17 - Dolore
Oggi mi sono fatto del male
Per vedere se ero ancora in grado di sentire,
Mi sono concentrato sul dolore,
la sola cosa reale
l'ago fa un buco
la vecchia solita puntura
che cerca di eliminare ogni cosa
ma io ricordo tutto*
Nine Inch Nails / Johnny Cash - Hurt
L'orchidea che poggiai sulla loro tomba era candida come la neve...
"Per voi... ovunque voi siate, spero possiate perdonarmi un giorno." Sussurrai alla lapide in cui erano incisi i nomi delle uniche due donne che avevo davvero amato. In bella vista la foto scattata al loro ultimo compleanno; curiosamente coincidenti le loro date di nascita e di morte. La vista mi si appannò per un breve istante, mentre i ricordi di quella festa, alla quale ero arrivato in ritardo, perché mi scopavo Stella in ufficio, tornavano a invadermi la mente.
Non ero stato un buon padre, non ero stato un buon marito e quella sera avevo comprato distrattamente i regali per le mie ragazze. Non avrei mai immaginato che fosse l'ultimo compleanno che passavo con loro.
La pioggia bagnava ancora il mio corpo, ma nonostante le richieste di Sean, rifiutai di ripararmi sotto l'ombrello che mi aveva porto. Se non riuscivo più a piangere, avrei lasciato che il cielo lo facesse al posto mio.
"Daniel..." fu la flebile protesta che uscì dalle sue labbra.
"Lasciami ancora un po' qui, Sean, ti prometto che non farò cazzate," risposi lieve, gli occhi fissi su quei sorrisi che non avrei più visto. "Se hai da fare, non preoccuparti, prenderò un taxi per tornare a casa, tu intanto vai, Alexandra ti starà aspettando, non farla preoccupare; abbi cura di lei, tu ancora puoi farlo." Sean poggiò una mano sulla mia spalla, consapevole che questo era un modo gentile per fargli capire che avevo bisogno di restare solo con loro.
"Vado ad avvisarla," convenne "se non mi sente, diventa subito paranoica... saranno gli ormoni in subbuglio." Mi voltai di scatto verso di lui e lo strinsi in un abbraccio forte. Alex era incinta, ne ero certo, Sean stava per diventare padre...
"Quando pensavi di dirmelo, eh, brutto stronzo?!" dissi rimproverandolo bonariamente. Negli occhi di mio fratello un'espressione strana, quasi si sentisse in colpa perché la vita gli stava regalando ciò che a me aveva tolto.
"Non sapevo come dirtelo, non trovavo il momento giusto e certamente non volevo che lo sapessi ora, in questo posto." Il suo viso si posò lieve e rammaricato sulla tomba che ospitava mia moglie e mia figlia.
"Perché, io sono così felice per voi e sono certo che lo sarebbero state anche Lily e Sarah," mi affrettai a rassicurarlo. Sì, ero davvero felice per mio fratello. A differenza mia, lui non aveva mai fatto nulla perché il destino si accanisse sulla sua vita; io invece avevo fatto di tutto per sputare in faccia alle mie fortune, con nella testa l'assurda convinzione di essere invincibile e al di sopra dei comuni mortali, in un delirio di onnipotenza che mi aveva inevitabilmente precipitato nell'autodistruzione.
"Sono terrorizzato" sospirò Sean, il tono a metà tra il sollevato e il preoccupato.
"Sarai un padre fantastico, tu non sei come me, grazie a Dio!"
"Daniel..."
"E' la verità, Sean, sono stato un fallimento come uomo, come marito, come padre, tu non commetterai i miei stessi errori, ne sono certo." Il mio sguardo si posò ancora una volta sulla lapide che copriva i loro corpi e poi al cielo, che piangeva al posto mio, in una muta richiesta di perdono. "Ora vai da Alex, io aspetterò qui ancora un poco." Mio fratello annuì e si allontanò verso l'uscita del cimitero lasciando che la pioggia mi bagnasse ancora, che lavasse il mio dolore, che lenisse la ferita lacerante e purulenta che la loro perdita aveva lasciato nel mio cuore.
La pioggia aveva continuato a scendere senza sosta, mentre immobile restavo a fissare quella foto che le ritraeva sorridenti davanti ad un'enorme torta rosa.
Avevano sofferto o la morte le aveva portate via senza che se ne rendessero conto?
Questo pensiero mi logorava l'anima. Sperai con tutto il cuore che non si fossero accorte di nulla, che l'oscura signora se le fosse prese senza lasciar loro il tempo di sentirla avvicinarsi.
Sperai, pregai.
Quando Sean tornò, mi trovò ancora lì, madido di pioggia; gli occhi asciutti e il cuore pieno di lacrime.
"Ho contattato i miei amici a Oxford, ti aspettano per domani." La sua voce rifletteva la tristezza del distacco e la consapevolezza di quanto avessi bisogno di andare via.
"Parto stasera," risposi con un filo di voce. "Puoi accompagnarmi?"
"Ho già detto ad Alex che l'avrei fatto, immaginavo che non te la sentissi ancora di guidare, anche se..."
"Hai ragione, Sean, non mi sento pronto a rimettermi al volante, non con la pioggia comunque." Era buio quando lasciai Londra e il mio passato, probabilmente per sempre.
§§§§
Passeggio sotto la neve che cade ancora fitta, mi dirigo verso la scogliera e poi scendo giù, lungo la stradina ciottolosa che porta al faro. Nonostante tutto attorno sia imbiancato, noto che la strada del faro è libera, così come quella che collega i caseggiati della penisola alla statale che porta verso Milford Heaven. Tiro un sospiro di sollievo. Avrei potuto fare la mia consegna senza troppe difficoltà e gli sposi si sarebbero tranquillizzati. Faccio un cenno di saluto al guardiano del faro di Sant'Ann uscito a spalare la neve nel giardinetto della sua abitazione e volto le spalle al mare pronto a caricare il furgoncino che uso per i trasporti. Ho deciso di consegnare i fiori il giorno prima di quanto concordato, le previsioni preannunciano un peggioramento e non mi va di trovarmi in mezzo a una tempesta di neve per nessuna cosa al mondo. Un ultimo sguardo a quel candore abbacinante, un saluto a Eileen e metto in moto. Bianco, tutto bianco attorno a me, come il vestito della ragazza che frequentava ogni giorno i giardini botanici di Oxford...
§§§§
L'estate mi aveva colto di sorpresa, avevo perso l'inverno e la primavera a causa delle conseguenze dell'incidente e avevo perso il senso del normale scorrere del tempo.
Faceva caldo, soprattutto nella serra climatizzata delle orchidee, ma io lavoravo con minuzia e attenzione, incurante della calura umida, della fatica e del dolore, che nonostante i mesi di riabilitazione, mi faceva ancora pulsare il ginocchio.
I botanici che mi avevano assunto si erano meravigliati del fatto che non avessi mai lavorato con le piante e che praticamente non avessi nessuna esperienza con i fiori, che nelle mie mani sembravano rinascere a nuova vita. Mi chiamavano il mago delle orchidee, quello cui affidavano le piante in condizioni peggiori. Avevo un potere speciale, un dono, dicevano, quello di ridare la vita.
Magari fosse stato così, ma non esistono poteri speciali, non esiste magia, non c'è nulla che può riportare indietro chi ci ha lasciati per sempre. Crederlo porta alla follia ed io conoscevo bene le devastanti conseguenze del credersi invincibili.
Uscii fuori in cerca di frescura, la trovai sotto il grande platano che torreggiava al centro di uno dei giardini nei pressi delle serre.
Fu allora che la vidi.
Era una giornata di luglio e lei indossava un abito bianco e leggero. Era esile come un giunco, i lunghi capelli dorati le davano un aspetto quasi etereo, come una fata dei boschi. Distolsi lo sguardo per un istante, il tempo di stappare una cola e lei era sparita.
La rividi il giorno dopo e quello dopo ancora, sempre vestita di bianco, stessi capelli sciolti a incorniciarle il volto sottile.
Chiesi notizie di lei ai miei colleghi, poiché la vidi ancora e ancora per tutto il mese di luglio. Nessuno la conosceva, nessuno aveva mai parlato con lei. Solo qualcuno sosteneva di averla vista in viso e che quel viso era bellissimo e triste.
Agosto arrivò e con esso le prime piogge estive. Avevo affittato un piccolo appartamento nei pressi dei giardini, proprio sopra ai pub degli amici di Sean e anche se non amavo la confusione di quella strada, quella mi era sembrata la soluzione ottimale per le mie attuali condizioni di salute. Mi piaceva camminare, mi aiutava a distrarre la mente e nello stesso tempo, contribuiva a tenere in allenamento il corpo.
Quella mattina di agosto arrivai in leggero ritardo.
La scoprii li, a guardare attraverso i vetri della serra a camminare nervosamente attorno ad essa, nel suo vestito bianco e con i capelli sciolti che ondeggiavano nervosamente al ritmo del suo respiro affannato.
"Buongiorno, cerca qualcuno?" Una sola frase, pronunciata con lentezza. Un sobbalzo e la fuga. Tra le mie mani un leggero copri spalle bianco abbandonato sul prato verde.
Settembre arrivò con i suoi venti più miti e il lavoro più lieve. Avevo frequentato un corso di giardinaggio. Tutto pur di tenere la mente occupata dall'abisso tenebroso che la inghiottiva ogni notte.
Ricordavo.
Sprazzi di ricordi misti a sogni: rumore di vetri rotti, pioggia e lamiere che si contorcevano attorno al mio corpo martoriato; la sensazione di sangue caldo a colare lento dal mio viso ferito, lo stomaco in subbuglio, il dolore, più vero del vero; il senso di nausea a risalire il mio esofago. Ricordavo, sentivo, quando avrei voluto soltanto anestetizzare tutto il dolore.
"Buongiorno!" una voce di donna, lieve come il frusciare delle foglie mosse da una brezza leggera. "Si sente male?" Mi ero appisolato sotto il grande platano e i sogni mi avevano colto impreparato. Aprii gli occhi e poi li chiusi, accecato dal candore del suo abito leggero. Lei era lì di fronte a me, il suo volto, che ora potevo guardare bene, era dolce, la bocca piena, gli occhi chiari e incredibilmente tristi, proprio come i miei.
Ci sedemmo vicini in settembre, sotto l'ombra del grande albero.
Ci sedemmo senza parlare, senza toccarci, senza guardare l'una la tristezza negli occhi dell'altro. Solo il suono dei nostri respiri a invaderci la mente e a placare il cuore in subbuglio.
Ottobre ci colse con la sua pioggia fredda e con il dolore che portava con sé. Mi chiusi nella serra, incapace di comunicare con chiunque. Solo le orchidee a farmi compagnia. Lei venne ogni giorno, con il suo abito bianco e la maglia leggera che le avevo restituito, si fermò sotto il grande albero, che si era tinto dei colori dell'autunno, mi cercò con lo sguardo, sperò nella mia presenza. Non la raggiunsi mai.
Novembre fu duro e freddo. Il mio cuore era chiuso in una gabbia di ghiaccio, lo sentivo scalpitare in cerca di respiro, ma gli impedivo di battere per chiunque. Non meritavo di avere amici, non meritavo di trovare conforto. Era trascorso un anno ed io mi sentivo più devastato che mai. I ricordi riaffioravano a sprazzi nella mia mente, ricordai la violenza fatta a Sarah, con tutta la sua crudezza, ricordai il mio egoismo, la mia assoluta mancanza di pietà quando con gli occhi mi implorava di non farle questo, la sua paura, le sue lacrime silenziose, versate in macchina prima che le luci di quel maledetto camion mi facessero perdere il controllo. Ricordai le grida di mia moglie e poi un silenzio irreale.
La ragazza mi cercò sotto la pioggia di novembre, sulle spalle un cappotto bianco, ma io non avevo la forza di vivere e i suoi occhi, tristi come i miei, non potevano darmi conforto.
A Dicembre pensai che il dolore fosse troppo forte da reggere. A dicembre tentai di farla finita: i polsi tagliati con una scheggia di vetro della serra; il sangue a imbrattare le orchidee e il suo cappotto bianco. Lei mi salvò, quando io volevo soltanto morire. Mi salvò, senza dire una parola, senza chiedere una spiegazione. Mi salvò, ed io non conobbi mai il suo nome.
Era gennaio quando, dopo aver letto un annuncio e aver fatto ricerche sul luogo, raggiunsi la penisola di Sant'Ann. Attorno a me, tutto era coperto da una coltre bianca e soffice. Bianca, come il vestito di colei che mi aveva salvato senza chiedere nulla in cambio.
Indosso questa corona di spine
sulla sedia del bugiardo
pieno di pensieri spezzati
che non posso riparare
sotto le macchie del tempo
i sentimenti scompaiono
tu sei qualcun altro
io sono ancora qui*
Nine Inch Nails / Johnny Cash - Hurt
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Rieccomi a voi. Un altro lungo capitolo, che spero non vi annoi, un'altra lunga attesa...
Daniel comincia a ricordare e affronta in faccia la portata del suo dolore, un dolore talmente intenso da portarlo alle soglie della morte. Accanto a sé un personaggio silenzioso e misterioso, una donna vestita di bianco, che lo salva dall'autodistruzione.
La vita di Daniel è piena di persone disposte a salvarlo, nonostante tutto ciò che ha commesso, questo vuol dire che c'è speranza ? io mi auguro di sì, e voi?
alla prossima e buona fine estate
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Hurt è la quattordicesima e ultima traccia di The Downward Spiral, album del 1994 firmato Nine Inch Nails. La canzone è un saggio sul dolore; essa sviscera il disprezzo che un individuo può maturare nei confronti di se stesso in seguito a una o una serie di azioni sbagliate. Come introdotta dalla traccia precedente ad essa – da cui prende il nome l'album, The Downward Spiral – Hurt sembra essere l'ultima confessione di un uomo che pare non avere più nulla da condividere con la vita. Per quanto Hurt sia con il tempo diventata una delle punte di diamante della band di Cleveland, essa non si è fermata al solo marchiare i cuori del pubblico, ma si è scavata un posto anche in quelli di altri acclamati artisti. Su tutti, fu Johnny Cash nel 2002 a pubblicare un arrangiamento della canzone in grado di estrapolare i temi trattati da Reznor e traslarli in una dimensione temporale e sentimentale totalmente diversa. Quello che era stato un pianto di rabbia, con Cash si è evoluto in un'ammissione di colpe dai tratti maturi.
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