stanzone con il tetto spiovente. In uno dei due muri più alti è aperta una finestra che guarda verso ovest. I vetri sono scoperti, il telaio incornicia il Re del cielo incoronato dai suoi stessi raggi, e la sua corte di cumuli e cirri, nell'ultima parata prima di ritirarsi negli alloggi notturni. Contro la parete opposta: un lungo tavolo rettangolare; sopra di esso e sotto di esso: scatole marroni cubiche, cilindriche, coniche, piramidali, grandi come stipetti, comò, cappelliere. In un angolo: un busto da cucitore asessuato, svestito.
Dal soffitto pendono lampade a olio raffinato, spente.
In mezzo tra il tavolo e la finestra fuoriescono bobine di chiffon e taffetà da un baule aperto.
L'uomo chiamato Felìpen e l'uomo chiamato Jurig stanno ai lati di un cesto in vimini alto e largo quanto un umano che abbia contato sei risvegli.
Voce narrante
«Finalmente a casa», cinguettò Jurig, dopo aver elencato acquisti e commissioni.
«Non ne avevi già una?»
«Quale? La villa dei miei genitori, che mi tenevano tumulato in una dependance? O l'appartamento di Amixandro e Braul, che mi facevano il terzo grado ognuna delle poche volte che uscivo?»
«Non eri stato in tanti posti?»
«Sì, sulla coda di una cometa di cartone.»
Sfogliai il suo block notes.
«Hai fatto presto ad avere degli amici.»
«Compagni di Formazione per Adulti in un collegio, e di Tirocinio in una bottega, a portata di binocolo degli sbirri di mio padre. Abbiamo deciso insieme di trasferirci in Città. Sono stato in vari posti, e in nessuno ho avuto un posto mio. In nessuno sono stato bene come qui.»
«Aspetta a dirlo. Convivere non è come Incontrarsi di tanto in tanto.»
«Sai quali sono gli steps per confezionare un vestito? Disegnare un modello, ecco, come quelli che stai guardando, ma usando fogli più grandi. Scegliere il tessuto. Prendere le misure. Tagliare. Imbastire. Provare. Sistemare. Imbastire. Provare. Cucire. Provare. Scucire, provare e ricucire. Cosi faremo noi.»
Chiusi il taccuino.
«Il tessuto non ha personalità. Fa ciò che vuoi tu.»
«Mica vero. Ci litigo spesso e mi viene voglia di buttarlo via. Poi capisco che devo ripartire dal modello, o dalle misure. A volte è il modello che si adatta al tessuto, altre volte è il contrario.»
«Domattina ti faccio fare una copia delle chiavi.»
Osannai Marianne e la sua saggezza: "Benedetto sia, per i cicli senza fine, il suo antidoto contro il Mal d'Amore: Jurig è nella mia casa!"
Con un piede era entrato e con tutto il resto era restato. Era Signore e Padrone. Perno, leva, piedistallo; azoto, rugiada, alimento e sollazzo. Al suo volere si piegava il mio volere. Alla sua ombra sorgeva la mia ombra. Al suo fulgore splendeva la mia magnificenza.
Mai mi punse Scrupolo di allattare una serpe al seno.
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