5. ... O Amanti?

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Il cielo è plumbeo. Non ci sono stelle né lune. Alcune fiaccole indicano la via che conduce a uno slargo circolare, nel mezzo di un bosco di conifere. Veicoli di ogni marca stanno allineati sotto le piante; soltanto due sono di colore grigio e a quattro posti: prodotti di lusso che pochi Privilegiati possono permettersi. Presso uno di essi, l'uomo chiamato Felìpen e l'uomo chiamato Jurig si danno la fronte: il primo è di spalle alla portiera, l'altro gli sta tanto vicino da respirare la sua stessa aria. Indossano salopette nere, scarpe nere con i lacci e giubbotti ardesia con la cerniera aperta.


Voce narrante

La Stagione in cui Cadono le Foglie era trascorsa per metà; l'aria era dolce e pacata. Uscivamo da uno di quei locali in cui si può gareggiare in passatempi da tavolo; avevamo scelto quello in cui si debbono azzeccare i sinonimi di un lemma sorteggiato dalla squadra avversaria. Io e Jurig avevamo vinto. Nell'avviarci verso il parcheggio, però, pareva che avessimo esaurito le parole. Arrivati al suo veicolo, non accennò a fermarsi, mostrando chiara Intenzione di accompagnarmi al mio. Lì giunti, mi poggiai alla carrozzeria, sicuro che avesse un lazo da lanciarmi.

Intraprese un balletto. Si avvicinò di un passo e di un passo si distanziò. Si avvicinò ancora, e ancora si tirò indietro. Con un terzo passo mi si appressò più del lecito per una coppia di amici. I suoi occhi giocarono con i miei, che cercavano di sguinciare; li riacchiapparono più volte, poi li agganciarono e non li mollarono più.

«Solo amici, ricordi?»

La mia voce era strozzata.

Prese il bavero del mio giubbotto e lo tirò verso di sé. Lo lasciò. Mise una mano in tasca e con l'altra principiò a baloccare con una bretella della mia tuta, allentandola e lasciandola più volte.

«Solo amici. Non possono due amici godere l'uno con il corpo dell'altro? Alla villa ti era piaciuto.»

La sua voce era suadente, lo sguardo ammiccante.

Come negarlo! Tutto il mio essere avrebbe voluto assentire.

«Solo corpo? Né mente, né cuore?»

«Solo corpo.»

Di nuovo portò le braccia in basso e di nuovo afferrò in un pugno il bavero del mio giubbotto, ma senza muoversi. Sembrava volesse scalfire tutte le mie difese e ci riuscì in buona parte.

«Ne sei sicuro?»

«Non ho alcun Dubbio.»

Protrasse la parte alta del corpo verso di me. A terra, i nostri visi crearono un'unica ombra, unita in un solo respiro. Con la mano libera mi sfiorò il Pomo d'Adamo; socchiuse gli occhi e si umettò le labbra, a una punta di lingua dalle mie.

«Tu mi farai impazzire», mugugnai, e mi lasciai baciare.

Una lieve pressione al sapore di pomata alla mandorla; le luci che si spegnevano e accendevano al mio battere le ciglia; il rumore del traffico in sottofondo che scorreva come fiume in piena: il mio cuore in tumulto perse i battiti, li rincorse e li recuperò. Un solo attimo e le mie gambe si erano fatte di pastafrolla, le braccia di burro, la saliva di zucchero. Ero un bignè alla mercé delle sue voglie.

Il suo volto si allumò di benevolo Trionfo. Con un fischio di Giubilo lasciò il giubbotto, ma non la presa sulle mie emozioni:

«Ora. Da te».

«Si fa a modo mio.»

«Conosco le regole.»

«Seguimi.»

Prendemmo i veicoli. Percorsi strade, oltrepassai bivi, trivi e quadrivi e parcheggiai il mezzo nel posto assegnato senza avere un attimo di ripensamento. In casa, ebbi giusto il tempo di accendere la luce e offrirgli un dessert.

«Sono qui per te, non per il dessert.»

Mi cacciò la lingua in bocca. La gustai papilla per papilla. Inspirai le sue esalazioni. Sapeva di buono.

Tanta era la sua voglia di fondersi con me! Arrendevole e volenteroso di rendermi felice, non avrebbe esitato, se glielo avessi chiesto, nel porgermi una guancia, pur di allacciarmi a lui; e se, dopo il primo assaggio, avessi voluto affondare i denti, strappare carne e nervi e bere sangue, non si sarebbe schermito. Ma la nostra cultura non lo disciplina, non siamo Uomini delle Lande Oscure, e non glielo chiesi. Lo volevo tutto intero: meglio così, avrei potuto goderne più e più volte.

Ci saziammo in altri modi, l'uno dell'altro, per gran parte della notte.

Ancora nudo, gradì una generosa fetta della mia crostata alle pere ruvide e bevve latte di noci, spaparanzato sopra una sedia della cucina. Ogni morso, ogni sorso, era un'allusione a quanto consumato in camera da letto.

Finito che ebbe, si leccò le dita, pulì la bocca con una salvietta e andò a vestirsi.

Lo accompagnai alla porta. Ci guardammo un solo istante in silenzio; la aprì e se la richiuse dietro.

Qualche sera dopo replicammo circonvoluzione e incastri, ma non la degustazione di cibo o bevande, e si vestì mentre ero a letto.

«Conosco la strada», mi disse, liberando entrambi dall'imbarazzo di un commiato privo di calore.

Diventammo amanti. Il mio cuore si riempì di lui, anche se il pensiero logico avrebbe voluto fiondarlo via. Continuavo a ripetermi e a ripetergli che il nostro era solo un Incontro di corpi e che dovevamo lasciare fuori le nostre anime. Lui annuiva. Entrava nel mio letto. Faceva quanto gli chiedevo e mi lasciava fare ciò che volevo. Poi si lavava, indossava i vestiti con cui era arrivato e se ne andava. Il contatto successivo, da parte sua, non arrivava mai presto e, a volte, ero io a non poter aspettare.

Il tempo condiviso con lui era un cofanetto prezioso in cui sfolgoravo di forza, avvenenza e gaiezza, che non si esauriva tra le mura domestiche. Colloquiavo con i suoi amici di letteratura e bricolage, e trascuravo i miei: nella mia comitiva c'era Amixandro; Prudenza suggeriva di tenere le due frequentazioni distinte e la bilancia pendeva dalla parte di Jurig, con il quale concludevo le serate al culmine del Gaudio.

Andò così per quasi tutta la Stagione Fredda. Fino alla notte in cui la Città fu ammantata dalla neve.


Quel giorno mi svegliai prima del crepuscolo mattutino, con un masso di travertino sul groppone. Avevo in agenda una Udienza al Palazzo dei Verdetti, ma non poteva essere questo ad angustiarmi; il mio Monologo Tutelativo era ineccepibile. Difatti vinsi. Per alcuni miei colleghi è una vocazione, per me solo uno strumento che mi garantisce un introito tale da campare senza eccessi né debiti. Non ho empatia o simpatia per la parte danneggiata o il mio cliente. Intasco la parcella, chiudo il fascicolo, archivio cartelle e speculazioni, e passo a un altro caso, senza entusiasmo, compiacimento o scherno.

Sono algido, mi dicono, come l'acqua intrappolata dal gelo, le stalattiti e le stalagmiti, e le salme esibite per la Postuma Unzione. Sono un altro, dalla morte di mia madre, o dopo essere tornato da una regione di cui nessuno ha saputo darmi le coordinate; nell'ippocampo non ce ne sono engrammi.

Non mi sferzarono neppure le Novità del giorno: bombe esplodevano alle Frontiere e rombi sismici facevano da contrappunto; la mareggiata ribaltava le navi; in Centro veniva sventata l'ennesima rapina con destrezza.

Ogni giorno si contano centinaia, migliaia di morti. Si sommavano a essi, nella mia più totale apatia, quei tre cadaveri senza volto ripescati dalla foce del Fiume Indaco tre giorni addietro.

Non avevano tatuaggi ad attestare se fossero figli del fuoco, dell'acqua, della terra o del vento; impossibile specificare a quale razza appartenessero, se a discriminare noi Supremi dagli Infimi è solo il colore del fluido che ci scorre dentro come linfa negli alberi. Non erano stati denunciati Mancati Rientri e nessuno li aveva reclamati per la sepoltura. Le pire erano allestiste per cremarli e smaltirli nella fanghiglia dalla cui stretta erano stati estratti. Non ne sarebbe rimasto che un rendiconto in carta bollata, messo a macerare in un fondaco di scaffali stipati di cartacce inservibili. Dove non c'è identità, non c'è reato né guadagno. Pensai ad altro; perlomeno, ci provai.

Un sottile scombussolamento mi diede le vertigini per tutto il giorno. Da quando frequentavo Jurig, si erano sbloccati sentimenti che avevo pianto come persi per sempre; dai recessi più remoti della mia coscienza sprizzavano spruzzi di sensibilità. Sotto la cascata domestica versai due lacrime e mi chiesi se qualcuno li avesse amati e cercati, quei poveracci, o se si fossero dileguati senza che nessuno lo notificasse. Presentimento era costante tra i miei villi duodenali, come la lanugine bianca che ovattava il cielo, premendo su Borgo Magno e i caseggiati limitrofi.

Jurig cenò a casa mia. Mangiammo risotto alle spezie e melanzane alla piastra. Neanche il tempo di un ruttino che eravamo attorcigliati in camera da letto.

Lo accolsi tra le lenzuola con più passione, ormai coinvolto fin allo stremo. Gli dedicai premure inusuali e lo sentii gemere di piacere e di dolore. Gli stavo facendo male; non nel fisico: lo stavo logorando dentro e nello stesso tempo logoravo me stesso. Nonostante questa consapevolezza, non mi fermai. Continuai a prendere e dare, per tutta la notte, finché, spossati, non dicemmo, nello stesso istante: «Alt».

Si alzò e si recò in bagno, ove aveva una sua mensola con spugne, scovolini, cosmetici. Quando ne uscì, io vi entrai.


Fermo immagine

Una stanza ampia, in penombra. Un letto da coniugato, disfatto; le lenzuola sono di un color crema molto chiaro. Il pavimento è di legno rossiccio. L'uomo chiamato Jurig, svestito, con i capelli sciolti, è davanti alla finestra; tiene di lato la tenda di cotone beige e guarda fuori. Una sfera luminescente, appesa al tetto della casa di fronte, illumina il parcheggio. I veicoli sono nascosti sotto una spessa coltre bianca. Un olmo campestre è scosso dal vento. Proiettili bianchi, morbidi, sono sparati con forza verso il vetro, e lì si sciolgono.


Immagini in movimento

L'uomo chiamato Felìpen ha indosso una tonaca da notte di filo d'ortica sbiancata. Si appressa all'uomo chiamato Jurig. Lo annusa. Sospira. Lo abbraccia passandogli gli arti superiori sotto le ascelle e gli bacia la rotondità di una spalla.

«Resta qui a dormire, stanotte. Dopo il riposo, potremo spassarcela daccapo.»

L'uomo chiamato Jurig si volta e lo bacia sulle labbra. La sua voce risuona nel silenzio della notte:

«Ti amo».

♥♥♥

Spazio autrice&lettori

Come reagirà Felìpen alla dichiarazione di Jurig? Come vi comportereste al posto suo?


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