1. Nel cerchio. Altri raccontano
Fermo immagine
Primo mattino. Stessa sala quadrata. La vetrata incornicia tratti di cielo grigio. La luce che si diffonde è tenue e non ci sono lanterne accese.
Nel cerchio di poltroncine nere: cinque uomini e tre donne presenti nel Primo Documento. Alcuni hanno le spalle curve, come se avessero freddo.
L'uomo chiamato Felìpen non c'è.
La donna chiamata Marianne è in piedi in mezzo al cerchio, con le braccia levate in alto. Indossa una tunica color dell'Oro dei Monti Silenti. È scalza. I capelli sciolti le coprono la schiena fin quasi alla corda di crine di giraffa boreale che le fa da cintura.
Immagini in movimento
Con il braccio sinistro piegato e il palmo della mano rivolto in su, la donna chiamata Marianne indica gli astanti.
«Siamo qui anzitempo, stamani, poiché il flusso iconico, da cui siamo stati subissati nella più recente adunanza, si è intricato con griglie emblematiche che già albergavano nelle scissure della corteccia cerebrale. Per sette notti e sette giorni ci ha molestati; ai quesiti senza risoluzione altri se ne vanno addizionando. Non dobbiamo allarmarci: solo le domande potranno portare alle risposte.»
Esegue tre giravolte, poi si ferma e alza le braccia.
«Invoco per noi tutti, sulle teste e nei cuori: vieni a noi, Coraggio!»
«Vieni a noi, Coraggio!» esclamano in coro i cinque uomini e le tre donne.
«Coraggio», prosegue lei, «di sondare l'animo e trarne fuori Sentimenti Tiranni; di dare a essi un nome e pronunciarlo davanti a tutti, per disassemblare le lettere e disintegrarlo, e riprendere ognuno il proprio itinerario. Vieni a noi, Coraggio!»
La donna che nel Primo Documento si era vista asciugarsi le palpebre con la pezzuola di cellulosa non trattiene più i singhiozzi. Dimostra quaranta risvegli; ha i capelli corvini raccolti in una crocchia; porta al collo un cordino di caucciù con un pendente di metallo: una saetta blu.
«Se lo vuoi, ora puoi», la esorta la donna chiamata Marianne.
Lei inspira e sospira, schiarisce la voce, parla:
«Grazie Marianne. Mi chiamo Kora Karta. La mia famiglia è ricca e potente. Da generazioni produce tomi ciclostilati di Sogni a Occhi Aperti. Non ho consorte né figli, ma non sono sola. Esso mi divora: ha il colore delle nocciole mature e l'odore di sabbia bagnata. Il suo nome è Nostalgia».
La donna chiamata Marianne le pone una mano sul capo.
«Nostalgia. Di cosa? Di chi?»
La donna chiamata Kora si sfrega la zazzera acconciata.
«Non lo so!» urla. «Da sette giorni, io pure vago senza sosta tra le stanze, scosto mobili, scruto gli angoli. Niente! Nessuno! Sono tornata in me da cinque cicli solari, dopo un lungo Periodo di cui non rammento alcunché. Il mio Lutto non è per l'amica uccisa da un biberon, che era una mina inesplosa, un passo al di qua dalla Frontiera. L'ha pestato e boom! È saltata in aria. Mi manca, ma so dove rendere omaggio alle sue ceneri; esso non è per lei. Ho un fratellastro; mia madre l'ebbe con uno Scalatore Sociale, morto per malaria che il figlio era infante. Rosh ha commesso concubinato; gli Associati di mio padre ne hanno patteggiato l'Esilio. Mi manca, ma so dov'è; esso non è per lui.»
«Hai sognato, Kora? Sei tra affini, puoi dirlo.»
«Sempre lo stesso muro bianco.»
Il volto della donna chiamata Kora, e non solo il suo, è sbiadito da Costernazione; quello della donna chiamata Marianne, mentre si siede al proprio posto nel cerchio di poltroncine, pare aver visto un Lemure.
«È orrido incassato tra le clavicole e le scapole», reboa il titano di mezza età, seduto alla sua sinistra. Indossa una mimetica vegetata; è l'unico con le maniche corte. Ha radi capelli grigi, occhi di carbone, labbra screpolate e una cicatrice a zig zag sull'avambraccio sinistro.
«Sono Krostan Muncar, Mano Armata delle Autorità in Licenza Durativa. La mia famiglia è ricca e potente. Vivo da solo in una cascina. Ho perso il mio primogenito, caduto in un'imboscata, anche lui a pochi passi dalla Frontiera. L'equilibrio tra Nazioni è un fiume che fluisce mansueto, a cui docili bipedi possono abbeverarsi, senza vedere che sotto sotto gli scava la fossa. La pace è una fiaba con cui i Governi ci addomesticano; dietro le quinte fanno i porci comodi loro, e mandano frutti acerbi a mietere fiori appena sbocciati. Mia moglie è morta di crepacuore. Il mio secondogenito è partito con gli zii. Mi mancano, ma non per loro, da sette giorni vago per casa, inseguendo le ombre. Forse qualcuno che ho conosciuto nel luogo, o nei luoghi, in cui sono stato, nei quindici cicli solari durante i quali mi hanno denominato Disperso? Qualcosa che potrei riavere oppure no? Assomiglia ad Ansia, quando non è Paura, perché nulla spaventa in concreto; il suo nome è Rimuginio. La sua origine non so quale sia.»
L'uomo scolla le braccia; il petto si alza e abbassa. Di fronte a lui, una voce tenorile, si leva e grida:
«Nebbia! Chiudo gli occhi e tutto si ottunde. Allungo il braccio per afferrarlo, ma non ci riesco. Cos'è? Un uomo? Una donna? Un bambino? Il mio piccino perduto prima di metterlo nella culla?»
Il giovane parlante ha capelli zebrati legati a coda di pony alta che lascia scoperto il viso segnato da tanti piccoli tagli obliqui.
«Il suo nome è Collera! Me l'hanno divelto dal petto senza che potessi digli Addio. Non ricordo il vero nome né la fisionomia, ma c'è stato, ed era un maschio, forse un fanciullo; non chiedetemi come lo so. Sono Vardis Juven, nipote del valoroso Norbis, che vinse la Terza Guerra di Frontiera. Sono riemerso dall'oblio, come voi, da cinque cicli solari. Mia moglie era già moglie di un altro, ma non è lei che mi manca.»
La donna chiamata Marianne si alza in piedi.
«Grazie, Kora; grazie, Krostan; grazie, Vardis.»
Una voce da contralto si sovrappone alla sua:
«Si chiama Cordoglio! Lo piango tutte le sere prima di addormentarmi e ogni mattino al risveglio. Non so chi sia: non il genitore morto nell'adempiere al suo dovere, precipitato da un'impalcatura traballante; non la genitrice perita per lo strazio».
Gli occhi di tutti sono rivolti alla quarta donna del gruppo. Rughe disegnano dossi e cunette sulla sua fronte; rivoli di sudore le lucidano il collo; nelle cornee rosse, Grinta dirama i tentacoli.
«Sono Martha Màrya. Ho perso mio marito, me stessa per quindici cicli solari, e il mio lavoro, ma non lui, non esso, mi mancano, e come voi, non so cosa sia. Dove sono stata? Che ho fatto? Perché questo sangue dirazzato? Chi l'ha inoculato nelle mie arterie, nelle mie vene?»
Gli uomini e le donne tacciono, respirano rumorosamente, sbuffano, inspirano, sospirano, gemono.
La donna chiamata Marianne guarda un timer a clessidra e si rivolge all'auditorio:
«Tutti noi abbiamo perso una persona amata e attraversato un'Epoca del Lutto di cui non sappiamo nulla; dolenti, i ricordi si sono nascosti. Siamo riemersi dall'oblio con un sangue dalle gradazioni della marmellata di mirtillo pur non avendo antenati di Razza Infima. È l'enigma della nostra esistenza. Che ci disorienta e con cui dobbiamo convivere. Siamo qui per questo: per imparare l'uno dall'altro e confrontarci e supportarci a vicenda. Il tempo è scaduto, per oggi è tutto. Andate».
La sala si svuota. Lei siede con le braccia lungo i fianchi, reclina la poltroncina all'indietro, chiude gli occhi. Dal soffitto debordano scene sconnesse l'una dall'altra.
♥♥♥
Spazio autrice&lettori
Finora abbiamo visto Marianne nel ruolo di conduttrice in un gruppo di auto-aiuto. Ma qual è, veramente, il suo compito? Cosa mostreranno i suoi ricordi? Nei prossimi capitoli avremo qualche risposta.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top