22 - Angelo
cap. 22 – Angelo
Io mi siedo e aspetto
che un angelo guardi il mio destino
loro conoscono
i posti dove andremo
quando saremo vecchi e coi capelli grigi
perché mi hanno detto
che la salvezza fa aprire le loro ali
così quando io sono disteso nel mio letto
i pensieri scorrono nella mia testa;
io sento che l'amore è morto*
*Angels _ Robbie Williams
L'aria, fuori dalla serra era fresca e piacevole sulla pelle e la brezza, che soffiava lieve tra le foglie degli alberi, mi calmava il cuore. Avevo lavorato sodo quel giorno, ne avevo bisogno, perché lavorare, mi aiutava a rilassarmi, perché impediva alla mente di pensare e inibiva paure e sensi di colpa. Mi guardai intorno in cerca di frescura, la trovai sotto il grande platano che torreggiava al centro di uno dei giardini nei pressi delle serre. A quell'ora, tutti i giardinieri tornavano dalle loro famiglie per pranzo e i giardini botanici di Oxford erano pressoché deserti. Presi il panino che Cinthia mi aveva preparato e dopo aver prelevato una bottiglietta di Cola fresca, dal distributore automatico dell'area ristoro dei visitatori, mi diressi sotto l'albero ombroso. L'erba era morbidamente piacevole sotto la schiena e il muoversi leggero dei fili mi solleticava le braccia con delicatezza. Fu in quel momento di pace assoluta, tra il suono del vento e il frinire delle cicale, che la vidi per la prima volta. Indossava un abito bianco e leggero. Era esile come un giunco, i lunghi capelli dorati le davano un aspetto quasi etereo, come una fata dei boschi. Distolsi lo sguardo per un istante, il tempo di stappare la bottiglia che mi ero portato e lei era sparita. Una visione, pensai al momento, una visione incredibilmente reale, ma pur sempre una visione. Mi stesi e chiusi gli occhi godendomi il momento di pace. Fra pochi minuti, tutto si sarebbe rianimato, i miei colleghi sarebbero tornati e il lavoro sarebbe ripreso, frenetico fino alle diciassette, ora in cui tutti si dirigevano al vicino The Cape Of Good Hope per una birra e quattro chiacchiere prima di rientrare a casa.
Li seguivo fin lì, abitavo al piano di sopra, nel piccolo appartamento che gli amici di mio fratello mi avevano affittato, ma non mi fermavo mai a bere con loro: sarebbe stata una tentazione troppo grande ed io non potevo permettermi ricadute. L'avevo promesso a Sarah e Lily, quel giorno, al cimitero, e non le avrei deluse; l'avevo promesso al mio terapista, che aveva dato il nulla osta perché uscissi dalla clinica, a patto di rispettare alcune regole stabilite dal centro nel quale mi avevano portato dopo le mie dimissioni dalla terapia intensiva dell'ospedale. A Sean non l'avevo detto, ma ero sotto sorveglianza: bastava solo uno sgarro; una rissa in un bar; una qualunque intemperanza e mi avrebbero rimandato nel centro di recupero senza pensarci due volte. Quella sera, solo nel mio letto, sognai la donna vestita di bianco. Era bellissima e triste, come un angelo caduto. Tentai di avvicinarmi, ma la sua figura scomparve nel nulla, lasciandomi addosso uno strano senso d'inquietudine.
Il giorno dopo la vidi di nuovo passeggiare nei giardini, mi nascosi dentro la serra e la spiai. Indossava un abito candido e i capelli, lunghi e chiari, erano raccolti in uno chignon disordinato. Si guardava attorno con aria spaurita, sembrava cercasse qualcosa, o qualcuno, poi, non trovandolo, si era allontanata con aria afflitta.
"Chissà, magari cercava me!" Mi ritrovai a pensare, ma poi scartai l'idea come malsana e con uno strisciante senso di colpa ad attanagliarmi lo stomaco, ripresi il mio lavoro. Lavorai nella serra tutta la settimana, sottoponendomi all'afa soffocante di un luglio che sembrava più caldo del solito. Lavorai senza fermarmi, non potevo permettere alla mia mente di soffermarmi su di lei: che razza di uomo era colui, che dopo aver provocato la morte della sua famiglia, lascia che la mente insegua il miraggio di un'altra donna?
Una persona indegna, ecco cos'era, un egoista bastardo. Eppure non riuscivo ad impedire ai miei pensieri di tracciare i contorni di quella misteriosa creatura; allora lavoravo e lavoravo, fin quasi a non sentire più le braccia e la sera, esausto, crollavo in un sonno privo di sogni, dove tutto era scuro e pieno di pace.
Luglio stava contando i suoi ultimi giorni quando la rividi, indossava un abito bianco con lo scollo a barca che le lasciava scoperte le clavicole e il collo da cigno. I capelli erano sciolti a incorniciarle un viso fin troppo sottile. Era dimagrita, mi trovai a pensare inconsapevolmente, guardandola di sfuggita attraverso i vetri della serra, sembrava stanca; il passo aveva perso la leggiadria che l'aveva contraddistinto le altre volte che l'avevo vista e nel complesso, tutta la sua figura appariva quasi sfocata. Chiesi di lei ai miei colleghi ma nessuno la conosceva e nessuno le aveva mai parlato. Dicevano di averla incrociata spesso nel giardino, specialmente in primavera, quando i fiori sono al massimo del loro splendore, ma pochi potevano dire di averla mai vista davvero. Era una figura sfuggente, quasi un mito per quel giardino. Qualcuno sosteneva che non fosse reale, ma solo il frutto di un'allucinazione collettiva; altri sostenevano che fosse una fata; solo qualcuno affermava di averla vista in viso e che quel viso era bellissimo e triste.
Agosto arrivò e con esso le prime piogge estive. Chiuso nel mio appartamento, le sere di fine estate, lontano dal clangore della strada e delle tante persone che sedevano nei tavolini all'aperto nei pressi dei pub, ripensavo alla mia vita e a com'era cambiata nell'ultimo anno. Prima ero un giovane uomo d'affari potente e con una famiglia che mi amava; avevo tutto ciò che potessi desiderare, ma niente bastava a placare la mia brama, solo la droga, forse, per un po' e il sesso. Ora avevo le mani coperte dai calli e il corpo solcato da una regnatela di cicatrici eppure, quando il sudore scorreva lungo la schiena e le mani erano immerse nella terra, sentivo l'anima che lentamente si quietava, sentivo la brama di denaro farsi inesistente. Se solo avessi capito prima il male che stavo facendo a coloro che mi amavano...
Chiusi gli occhi, appoggiando la fronte sul vetro in cerca di refrigerio, che uomo stupido e fragile ero stato, avevo tutto l'amore che una persona può sperare di desiderare in mille vite e non m'importava davvero. Sarah e Lily erano il più prezioso dei doni, eppure le sfuggivo in preda a un delirio di onnipotenza sempre crescente. Dovevo perderle, per capire l'enorme vuoto che era ora la mia esistenza senza di loro. Il cielo si stava aprendo, la sera era prossima e timide stelle occhieggiavano nell'atmosfera color cobalto. Scesi di sotto, avevo bisogno di camminare per scaricare il dolore che sentivo dentro, per anestetizzare il senso di colpa per il male che avevo causato. Dovevo camminare e camminare, per ore, anche se farlo faceva male al mio ginocchio malandato, non potevo evitarlo; camminare aiutava a distrarre la mente dalle ferite del cuore, oltre che del corpo e il dolore che sentivo quella sera, complice la pioggia che mi metteva sempre ansia, era tale da soffocarmi.
La mattina dopo arrivai in leggero ritardo, le membra doloranti e gli occhi cerchiati per mancanza di sonno. La scoprii lì, a guardare attraverso i vetri della serra a camminare nervosamente attorno ad essa, nel suo vestito bianco e con i capelli sciolti che ondeggiavano al ritmo del suo respiro affannato. Mi avvicinai silenziosamente, senza nemmeno sapere perché. Ero incuriosito e intimorito al tempo stesso, ma anche profondamente desideroso di sapere qualcosa su di lei.
"Buongiorno, cerca qualcuno?" Una sola frase, pronunciata con lentezza. Un sobbalzo e la fuga. Ai miei piedi, solo il suo leggero copri spalle bianco abbandonato sul prato verde. "Signorina, ha perso... " cercai di seguirla, ma le mie gambe rifiutarono di muoversi, troppo stanche per affrontare un'altra sessione di corsa. Caddi in ginocchio vicino alla serra aspettando di riprendere fiato. Raccolsi quell'indumento candido e me lo portai al maso, profumava di caprifoglio. Sentii dei passi sulla ghiaia, alzai gli occhi e intravidi l'orlo del suo vestito bianco, poi il suo profumo invase le mie narici e il suo volto entrò nel mio campo visivo. Era bella, di una bellezza eterea e malinconica, gli occhi erano grandi e grigi come il cielo in tempesta, le labbra piene sembravano morbide, le guance rosa, come se avesse corso... Battei le palpebre, certo che fosse frutto della mia immaginazione, poi le sentii le sue labbra posarsi sulle mie in un bacio fresco, come il profumo che portava addosso, il profumo dell'estate, il profumo della rinascita.
Settembre giunse con i suoi venti più miti e il lavoro più lieve. Dopo quel fugace bacio non l'avevo più vista; la ragazza misteriosa, di cui non sapevo nemmeno il nome, sembrava sparita assieme al caldo dell'estate. Non avevo più pensato a lei, troppo impegnato dalla crescente passione per il mio nuovo lavoro e troppo in colpa per considerare anche solo di volerla conoscere. Avevo frequentato un corso di giardinaggio durante i momenti liberi che il lavoro mi lasciava, e ne ero molto felice: l'idea di far crescere e curare qualcosa di vivo mi faceva sentire più sereno e allontanava, anche se temporaneamente, l'abisso tenebroso che m'inghiottiva ogni notte. Avevo iniziato a ricordare.
Sprazzi di ricordi misti a sogni: rumore di vetri rotti, pioggia e lamiere che si contorcevano attorno al mio corpo martoriato; la sensazione di sangue caldo che colava lento dal mio viso ferito, lo stomaco in subbuglio, il dolore, più vero del vero; il senso di nausea che risaliva dal mio esofago. Ricordavo, sentivo, quando avrei voluto soltanto anestetizzare tutto il dolore. Mi misi a sedere di scatto, madido di sudore Mi ero appisolato sotto il grande platano e i sogni mi avevano colto impreparato. Aprii gli occhi e poi li chiusi, accecato dal candore del suo abito leggero e inebriato dal suo profumo di caprifoglio.
Lei era seduta accanto a me, ma mi dava le spalle.
"Sei malato?" quella era la prima volta che sentivo la sua voce, ma a differenza di come me l'ero aspettata, non aveva nulla di cristallino o etereo, ma era bassa e roca, quasi spezzata. Mi avvicinai a lei cercando di vedere il suo volto, ma la tenda dei capelli mi rendeva arduo il compito.
"No" Risposi allora, sperando che finalmente si girasse lasciando che la guardassi "O forse sì, non saprei, credo che sia la mia anima ad essere malata..."
"Anche la mia..." disse con voce tremula, "per questo vengo qua, questo luogo mi calma, vederti a lavoro mi calma..."
"Cos'altro ti tranquillizza?" dissi muovendomi leggero, cercando di scorgerla tra i capelli.
"Essere lontana da casa, essere qui, tra i fiori di questo giardino, vederti da lontano e sperare, sperare intensamente che tu ti accorga della mia presenza."
"Sono qui," le dissi e lei alzò il suo viso; i suoi occhi grigio tempesta furono nei miei, scuri di desiderio malcelato "mi sono accorto di te!" sussurrai baciandola sulla bocca.
*Quando inizierò a gridare, lei non mi abbandonerà
invece io mi sto innamorando di un angelo.
E attraverso tutto ciò, lei mi offre protezione,
tanto amore e affetto
che io stia bene o male,
e sotto la cascata
in qualunque luogo sia lei mi prenderà
io so che questa vita non mi spezzerà
Quando inizierò a gridare, lei non mi abbandonerà
invece io mi sto innamorando di un angelo.
*Angels _ Robbie Williams
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Rieccomi, anno nuovo, capitolo nuovo. Spero si sia capito, ma tutto questo capitolo e parte del prossimo è un flashback indietro nel tempo. Il capitolo ne ricalca uno precedente, ma arricchendoli di dettagli e eventi inaspettati...
Spero vi piaccia la piega che sta prendendo la storia.
A presto e a tutti buon 2022.
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Angels è un singolo del 1997 di Robbie Williams tratto dal suo primo da solista, scritto da Guy Chambers e Robbie Williams.Angels è uno dei brani più noti della discografia di Williams. Per molti è il brano che ha lanciato de facto la carriera solista di Williams, e rimane tutt'oggi il suo singolo più venduto nel . Con 1.210.000 copie vendute, risulta inoltre il 48º singolo di maggior successo di sempre nella storia del Regno Unito.
In un'intervista rilasciata al , il cantante inglese ha affermato: "La prima vera canzone che ho scritto è Angels che parla di veri angeli. Le persone credono che sia dedicata a mia madre o a qualcuno che ho amato, ma in realtà parla di angeli".
Ha poi continuato dicendo: "Questi fenomeni sono sempre stati una costante nella mia vita quindi non c'è stato un solo istante in cui io non sia stato cosciente del fatto che ci fossero delle presenze invisibili".
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