Capitolo 31

MARCO'S POV

"Anna..."Sussurro flebilmente. Sono freddo, ma in fondo in fondo, sono emozionato, moltissimo. Si nota e sono sicuro che anche Anna ha notato l'emozione che mi ha travolto.

"Marco..." Lei, invece, è in preda ad un pianto, ai singhiozzi che io stesso ho provocato.
"Non dobbiamo allontanarci per forza, ora l'ho capito, Marco." Continua lei a dire ed io penso subito ai giorni che ho passato al constante ricordo di lei.

"Mi hai fatto stare di merda, ti rendi conto?"

"Ma sì, perché giustamente io stavo benissimo a doverti ignorare, avendo la consapevolezza che un pollice sarebbe bastato a sentire la tua voce. Credi veramente che stessi bene? Mi sono sentita malissimo, volevo morire e ho davvero creduto di odiarmi. Marco, per me nulla di quello che abbiamo vissuto è stato scontato, banale e tantomeno io l'ho vissuto per scherzo, per svagarmi. Io..."

"Non lo dire, Anna. Non c'è bisogno."

"Sì che c'è bisogno. C'ho creduto veramente in noi."

"Io ho detto che non dovevi cercarmi." Cambio discorso, diventando freddo, ripensando al messaggio che le ho mandato poco fa. Volevo cambiare pagina e allora perché mi ritrovo a parlare con lei, perché?

"E invece ti ho cercato?" Chiede con tono ovvio ed guardo Roberto che mi sorride. Gli sorrido e poi rispondo ad Anna.

"Ed hai sbagliato. Perché mi cerchi solo quando hai bisogno, Anna? Perché mi hai voluto far male anche tu?" Le chiedo, con le lacrime che stanno per uscire, con la rabbia e l'ira a volersi fare strada, a sgomitare per impadronirsi di me; devo dire che ci stanno riuscendo.

"Volevo che ti dimenticassi di me."

"Ma non capisci proprio, eh? Sembravi la stabilità nell'incertezza e invece sei tu ad essere crollata." Le dico e so che ora sta cercando di non urlare perché sta digrignando i denti. La sto ferendo, ma questo solo perché mi sento ferito, di conseguenza.

"Perché?" Sussurra. So che sto usando le sue debolezze per farla sentire colpevole di ciò che è successo, ma il dolore, la rabbia hanno preso il sopravvento ed è per questo che a volte mi odio, mi sento male solo a pensare che la sto ferendo, ma, il lato più cattivo di me, sta godendo. Perché?

"Hai provato a cercare di immaginare almeno un po' il dolore che mi hai procurato, eh? Volevi che mi dimenticassi di te, ma io dico, se ti chiamavo, forse io volevo sentirti, non volevo dimenticarmi di te, non credi? Non farmi soffrire, non anche tu. Non far soffrire, non anche me."

"Perdonami, perdonami. Lo so, sono un'idiota. Non ti merito. Non volevo farti soffrire, mi è scappato tutto dalle mani... sono troppo sbagliata." Dice e si interrompe per sospirare. Una voce irrompe nel silenzio: la voce di Elena.

"Tesoro, scendi giù, è pronta la cena... Ah, scusa, non volevo disturbarti." Sento il rumore di una porta che viene chiusa.

Mentre sto per porle una domanda, lei mi interrompe e continua il discorso che stava facendo.

"Lo so che ti ho fatto soffrire, ma hai ragione. Dimmi, devo sparire?" Chiede e io rido una risata nervosa, amara, piena di tremenda tristezza.

"Sei già sparita, al massimo ti chiedo io di sparire se proprio dobbiamo fare bene la domanda. Comunque ti avevo detto di non cercarmi." Ripeto e la sento singhiozzare. Basta. Non voglio che pianga ancora.

"Dobbiamo litigare? Se è questo l'unico modo per parlare, sputiamoci la verità in faccia." Dice lei, non sapendo il rischio che corre. Lei non mi conosce, non sa come sono fatto, posso farle male, molto.

"Ti farai male." La avverto, ma non so se avrò davvero il coraggio . Diamine, le avevo detto che ci sarei stata io a proteggerla da ogni male e perché, allora, voglio farle del male proprio io?

"Parla. Sono abituata a soffrire, non mi spaventa. Io ti ho chiamato solo per cercare di parlare tranquillamente, per cercare un modo per vederci, per condividere il nostro amore. Voglio essere insieme a te, non importa dove. Voglio viverti giorno dopo giorno. Non voglio stare lontano da te anni e anni."

Sono emozionato per le sue parole, ho il cuore pieno di emozioni, anche la rabbia e l'ira, purtroppo.
"Sei proprio stronza, a volte. Io volevo far finire tutto e tu mi dici queste cose. Ma sai cosa, Anna? È tardi, troppo tardi per riunirci. Mi hai fatto male e ora, cara, mi dovrai odiare soltanto perché sai qual è la verità? Noi non ci conosciamo. Nessuno si conosce per davvero."

"Io ti conosco, nel mio piccolo. Non mi importa ciò che dici per scalfirmi, però ora fammi dire qualcosa. Hai parlato molto per farmi male. Questo che sto per dire ti farà male perché tu hai provato ad allontanarmi, ferendomi e io apprezzo lo sforzo, ma mi chiedo una cosa: come faccio ad odiare qualcuno che amo? Tu mi ferirai, ma io ti dichiarerò il mio amore. Ora parla. Ti aspetto. Aspetto la tua risposta."
Sto zitto perché so che a ferirla non ho ottenuto niente, a parte il suo disprezzo. Cerco parole da dirle, ma le uniche che mi vengono in mente, sono parole di apprezzamento, parole che credo di aver detto poche volte.

"Sei forte, Anna. Mi dispiace però, ora come ora sono accecato dal dolore e non mi sento di confessarti i miei sentimenti o che altro. Voglio solo dirti che sei forte, tanto." Le dico e, quando sono in procinto di chiudere la chiamata, la sento urlare.

"Tanto verrò da te e mi dirai che mi ami." Mi si riempie il cuore di orgoglio a sentirla parlare con tanta audacia e io non posso fare a meno di scoppiare.

"Ti amo, Anna, ma non ci conosciamo." Le confesso, ma, per ferirla ancora, quasi come un desiderio di urlarle contro l'ira che trattengo da troppi anni, le sputo parole che non penso, ma che potranno farle male talmente tanto da non cercarmi, da non volermi sentire parlare, da non farla venire a casa mia per il troppo dolore.

"Non voglio che tu venga. Non mi ha fatto male la tua fuga ma mi han fatto male i muri che hai innalzati. Non ti fidi di me, non mi conosci. Non mi fido di te, non ti conosco, ma ti amo, Anna."

E chiudo la telefonata. Chiamo Roberto e lo faccio salire in auto. Non parlo, ma premere l'acceleratore mi fa stare bene, dannatamente bene.

"Quindi?" Chiede Roberto.

"Quindi nulla. Io non andrò da lei, lei non verrà da me. L'ho ferita per convincerla a non venire." E accelero, pensando a quello che ho fatto, pensando a quanto sono idiota ed ingrato.

"Sei proprio uno stronzo, lasciatelo dire, fratello."

"Lo so, ma almeno sa che la amo. Sai, le ho detto cose dolorose, molto dolorose, ma alla fine le ho detto che la amavo per farla rimanere lì, a Roma." Affermo, con la voce rotta e col piede sull'acceleratore che preme sempre più forte.

"Sei uno stronzo. Spiegami, cosa ti è preso?"

"Niente, non mi è preso niente." O forse il tutto mi ha sconvolto. Intanto arriviamo a 180 km/h.

"Marco, rallenta." Mi consiglia Roberto, ma lo ignoro e continuo ad accelerare. Voglio morire. Mi sento uno stronzo, un ingrato per averle detto quelle cose.

"Marco, cazzo, rallenta!"

"No!"

"Marco!" Lo sento urlare, lo schianto, rumori assordanti e poi il niente. È proprio così che doveva finire?

Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.

Virgilio

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