2. Invitazione

Fermo immagine

Steso sul sofà in damasco marrone fegato, l'uomo chiamato Felìpen ha occhi allucinati, capelli unti, barba ispida sul mento e sulle guance smunte; indossa un saio di iuta smanicato che lascia scoperte braccia scorticate, mani rattrappite e unghie nere di sangue e sudiciume; ai piedi ha babbucce di pile a quadri gianduia e panna, spillaccherate.

Il pavimento è disseminato di semi, bucce, avanzume, escrementi; formiche alate banchettano in un piatto striato di sugo verde; le schegge di un bicchiere rotto sono trafitte da lance iridescenti.

Sopra al mobiletto in legno di larice invecchiato e laccato, la scatola parlante ha le antenne piegate in basso ed è ricoperta di cinigia.


Voce narrante

Caddero le prime foglie. Sfarfallavano nell'aria ancora calda e si adagiavano a terra. Così le mie lacrime: inesorabili.

L'antica filosofia è imperitura e veritiera: "L'amore ti plasma addosso una nuova forma. Scalda le membra intorpidite. Risveglia sensi assopiti. Irradia energia rinnovabile e voglia di agire, mangiare, intraprendere, investigare".

L'amore vissuto, l'amore donato e ricambiato... Me ne ero privato e nulla aveva più rilevanza.

Ero un involucro senza sostanza. Mi cibavo di insalata di kiwano e avocado, purea di carciofi e pane tostato. Non mi recavo al lavoro, non ascoltavo le notizie e mi ero arreso di fronte all'inconfutabile omertà attinente ai tre rubatori, alle due donne e alla bambina.

Lordo, malvestito, con la casa ridotta a un mondezzaio, guardavo fuori dalla finestra gli alberi perdere le chiome. Attendevo che l'energia si trasformasse in fatti senza l'ingerenza della mia volontà. Ma il mio amore era arido. Non c'era brio, senza Jurig, non c'era sprint, né traguardo.

Spunzone avvelenato, mi si conficcava sempre più nella milza inibendo la mia motilità. Il sapore mandorlato delle sue labbra, la melodia della sua voce, l'aria fredda che stemperava le mie fiamme avvolgendoci in un tiepido e confortevole abbraccio, la sua risolutezza e le sue fragilità, lo sguardo impertinente e il broncio da monello incompreso, e il Felìpen che ero quando ero con lui: questo di Jurig, e di me, aveva lasciato una voragine che mi aveva risucchiato dall'interno, fino all'implosione.

Trascorsi in questa sospensione del tempo e del pensiero non so quante mattine e quante sere. La notte dormivo grazie alle tisane assonnanti. Non sognavo ed era meglio così.

Arrivò come un terremoto la richiesta di contatto da un altro dei miei informatori, che accettai sovrappensiero.

«Dordy è morto. Io me ne vado.»

Accesa la scatola parlante, ascoltai sette notiziari, e per sette volte le seguenti proposizioni:

«Umano adulto col volto abraso e senza identità trovato morto alla foce del Fiume Indaco. Legato al tronco di un salice, aveva la bocca tappata con nastro isolante. Indossava una tuta di fustagno nera e stivali da pescatore, e un anello in cocco al dito medio sinistro».

L'uomo che mi aveva preannunciato la notizia di cui era stato sbianchettato ogni trafiletto, era stato assassinato e lasciato in vista.

Ciò incrementò il sentore di magagna e mi spronò a ripigliare le redini di facoltà cognitive che brucavano sterpame allo stato brado.

Tornai in contatto con la realtà, igienizzai la casa e mi resi presentabile.

In quell'ufficio che non era più mio, portai a termine alcune pratiche.

Nel Palazzo dei Verdetti setacciai tra moduli e carabattole sotto naftalina, senza esito alcuno.

"Ho fatto quel che potevo".

Mi concessi qualche Serata di baldoria con pochi amici e feci pace con me stesso.

Decisi di scordare Jurig e mi ci misi d'impegno. "Non ne vale la pena".

Il sole era sorto e tramontato più di settanta volte, ne aveva trasportate di particelle il vento! Lui non mi aveva cercato. A che pro girare il dito nelle sue piaghe, che forse, come le mie, forse, stavano rimarginando? La mia promessa era il solo filaccio che mi annodava a lui. Avrei tralasciato l'una e tranciato l'altro.

Con le monete accantonate, contavo di raggiungere gli Eretici nel loro romitaggio. Chiuso in una celletta, mi sarei consumato come un cero tombale con poca cera. Non avrei più elargito né ricevuto amore. Non avrei più tribolato né fatto tribolare.

Poi, però, di nuovo, tutto mutò.


Immagini in movimento

L'uomo chiamato Felìpen è in cucina con i capelli grondanti. Un telo di spugna gli copre i fianchi, la Zona Proibita e le cosce. Si affaccia alla finestra, poi apre la porta di casa. Un Addetto Pubblico con un giacchino giallo gli consegna un cartoncino, di quelli che usavano gli Antichi per spedire auguri o notificare nascite e sposalizi. Chiudendo la porta, lo guarda e sorride.

Rimane assorto il tempo di una comunicazione stringata, imbocca strade e superstrade con il suo veicolo e arriva davanti a un cancello di ferro battuto che si apre in automatico. Parcheggia il veicolo, percorre a piedi un viale ombreggiato da piante esotiche e si ferma sotto il portico di una villa cittadina a due piani, tinta di nero, con le persiane chiuse. Sull'uscio un inserviente in livrea si inchina e lo lascia passare.


Voce narrante

Mi accingevo a prepararmi per una noiosa giornata lavorativa. Trillò il citofono. Avevo dimenticato che suono facesse e non lo riconobbi subito. Dalla finestra vidi un uomo con l'uniforme del portapacchi. Presi al volo un telo per coprire la Zona Proibita e aprii. Ricevetti una cartolina e, dopo aver chiuso la porta, una inattesa richiesta di contatto, che lesto accettai:

«Maurisius!»

«Felìpen! Ti è stata recapitata la mia invitazione? Conterò trenta risvegli. Verrai?»

«Sì, e ti ringrazio, ma non so⁃»

«Lui è d'accordo.»

«Verrò.»

Non ebbi titubanza sul regalo da portare.

"Chissà che non riesca anche a onorare il debito con Jurig".

La celletta degli Eretici non era poi così allettante e, in ogni caso, sarebbe rimasta dov'era.


Varcare la soglia della casa che era stata anche mia, suscitò in me emozioni discrepanti.

Il familiare effluvio di vaniglia inondò le narici e rinfrancò lo spirito.

Gorgheggi e gesta di cantori e attori della mia gioventù riecheggiavano nei corridoi bui con il trapestio dei miei passi, barlumi di comune vita quotidiana mozzata dall'orrore.

Sopra lo zerbino in polivinilcloruro pervinca c'era la testa di una donna rovesciata con le gambe verso l'alto, sulle scale che salgono al primo piano. La camicetta bianca era intrisa di sangue, la gonna rosa crivellata di pallottole. Le scarpe di cuoio con tacco basso erano affibbiate alle caviglie tumefatte. In cima alla rampa, un me sgomento aveva in mano una missiva e una mappa.

Mia madre era morta così.

"Io c'ero. Forse ho visto. Forse so", pensai, impietrito.

«Felìpen, signore, venga, è di qua.»

Trasalii. Non ero più abituato a essere servito e riverito.

Mio padre mi attendeva in poltrona. Fumava un sigaro; nell'altra mano aveva una rivoltella.

Avevo preferito non incontrarlo nella Torre di Dirigenza della VeriSogni per risparmiarci gli sguardi patetici dei suoi coadiutori, di stigma per me e commiserazione per lui. Non lo emulavo e mi ero costruito da me la mia autonomia. Fiero dei miei successi, non se ne è mai lamentato; ma gli occhi dei critici possono annichilire più delle mie fiammelle.

Spense il sigaro in un barattolino di canfora e posò l'arma a terra: sa che non sopporto la puzza dell'uno e la vista dell'altra.

«Torni di rado e di contraggenio, e se hai da chiedere. Che vuoi?»

Non ha mai amato i preamboli, né io leziosi convenevoli.

«Un favore e una consulenza.»

«Accomodati e serviti.»

Indicò la poltrona davanti alla sua e un tavolinetto nel mezzo. Spiedini di frutta prelibata erano disposti nel vassoio in terracotta che mia madre usava con ospiti di Alto Rango.

«Li ho caramellati questa mattina, per te.»

Mi saziai di cibo e di affetto, nello studiolo in cui il tempo non era decorso: stesse suppellettili, nella medesima posizione di quando c'era una donna a sovrintendere la gerenza della domus; perfino il Signor Amandoro, nella palandrana nera, con i capelli e i mustacchi sale e pepe, aveva solo qualche ruga in più.

«Chiedi.»

La sua voce era più roca di quanto ricordassi, bassa di volume e di tono. Sul chi va là, si guardava spesso intorno. Alle finestre c'erano delle inferriate e la luce verde di una piccola scatola che cattura i fatti lampeggiava tra le lampadine di un lampadario elettrico.

«Un paio di biglietti per il Festival delle Proiezioni, da donare a un amico.»

«Ne avrai quattro. Ora la consulenza.»

«Sto cercando informazioni sui tre rubatori di Razza Infima fermati con la refurtiva nel Querceto dei Malfattori, con due donne e una bambina. Avrai sentito il notiziario.»

«Perché te ne curi?»

«Lo devo a un... Amico.»

«Presumo non sia lo stesso per cui hai chiesto i biglietti. Il tuo volto ha cambiato espressione. Non ti incasinare per un uomo.»

«La tutela degli incriminati è il mio lavoro.»

«La tutela dei Privilegiati, non dei miserevoli.»

«Non sono qui per farti sindacare sul mio operato professionale, ma per chiederti se i tuoi canali preferenziali possono essere utili; quelli ufficiali negano la notizia stessa.»

Impugnò la rivoltella e si alzò in piedi. Di fronte a me c'era un uomo dissomigliante da quello che mi aveva accolto e offerto un buffet approntato con le sue mani.

«Non ho canali preferenziali né altro tempo da perdere. Te ne vai da solo o devo farti portare via a forza dalle mie guardie?»

Mi puntò la rivoltella a una tempia. Era gelida, come il suo sguardo.

«Potrei anche spararti. Ma il tuo sangue caustico rovinerebbe la moquette.»

«Padre, non capisco.»

Mi prese per i capelli e mi tirò su. I miei occhi frizzavano di Afflizione.

«Vattene e non parlarne più, con nessuno», ringhiò. «Accertati che questo frequentante non sia una spia.»

Una fiamma di frustrazione scaturì dalla mia lingua.

«Una spia? Ju⁃»

«Taci! Non voglio conoscere il suo nome!»

Il primo schiaffo di mio padre da che sono nato mi acciaccò il morale già avvilito.

«Dimmi, almeno: una spia al servizio di chi?»

«Guardie! Portate fuori di qui questo impostore!»

«Me ne vado.»

Mio padre mi abbracciò, e nel farlo mormorava:

«Ho perso tua madre. Non lasciarmi anche tu».

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