25 - Ho tagliato le tue ali

Che strano intreccio di nodi è la vita e quanto è facile che persone apparentemente lontane, siano in realtà più vicine di quanto crediamo.

Era accaduto così con Jonathan, come con la ragazza in bianco.

Fili, apparentemente distanti, destinati a intrecciarsi in un solo, unico, inestricabile nodo. Jonathan aveva conosciuto Sean in una fase della sua vita davvero difficile, anche lui, come me, aveva fatto qualcosa di riprovevole di cui non desiderava parlare, ma che l'aveva profondamente segnato; anche lui aveva una pena da scontare, prima di tutto con se stesso. Sean l'aveva, in qualche modo a me sconosciuto, aiutato a tirarsi su dalla palude di disperazione e depressione in cui era caduto, era diventato suo amico, gli aveva parlato di sé, della sua bellissima moglie e del suo simpatico, solare e determinato fratello. Io.

Era stato il destino, strano e beffardo, a farci incontrare, era stato il caso a far scoprire a Jonah che il simpatico, solare e determinato fratello di cui Sean gli parlava sempre, era l'uomo ferito, cupo e silenzioso, ospitato a casa di Eileen; era stato con questa certezza nel cuore che si era messo in contatto con mio fratello e aveva deciso di farmi da angelo custode, guardandomi da lontano, pronto ad aiutarmi nel momento del bisogno. Era stata la gratitudine a portarlo a proteggermi, consentendomi di restare in solitudine quando il mio cuore urlava di dolore.

"Come ti senti Daniel?" La voce del guardiano del faro mi riscuote dai miei pensieri. Non so come mi sento, forse "svuotato," è la parola più giusta per descrivere il mio stato d'animo attuale. Svuotato e leggero come non lo ero da molto tempo.

"Meglio," rispondo.

"Sei pronto ad incontrarla?" annuisco, ma non sono molto convinto.

Cosa le dirò?

Si ricorderà di come sono vigliaccamente fuggito rifiutando i suoi sentimenti, qualunque essi fossero?

Entro titubante nella stanza.

Sono pronto a vederla e a parlarle?

Sono pronto a conoscerla?

No, non lo sono, ma lo farò. Le parlerò, la conoscerò, l'aiuterò, se posso.

*****

Me ne sto qui, abbandonata sulla spiaggia come un sacco inerme. Non so davvero cosa mi sia successo, quando ho perso l'appiglio con la realtà, quando il terreno è venuto meno, quando ho provato la vertigine e l'ebbrezza del volo, quando ho saggiato la durezza del suolo. Non sono un angelo, anche se lui mi vedeva così, anche se tutti lo pensavano, non sono un uccello, non posso librarmi libera nel cielo in tempesta della mia vita e vederne la limpidezza oltre le nubi. Sono qui, su questa fredda battigia, incapace di reagire, incapace di aprire ancora le mie ali. Le mie ali sono spezzate, strappate via dalla durezza della realtà e dalla brutalità dell'uomo che me le ha tarpate via per tenermi al suo fianco. Un uomo, che quando mi ha visto avvizzire come un fiore senz'acqua, ha preteso che volassi ancora per lui, che lo incantassi con il mio sguardo, che lo portassi con me su quelle vette che mi aveva impedito di esplorare e che ora, spezzata dalla vita e da lui, non riuscivo più a raggiungere. Allora sono diventata un peso, qualcosa di cui disfarsi per allontanare da sé la certezza del fallimento come marito e come uomo.

Sono qui, la neve mi ricopre con il suo manto gelido ed è quasi piacevole sentirla addosso: lenisce il dolore, rallenta il battito cardiaco, attutisce tutti i suoni, anche quello del mare, che sento vicino, ma che non posso vedere. I miei occhi sono chiusi, i miei sensi ottenebrati... Sento voci attorno a me, improvvise e concitate, un cane guaisce spaventato, un uomo chiama aiuto, ma non riesco ad aprire gli occhi, ho paura di farlo, perché la realtà potrebbe essere peggiore di ciò che immagino. Potrei essere ancora con lui, su quella scogliera battuta dal vento, con il mare che mi ruggisce contro come un leone inferocito. Qualcuno mi posa, gentile, le mani sul collo, sono mani calde che mi fanno pompare più sangue nelle vene. Qualcuno mi ha trovata, qualcuno riparerà le mie ali rotte ...o forse no. Mi toccano, spostano il mio corpo, mi coprono con una coperta che non riesce a scaldarmi il cuore e le membra; qualcuno grida ordini, ho paura quando gridano, ho paura che lui sia tornato per accertarsi di aver completato la sua opera, di avermi spezzata una volta per tutte. C'è caldo ora, un caldo che punge la mia pelle, un caldo che brucia, che fa male. C'è caldo, ma non è come allora, quando ho incontrato il mio personale angelo per la prima volta; quando, passeggiando per quei giardini, ho colto con la coda dell'occhio, le sue dita posarsi lievi, sullo stelo di un fiore. Vorrei poter tornare indietro nel tempo a quel caldo luglio di due anni fa, sentire ancora sulla pelle il calore del sole e non questo gelo bollente che mi ustiona.

Era così bello vedere le sue dita sfiorare lievi i petali di quelle orchidee...

...

...

Ero andata ai giardini botanici per puro caso quel giorno. Avevo discusso con mio marito ancora una volta; ormai le nostre giornate erano sempre più complicate, non ci comprendevamo più, ma allo stesso tempo non riuscivamo ad allontanarci davvero. Eravamo legati da un rapporto morboso e difficile. All'inizio apprezzavo il suo atteggiamento possessivo, la sua smania di proteggermi da ciò che mi circondava, poiché pensavo fosse frutto del suo grande interesse per me; con il tempo, le sue attenzioni, la sua mania di controllo su tutta la mia vita, il tentativo di isolarmi dal mondo e di rinchiudermi in una prigione dorata, cominciavano a starmi stretti. Eppure nonostante ne soffrissi, non riuscivo a liberarmi del desiderio che mi legava a lui.

Era luglio, quando vidi quell'uomo alle serre dei giardini botanici. Coltivava orchidee con tocchi gentili e sguardo corrucciato e attento, come se dal benessere di quelle piante dipendesse la sua stessa vita. Ne rimasi immediatamente affascinata. Rimasi ad osservarlo per ore, mentre si muoveva lento attorno alle piante di cui si occupava; sembrava leggermente impacciato nei movimenti e non sorrideva mai. I suoi occhi erano tristi e non rivolgeva quasi mai la parola a nessuno, una naturale ritrosia che mi attrasse verso di lui, proprio come una falena è attratta da una fiamma. Non riuscivo a fare a meno di guardarlo, di seguirlo, di cercare i suoi occhi, di sperare che si accorgesse di me. Era luglio quando lui mi vide per la prima volta, ma quel giorno  non potevo soffermarmi troppo a pensarlo, non potevo permettermi di sognare un uomo che probabilmente era già legato ad un'altra, proprio come lo ero io. Era luglio, quando arrivò il primo schiaffo, il giorno in cui tornai in ritardo rispetto all'ora prestabilita, quando cominciai a smettere di mangiare, quando decisi che avrei incontrato di nuovo l'uomo che coltivava le orchidee.

Agosto arrivò fresco e con un'aria colma di umidità. Non c'erano stati più schiaffi ma richieste di perdono e lacrime. Le sue e le mie. La pioggia, però, aveva raffreddato il mio animo e il mio amore per lui stava lentamente sbiadendo, lavato via dalle lacrime versate nel silenzio della mia stanza. Quella mattina, avevo indossato il mio vestito bianco ed ero uscita, volevo vedere di nuovo le mani di quel giardiniere carezzare i suoi fiori, volevo immaginarle su di me, mentre sfiorava i miei contorni e la mia pelle, vellutata come quella dei fiori di cui portavo il nome. Arrivai presto quel giorno, ma non lo trovai. Sentii il mondo crollarmi addosso al pensiero che fosse andato via prima che potessi conoscerlo e sentire il suono della sua voce solleticarmi i sensi. Guardai nella serra, nella speranza che fosse dentro, ma la trovai desolatamente vuota.

"Buongiorno, cerca qualcuno?" Sobbalzai per la sorpresa, era lui, potevo vederne il riflesso sui vetri tirati a lucido; la sua voce era come la pensavo: calda, proprio come doveva essere il suo tocco. Scappai in preda all'inquietudine. Non potevo parlare con quell'uomo, mio marito l'avrebbe scoperto, lui sapeva sempre tutto di me.

"Signorina, ha perso... " sentii soltanto, ma le mie gambe correvano più veloci delle sue. Mi nascosi dietro una siepe e osservai il corpo di quell'uomo accasciarsi a terra. Non mi avrebbe seguita. Le sue mani raccolsero il mio copri spalle, accarezzandolo con dita gentili, annusandolo con gli occhi chiusi, rimanendo immobile, con un'espressione di muta disperazione disegnata in volto. Non volevo che fosse triste. Mi mossi prima di riuscire a pensare. Lo guardai, aveva poggiato la schiena sulla parete della serra e aveva rivolto lo sguardo verso l'alto, facendosi inondare dalla luce solare. Era una visione dolorosa ed io ne ero irrimediabilmente attratta. Mi notò solo quando fui a un passo dal suo corpo, mi guardò, con quei profondi occhi scuri, solo quando le mie labbra si poggiarono, lievi, sulle sue.

Agosto divenne il mese in cui sfiorai il cuore di quell'uomo misterioso e triste; il mese in cui le mani di chi aveva giurato di proteggermi, raggiunsero il mio volto, i calci, il mio ventre. Ero incinta, seppi in seguito, ma una vita non può vivere a lungo in un corpo violato. Non riuscii più ad uscire in agosto. Troppo dolore, troppe inutili richieste di perdono.

A settembre andò via per lavoro, o dal suo nuovo amore, non lo sapevo e non m'importava. Ero libera di uscire, ero libera di scappare via, ma non si può esserlo davvero se si è prigionieri in una gabbia di paura. A settembre ritornai in quel giardino, volevo rivederlo e sentire la sua voce calda carezzare lieve le mie orecchie. Lo trovai sotto il grande platano: dormiva, ma il suo sonno non era sereno. Mi avvicinai in silenzio, mi sedetti al suo fianco e rimasi ad osservarlo finché non si alzò di scatto con il volto deformato da una grande sofferenza.

"Sei malato?" chiesi con la mia voce bassa e roca, quasi spezzata.

"No," rispose in un soffio, avvicinandosi. "O forse sì, non saprei, credo che sia la mia anima ad essere malata..." lacrime salate inumidirono le mie ciglia. Era come pensavo, lui era proprio come me, un'anima fragile e sofferente

"Anche la mia, per questo vengo qua, questo luogo. Mi calma, vederti a lavoro mi calma..." m'interruppi immediatamente rendendomi conto di aver detto più di quanto avrei voluto, di essermi scoperta a lui.

"Cos'altro ti tranquillizza?" chiese in un sussurro.

"Essere lontana da casa, essere qui, tra i fiori di questo giardino, vederti da lontano e sperare, sperare intensamente che tu ti accorga della mia presenza." Non riuscivo a smettere di parlare, di confidargli il mio desiderio per lui.

"Mi sono accorto di te." Confessò, riempiendo il mio cuore fino all'orlo. Poi le sue labbra furono sulle mie in un bacio vorace e denso. Dio, lo volevo intensamente, volevo che mi prendesse, che riempisse la mia bocca di baci, il mio corpo di carezze, il mio cuore di passione. Non m'importava più nulla, ero totalmente persa nel calore di quelle labbra che baciavano le mie, delle sue mani calde sulla mia pelle, del suo corpo nel mio. Non m'importava più nulla, nemmeno di non conoscere il suo nome. Ci separammo dopo un tempo infinito, eppure troppo breve; sentivo il suo calore abbandonarmi lentamente. Lo guardai, teneva gli occhi chiusi, come se avesse paura che li scrutassi fino in fondo e vedessi in loro la stessa devastazione della mia anima. Lo guardai, arruffato e irto di spine a difesa del suo io più profondo, guardai il suo volto, un tempo, probabilmente, molto bello, coperto di sudore, cicatrici e barba; guardai i suoi occhi scuri e capii che si era pentito di ciò che avevamo appena fatto.

"Devo andare, il mio tempo è finito." Sì, dovevo rassegnarmi al fatto che non avrei trovato in lui ciò che cercavo; era un uomo spezzato, ferito nel corpo e nello spirito, eppure, nonostante sapessi tutto questo, non riuscivo a pensare di non vederlo ancora. "Il mio tempo è finito!" dissi ancora per cercare di farmi forza, per avere il coraggio di lasciarlo andare.

Il mio tempo con lui è finito, pensai a malincuore in ottobre, quando il freddo punge la pelle e la sofferenza si fa più grande.

Lui tornò in ottobre, scontento della sua vita e di me, e con lui tornarono le grida, gli schiaffi e le inutili richieste di perdono che si susseguivano a ritmo incalzante. Sotto il platano, su un letto di foglie morte, aspettai che l'uomo che coltivava orchidee mi raggiungesse. Lo aspettai per ore, incurante del freddo, della pioggia, ma lui non mi raggiunse e allora me ne andai, allontanandomi, silenziosa com'ero arrivata scomparendo dalla sua vista e probabilmente dalla sua vita.

"Portami via!"gli gridai in novembre, decisa a fare qualunque cosa pur di fuggire via. Lo avrei implorato, mi sarei data a lui, se solo l'avesse voluto. Avrei fatto di tutto pur di scappare dalla gabbia in cui mio marito mi teneva prigioniera. "Portami via da tutto questo dolore!" sussurrai a un passo dalla sua bocca, prima di baciarla con forza, cercando in lui quella complicità e quella passione, che seppure solo per un momento, erano riuscite a farmi rifiorire. Lui rimase lì, fermo, lasciando che le mie labbra si modellassero alle sue, morbide ma immobili. Piansi in novembre, rivelandogli la portata delle mie sofferenze, riconoscendo, prima di tutto con me stessa di essere una donna abusata e sola. L'uomo delle orchidee mi guardò, ma nei suoi occhi vidi solo impotenza. Lui non era un cavaliere con la scintillante armatura, lui non mi avrebbe salvata.

Seppi il suo nome un giorno di dicembre. C'era la neve a coprire tutto come un manto puro. Indossai il mio cappotto bianco e raggiunsi i giardini. Non sapevo se l'avrei più trovato; dopo il nostro ultimo incontro, non andai più nei giardini, ormai sterili e secchi, proprio com'ero diventata io. Ero morta, devastata dalla più triste delle notizie, ma non lo cercai, non camminai per quei giardini, non lo vidi più.

Quel giorno di neve, andai alla serra, per cercare conforto nel suo dolce tepore. Fu lì che lo vidi: seduto per terra, il viso rivolto al cielo, i polsi squarciati. Il rosso imbrattava la neve attorno a lui, ma l'uomo non sembrava curarsene, sul suo volto c'era l'ombra di un sorriso, come se con quel gesto cercasse la liberazione da un dolore troppo più grande di lui.

"Resta con me," gli dissi incessantemente, mentre tentavo di bloccare il flusso di quel liquido che sporcava il mio corpo e il suo, "non importa se dopo sparirai dalla mia vita, ma ora, ti prego, resta con me!" Mi guardò con gli occhi stanchi, come se stentasse a riconoscermi, mentre attorno a noi si riuniva un capannello di suoi colleghi. Tutto era coperto da una coltre bianca e soffice. Bianca, come il cappotto che indossavo e rosso come la sofferenza delle nostre anime ferite.

A dicembre gli salvai la vita, anche se non ero certa di avergli fatto un favore.

A dicembre seppi il suo nome. Daniel.


Micheal Nyman – I clipped your wing


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rieccomi a voi dopo un lunghissimo tempo. Devo dire che la stesura di questo capitolo è stata piuttosto difficoltosa, non tanto perché non sapessi cosa scrivere (oddio, un po' anche per quello), ma soprattutto perché ho fatto una gran fatica a trovare il tempo di scrivere. Ok, ora è fatta, spero che questo capitolo vi piaccia.

A presto B.

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I clipped your wing è un brano strumentale, composto da Micheal Nyman, tratto dalla colonna sonora del film The piano (lezioni di piano) del  1993.

I clipped your wing si riferisce ad una scena molto dura del film, quando il marito di Ada, esasperato dai suoi continui rifiuti e ormai certo del tradimento di lei, le taglia un dito di una mano, un trauma incredibile per lei, pianista muta  fin da bambina, che riesce ad esprimersi solo attraverso la musica che suona con le sue dita e che muta seguendo gli stati d'animo della protagonista.Musica meravigliosa e film bellissimo, che consiglio a tutti di vedere almeno una volta.

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