3. Osservare
Immagini in movimento
Dalla finestra della camera matrimoniale la donna chiamata Marianne saluta l'uomo che le è stato apposto. Indossa un saio di rete bianca e ha i capelli legati sulla nuca: attende qualche minuto, poi li scioglie e li pettina con le dita.
Apre i vetri e respira a pieni polmoni. Tira la pesante tenda nera, l'unica rimasta al suo posto, e va a sedersi sul letto rifatto. Nel semibuio effonde lampi di luce che accecano e pulsano come ossessionanti domande.
Raccoglie le ginocchia a sé e dondola come una bambola appesa a un filo, sulla culla di un lattante. Orienta le orecchie verso la porta e verso la finestra, in ascolto. Le sue mani scorrono dalle rotule alle caviglie ai piedi. Dall'alluce sinistro stacca un'unghia posticcia, opalescente; clicca un interruttore.
Sulla parete di fronte si muovono accelerate le immagini mute catturate dalla scatola che ha annidata sul ramo di una quercia, oltre le Siepi di confine con le Lande Oscure, alle porte della Città Abbandonata; in molte di esse compaiono il giovinetto che ha visto suonare la canna di bambù e il giovane uomo che lo ha baciato.
Nell'accampamento i fuochi sono spenti, anche se il sole sta per tramontare. Il giovane uomo cammina furtivo nella radura, scosso dai brividi. Il sudore gli cola sulla fronte, bagna terra riarsa. I piedi scalzi, callosi e screpolati, scalciano brecciame, muovono piccoli passi di Indecisione, giungono all'argine di un fiume putrescente. Le ginocchia si piegano. Le mani tra i capelli mogano, lisci, lunghi, sciolti, ne acciuffano due ciocche e le tirano verso le orecchie, da un lato e dall'altro; grattano un'elice, il gozzo, il giugulo; unite a coppa, si accostano all'acqua.
Il muso del giovinetto sporge dall'apertura di una delle capanne più grandi, sparisce all'interno, sporge un po' di più, sparisce, riappare: qualcuno gli impedisce di uscire. Con una spallata si libera e corre verso il giovane uomo, gli bussa sulla schiena, gli fa cenno di no, lo abbraccia. Il giovane uomo lo respinge; lui non desiste e stringe di più. Labbra attraggono labbra. La carne attira la carne. Sono un solo corpo, hanno un'unica ombra, lo stesso respiro.
La donna chiamata Marianne chiude gli occhi. Quando li riapre, il sole è nella sua tana; la notte è rischiarata dalle stelle e da uno spicchio della Vera Luna. Un pipistrello sorvola l'area. Uomini e donne vagano come viandanti smarriti; alcuni hanno le scarpe rotte; alcuni non ne hanno affatto. I loro abiti sono cenci rappezzati. Si grattano le braccia, il viso, le gambe. Si guardano attorno, cercano tra le siepi e al di là del fiume. Con loro, il giovane uomo tossisce; si piega in avanti in un conato di vomito. Il giovinetto lo arpiona per la manica di una maglia lurida, indica una tenda. Il giovane uomo gli dà una gomitata, lo getta a terra, gli volta le spalle e va con gli altri sciagurati, a dormire tra gli arbusti. Scalda il corpo addossandosi ad altri corpi, che nel sonno si agitano, forse per il freddo, o per le convulsioni. Si risveglia con la fronte rivolta al cielo terso. Il giovinetto gli suona una nenia con la canna di bambù.
Le scene si susseguono con poche modifiche per giorni e sere e notti in cui il giovane uomo non mangia, non parla; girovaga, belva famelica in cerca di carcasse. Al mattino una donna con qualche ruga sulla fronte e un giovane con scarruffati capelli zebrati aiutano il giovinetto a portarlo in una capanna; la sera sgattaiola per unirsi al gruppo degli emarginati.
Il piccolo Leone trascorre le giornate nel recinto. Due bambine gli portano cibo e acqua, lo nutrono attraverso i buchi nella rete, si intrattengono con lui. Dalla sua pelle si possono contare le costole; si regge a malapena sugli arti inferiori; gattonando, percorre il perimetro del recinto e apre la bocca nell'atto di ruggire.
Quando il crepuscolo pennella il cielo, il cancello viene aperto da un titano con radi capelli mori e labbra screpolate, il quale, che diluvi o ci sia il sole, che tiri vento o sia calma piatta, indossa una mimetica a maniche corte; lo prende in braccio e lo porta al chiuso di un casotto.
Adulti e bambini, donne o uomini, giovani o anziani perlustrano i dintorni. Le querce hanno perso le foglie e il cielo è bianco e quel che era atteso, accade.
Un veicolo a quattro porte, di raro materiale resistente agli urti, luccicante e catarifrangente, si ferma sull'altra sponda del fiume. Ne escono tre umani di Razza Suprema; in fronte hanno il simbolo della Purità. Sono vestiti con abiti da Persone Ammodo e hanno valigette simili a quelle usate dagli Antichi che lavoravano in Uffici Privati. Sono sbarbati, con i capelli in ordine e le unghie curate. Planano sopra il fiume, da riva a riva, e aspettano. Uomini e donne si prostrano, giungono le mani, rivolgono loro sguardi supplichevoli; mostrano gingilli di medio valore; ricevono pastiglie colorate in sacchetti di organza.
Il giovane uomo ha la bava alla bocca, gli occhi vacui, croste sul naso. Il giovinetto lo rincorre, lui gli sferra un pugno, lo spinge a terra, lo guarda con Malevolenza; offre al più alto dei visitatori un orologio digitale, ottiene quel che chiede e va a infrattarsi.
Il giovinetto torna alla capanna a testa bassa. La donna con il pendente blu lo accoglie in un abbraccio di Consolazione.
I visitatori se ne vanno, non ne restano tracce. Sotto un cielo scevro di stelle, il giovinetto cerca tra corpi vivi e corpi morti, rannicchiati sul bordo del fiume ghiacciato. Trova il giovane uomo, prono, immoto. Lo schiaffeggia, si sdraia su di lui e copre entrambi con un kway nero.
Il sole occhieggia da uno spiraglio tra le nubi scure. La neve brilla sfacciata; ha sepolto la terra, l'erba, i piedi, le braccia. L'accampamento pullula di adulti e bambini; cercano, trovano, scaldano. Un uomo con pantaloni cargo fumé e il riporto brizzolato smuove la neve con una vanga.
«Eccoli.»
Il giovane con i capelli zebrati, il titano con radi capelli mori e un uomo calvo, olivastro, con gli occhiali a specchio, scavano a mani nude, trovano un lembo del mantello. Scavano, scoprono due visi; scavano ancora. Il giovane uomo e il giovinetto sono vivi.
Legato a un albero con un guinzaglio lento, il piccolo Leone sgambetta, apre la bocca in un lungo ruggito, si accuccia, frigna.
La donna chiamata Marianne asciuga le lacrime; spegne l'interruttore e, con esso, le immagini. Ruota su se stessa; in men che non si dica, rende attraente il suo aspetto e le stanze, e appronta la cena. Il suo sposo entra in casa, paupula un complimento, si lascia svestire e lavare, indossa una camicia sbottonata, ma non si dirige verso la cucina.
«Prima il dovere.»
Con le grosse mani la spinge nella camera matrimoniale. Sul volto di lei compare Terrore, su quello di lui Rivalsa.
Le strappa i vestiti e la spintona sul letto.
«Ricorda il nostro compromesso, Marianne. Allarga le gambe. Implorami di accoppiarmi con te e di renderti madre.»
La donna stringe i denti, pittura la faccia di falsa gentilezza e preghiera.
«Ti imploro, acc⁃»
«Non sento, Marianne.»
«Ti imploro, acc⁃»
«Non dimenticare il mio nome.»
«Bruthold, ti imploro di accoppiarti con me e di rendermi madre.»
L'uomo si assesta sopra di lei e la ghermisce per i capelli.
«Guardami. Mi ami, Marianne?»
«Ti amo, Bruthold.»
«Mi rispetti, Marianne?»
«Ti rispetto, Bruthold.»
L'accoppiamento è avviato senza preliminari.
«Ti piace, Marianne?»
«Mi piace, Bruthold.»
Sul volto di lui compare Godimento, sul volto di lei Menzogna.
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