Capitolo 18 - Lui
And my scars remind me that the past is real;
I tear my heart open just to feel
PapaRoach
Un grido lontano mi sveglia. Non realizzo subito di essere proprio io a urlare.
Mi alzo di soprassalto, con il fantasma di quell'urlo che mi rimbomba ancora in testa.
Era solo un sogno, mi dico, cercando di calmare il cuore che mi martella nel petto. Mi siedo in mezzo al letto e, come nel sogno, neanche adesso la luce del sole brucia la mia pelle. Mi scosto i capelli dal viso e mi guardo intorno: a quanto pare, la parte dell'ospedale era reale. Il monitor alla mia sinistra ticchetta, indicando i battiti del mio cuore, e dal mio braccio spunta un ago collegato a una flebo. Una piccola radio sul comodino trasmette musica rock, e un paio di bacchette sono appoggiate lì vicino. Conosco solo una persona che non si sposta mai senza averle con sé.
Al pensiero di mio fratello, lentamente, tutto torna a galla: il sangue, gli omicidi, la lotta e quel veleno che avrebbe dovuto far finire tutto.
Perché non ha funzionato?
Non chiedevo nient'altro, solo la fine di questa dannata sofferenza. Una cosa però è cambiata: quella rabbia che mi tormentava è sparita. Poi, come in una tempesta, la mia mente viene sconvolta da un'immagine: lei. Lei distesa a terra in quella chiesa, lei nel mio sogno, senza vita e coperta da quel lenzuolo. Sto per alzarmi dal letto e staccarmi l'ago dal braccio per andarmene, quando qualcuno entra nella stanza.
«È sveglio, correte!». Seb urla di gioia, precipitandosi al mio fianco. Mi stringe in uno dei suoi abbracci "spezza ossa", di quelli che riserva solo a me, e inizia a singhiozzare sulla mia spalla.
Lo stringo a mia volta per fargli capire quanto mi sia mancato. «Mi dispiace», è l'unica cosa che riesco a sussurrare con voce rauca.
«Stai bene, è questo che conta, fratello mio», mi rassicura appena riesce a smettere di piangere.
«Ma cosa è successo?», gli chiedo. «La mia pelle non brucia più al sole e non sento più il bisogno di...».
«Sei salvo, è tutto finito», si limita a dire con un sorriso.
Posso davvero illudermi di essere tornato normale?
Seb mi avvicina uno specchio e quello che vedo mi spiazza: i miei occhi non sono più neri, sono tornati azzurri.
Un medico entra trafelato. «Come ti senti?», mi chiede con tono gentile.
«Sto bene», rispondo, e torno a guardare Seb. «Lei dov'è?».
Lui abbassa lo sguardo e si rabbuia. «Dimmelo, Seb. Sta bene?».
«Anche lei si trova qui in ospedale». Si schiarisce la voce e alza di nuovo lo sguardo. «C'è stato un incidente e...».
Mi alzo velocemente dal letto, ma il dottore mi ferma. «Dove credi di andare?».
«Sto bene», ripeto. «Devo andare».
«Hai ancora bisogno di cure. Non puoi andartene così».
«Potrei accompagnarlo e assicurarmi che torni», interviene Seb.
Il dottore ci osserva esitante, ma Seb è più bravo di me con le persone, quindi rimango in silenzio.
«D'accordo, ma vi voglio qui entro mezz'ora», acconsente con un mezzo sorriso.
«Grazie», gli dico senza incrociare il suo sguardo.
Mi appoggio a Seb trascinandomi dietro il palo con la flebo attaccata e ci dirigiamo verso il quarto piano. Non c'è molta gente in giro per i corridoi: dev'essere da poco passata l'ora di pranzo. Stranamente Seb non dice una parola.
«È così grave?», gli domando preoccupato.
«Vedrai tu stesso».
Mi conduce in una stanza simile a quella del mio sogno. Stavolta il viso di lei è scoperto e la sua espressione è rilassata. Ha gli occhi chiusi, però, e la luce del sole la illumina parzialmente. È attaccata a un respiratore e il battito del cuore sul monitor non è regolare come il mio, bensì molto più lento. Sento le gambe cedermi, se non ci fosse Seb a sostenermi cadrei a terra.
C'è Alice accanto a lei, le stringe la mano e piange in silenzio. Appena si accorge di noi la sua espressione cambia, si fa più dura. Si asciuga le lacrime con il dorso della mano e si rivolge a me: «Non voglio che tu stia qui».
Vorrei parlare, dirle che mi dispiace, che è tutta colpa mia, ma le parole non vogliono saperne di uscire.
«Andiamo, piccola», prova a convincerla Seb. «Si è appena ripreso».
«E che mi dici di lei? Forse non si riprenderà mai ed è tutta colpa sua!».
«Ha ragione», dico. «Non merito neanche di avvicinarmi a questa stanza».
L'espressione di Alice si ammorbidisce un po', ma non dice nulla. Tiro il braccio di Seb e lo trascino fuori.
«Dalle tempo, le passerà», mi rassicura lui con un mezzo sorriso.
«Torniamo in camera», dico guardando il pavimento.
Percorriamo la strada a ritroso e mi stendo sul letto della mia stanza.
«Guardiamo qualcosa in tv, che ne dici?».
«Scusa, sono stanco», mento, «vorrei riposare un po'. Potresti lasciarmi solo?».
«Posso restare qui con te lo stesso».
«Vai a riposare anche tu, ci vediamo domani». Mi giro sul fianco per fargli capire che non ho intenzione di cedere.
Lo sento chiudere la porta e finalmente posso abbandonarmi alle lacrime. È tutta colpa mia: Kris è in quel letto a causa mia, sono stato io a lasciare che si riducesse in quel modo. Io e tutta quella rabbia che mi portavo dentro. Non posso fargliene una colpa se voleva rifarsi una vita dopo che l'avevo lasciata in quel modo.
Lascio uscire le lacrime, sperando che con esse esca anche questo peso che mi opprime il cuore. Ma so di illudermi, non se ne andrà mai. Non riuscirò mai più a guardarla senza ripensare a quello che le ho fatto.
Cado in uno stato di torpore, e i suoi occhi verdi continuano a venirmi in sogno.
✽✽✽
Quando mi sveglio, la stanza è immersa nel buio, a parte la flebile luce del monitor. Seb mi ha lasciato un cellulare per le emergenze; ho distrutto il mio prima di andarmene. Ma l'unica persona che vorrei chiamare non può rispondere, perciò non mi serve a niente. Devo alzarmi, voglio rivederla, ne ho bisogno. Starò attento a non farmi vedere da Alice, che di sicuro non l'avrà lasciata sola nemmeno per un secondo. Se dovesse svegliarsi, non potrò più avvicinarmi a lei, non dopo quello che le ho fatto. Devo approfittarne adesso per imprimermi nella memoria il suo viso.
Mi trascino dietro il palo con la flebo e arrivo sulla soglia della stanza: come avevo immaginato, Alice è ancora qui. È seduta accanto a lei e ha appoggiato la testa sul cuscino per cercare di dormire. Le osservo in silenzio, cercando di non fare rumore. Non so quanto tempo passi, ma non riesco a muovermi. Cerco di carpire ogni dettaglio: la ciocca di capelli che le ricade sul viso, una piccola mano che spunta dal lenzuolo, persino il rumore del suo respiro, seppure aiutato dal macchinario.
All'improvviso mi sento osservato e noto che Alice è sveglia, anche se non si è mossa. Mi fissa con un'espressione strana. Alla fine si alza e mi viene incontro. Vorrei andarmene, ma le gambe non collaborano.
«Come stai?», mi chiede con un sorriso freddo.
«Non conta come sto io. Dimmi di lei».
«Non c'è molto da dire», mormora tormentandosi le mani. «È incosciente da quando vi abbiamo portati qui, due giorni fa. Il proiettile ha sfiorato un polmone».
«Cosa dicono i medici?»
«Dicono che è in shock ipovolemico, cioè ha perso molto sangue a causa del proiettile, che per fortuna è uscito dall'altra parte. Le hanno fatto una tac e dovranno operarla a breve».
Mi appoggio allo stipite della porta, annientato dal dolore. «Perché ha fatto tutto questo per me? Non lo meritavo».
«Non ha dato ascolto a nessuno, voleva solo che tu stessi bene, non importa quanto continuassi a trattarla male».
«Io...»
«Lo so che non eri tu, quello. Ma è stato orribile lo stesso».
«Ne sono consapevole», le dico e restiamo in silenzio a osservarla.
«Mi dispiace di averti trattato in quel modo, prima», ammette dopo un po'. «Sai che ti voglio bene, ma è dura vederla così».
«Non ti biasimo di certo. Dovrei esserci io, in quello stato, non lei. Ti giuro che non soffrirà mai più a causa mia, Alice».
«Se te ne andassi di nuovo starebbe malissimo e lo sai bene».
«Forse all'inizio. Ma poi andrebbe avanti». Mi torna in mente l'immagine di lei abbracciata a quel ragazzo: da adesso in poi è così che dovrò immaginarla, per impedirmi di tornare sui miei passi. Sempre ammesso che si riprenda.
«Le dirai addio, almeno?».
«Non so se sia una buona idea. Mi farei convincere a restare, ma poi non riuscirei più a guardarla senza immaginarla in questo letto».
Mi stringe un braccio per cercare di confortarmi. «Vieni a trovarla quando vuoi. Non ti allontanerò».
✽✽✽
Passano i giorni, e trascorrono tutti allo stesso modo. I miei genitori adottivi mi chiamano ogni mattina. Seb gli ha raccontato la stessa storia che ha propinato alla polizia: io, lui, Alice e Kris stavamo facendo un viaggetto in macchina quando siamo stati fermati da un tizio armato che voleva derubarci. Io ho cercato di proteggerli ma non ci sono riuscito e l'uomo è scappato dopo aver esploso un colpo di pistola. Non poteva dir loro la verità e rischiare di farli venire qui. Sono partite le indagini, ma è chiaro che non troveranno mai il colpevole.
Non me la sento ancora di vedere la mia famiglia, gli ho fatto promettere di non precipitarsi qui, assicurandogli che andrò a trovarli appena possibile. Durante il giorno aspetto che i medici vengano a controllarmi, con Seb che non si allontana da me se non per andare in bagno, invece la notte la passo accanto a lei. Alice ogni tanto ci lascia da soli e va a casa a riposare per qualche ora, e quelli sono i momenti che preferisco. Appoggio il viso accanto al suo e le parlo per tutto il tempo, le racconto aneddoti di quando ero piccolo oppure ricordo i momenti che abbiamo trascorso insieme.
Domani verrò dimesso. Sarà dura starle lontano e non rivederla mai più, mi ci vorrà tutta la forza che sarò in grado di usare, ma è per il suo bene. Non riesco a non punirmi per quello che le ho fatto. Seb mi ha raccontato tutta la storia e sembra ancora un dannato incubo. Adesso sto aspettando che lui vada a casa, è quasi buio e la pioggia batte sul vetro della finestra.
«Stamattina ho messo in ordine la tua stanza, c'era una tale confusione!», mi dice con il solito entusiasmo.
«Ne abbiamo già parlato», lo interrompo. «Domani me ne andrò».
«Ma perché non puoi rimanere? Lei avrà bisogno di te, e anche io».
«È meglio così, Seb. Ho fatto soffrire tutti, non posso continuare a stare qui».
«Ma non è stata colpa tua, non eri in te!». Si avvicina e mi afferra un braccio. «Ti prego».
«Tu non capisci. Io volevo farvi soffrire», gli confesso. «Vuoi sapere perché vi odiavo?».
Annuisce e si siede sul bordo del letto.
«Durante la trasformazione mi sono ritrovato in una specie di limbo. Ho visto com'era la vostra vita da quando ero andato via». Abbasso gli occhi. «All'inizio ero a casa nostra, ti ho seguito mentre ti incontravi con un tuo collega. Gli raccontavi di aver già trovato qualcuno che prendesse il mio posto nel nostro appartamento».
Il suo sguardo si fa colpevole, ma mi lascia continuare.
«Non sono riuscito a rimanere lì, perciò sono andato da lei. Era tra le braccia di un tipo che credo fosse il suo ex fidanzato. Non ci ho visto più... Ho lasciato entrare l'oscurità perché il dolore era davvero troppo da sopportare».
«Era Alice», dice soltanto.
«Cosa?»
«Era con lei che pensavo di andare a vivere, ma non prima di averti trovato. Mi dispiace che tu abbia anche solo potuto pensare che ti avrei sostituito. Tu sei mio fratello, sempre e comunque».
Quelle parole mi scaldano quel poco di cuore che mi è rimasto nel petto.
«Quanto a Kris», continua, «ha perso te e sua madre in pochissimo tempo, e ci ha raccontato di aver rivisto il suo ex quando è andata in Italia. Ma sei sempre stato tu quello che voleva, infatti è tornata subito dopo il funerale. Soltanto che tu eri già molto lontano».
«È stato tutto un malinteso», sussurro. «Forse le cose sarebbero andate diversamente se avessi saputo la verità».
«Non fa niente. Adesso potremo tutti ricominciare».
«Non capisci», obietto alzando la voce. «Io non riuscirò mai a farmene una ragione, guarda come l'ho ridotta!».
Qualcuno bussa alla porta e ci interrompe. «Disturbo?», dice rimanendo sulla soglia. È Alec, e subito mi irrigidisco.
Seb sorride e gli fa segno di entrare. «È arrivato il momento che voi due vi conosciate, finalmente».
Lo guardo con fare interrogativo, e il vampiro si accomoda su una sedia accanto al mio letto. «Mi fa piacere che tu stia meglio».
«G-grazie», mormoro, non sapendo cos'altro dire.
«Ti ricordi del nostro incontro?»
«Fin troppo bene... Mi dispiace di averti picchiato in quel modo».
«So bene come ti senti. Ci sono passato anche io e so che non è piacevole». Osserva il medaglione che gli pende dal collo e passa un dito su quella pietra scintillante.
«Seb mi ha raccontato dell'amuleto e di come hai deciso di dare quel sangue a me. Perché lo hai fatto?», gli chiedo con fervore. «Avresti dovuto uccidermi».
«La colpa per ciò che ti è successo non è mai stata tua. Meritavi un'altra occasione di avere una vita normale».
«E se io non la volessi più?»
«Dopo tutto quello che Kris ha sacrificato per salvarti, è il minimo che tu possa fare».
Abbasso lo sguardo: ha ragione, anche se è difficile ammetterlo.
«Sono stato da lei, a proposito», afferma rivolgendosi a entrambi. «Alice mi ha detto che domani la opereranno. Le ho dato un altro po' del mio sangue, sperando che funzioni come l'altra volta».
«L'altra volta?», chiedo sconcertato, ma poi i racconti di Seb tornano a galla. «È vero, l'hai salvata».
«Come ti ho detto, anche io ho passato quello che hai passato tu: la rabbia, il desiderio di fare del male. Nemmeno io sono riuscito a superare la trasformazione, e se i tuoi amici non mi avessero messo al collo l'amuleto non so dove saremmo adesso».
«Quindi il tuo sangue la farà stare meglio?», gli chiedo interrompendo il silenzio che si era creato.
«La scorsa volta non era in condizioni così critiche. Aveva soltanto perso del sangue, perciò si è ripresa subito. Stavolta, invece, c'è di mezzo uno di quei proiettili».
Annuisco.
«Non so come andrà a finire, non ci rimane che aspettare».
«A proposito», continuo, «che fine ha fatto Edgar?».
«Ti basti sapere che me ne sono occupato io», mi risponde con un ghigno, e i suoi occhi, così simili ai miei, brillano di una strana luce.
«Ti sei perso la sua espressione quando gli abbiamo detto che nel medaglione era contenuta la cura e che non esisteva nessun tesoro!», esclama Seb ridendo. «Un momento davvero magico».
Quantomeno non dobbiamo più preoccuparci di quel bastardo, penso sollevato.
Parliamo per un altro po' del più e del meno, e poi Seb e Alec vanno via. Questa è l'ultima notte che potrò passare accanto a lei. Mi avvio lungo l'ormai familiare corridoio ed entro nella sua stanza, solo che stavolta lei e Alice non sono da sole. Alice sta discutendo accanto alla finestra con una ragazza che rivolge le spalle alla porta, vicino al letto c'è un ragazzo che tiene Kris per mano. Lo osservo meglio e sento le gambe tremare quando capisco di chi si tratta: è lo stesso che durante la mia trasformazione la teneva stretta su quel divano. Non distoglie lo sguardo dal viso di lei, ma credo che si senta osservato, perché all'improvviso si volta verso di me con occhi indagatori. Anche Alice si accorge della mia presenza e si avvicina.
«Ti stavo aspettando». Mi sorride.
«Torno più tardi», dico voltandomi per andarmene.
«Aspetta», mi ferma Alice. «Questa è Kathy, la cugina di Kris».
«Tu devi essere Adam», commenta lei. «Kris mi ha parlato molto di te».
Il tipo sussulta, e la sua espressione si fa più dura.
Annuisco e le faccio un sorriso veloce: si assomigliano molto, gli stessi occhi verdi illuminano i loro visi, anche se i suoi sono di una sfumatura più scura.
«E lui è Riccardo», continua Alice, distogliendo lo sguardo. «È venuto insieme a Kathy quando ha saputo dell'incidente».
Lui continua a osservarmi torvo, ma io non riesco a distogliere lo sguardo dalla sua mano che stringe quella di lei. Il suo respiro sembra un po' più regolare, ma forse è soltanto la mia impressione.
«Ora torno nella mia stanza, inizio a sentirmi stanco».
Mi avvio nel corridoio, tuttavia Alice mi viene dietro. «Non sapevo che lui sarebbe venuto», mi spiega. «Ho pensato di avvertire Kathy, ma non immaginavo che avrebbe portato con sé quell'idiota». Sbuffa.
«So che devo starle lontano, ma vederla insieme a lui mi fa ribollire il sangue».
«Anche a me. E sono certa che lei vorrebbe te al suo fianco, non lui. Seb mi ha detto che domani te ne andrai», aggiunge. «Sei proprio convinto della tua decisione?»
«Diventa ogni momento più difficile... ma devo farlo».
«Penso che andrò un po' a casa a riposare allora». Si sporge dalla porta della stanza e dice: «Ragazzi, venite con me?». Alice si stiracchia e ritorna dentro. Le indirizzo un sorriso grato, perché so che lo sta facendo per lasciarmi del tempo da solo con lei.
Kathy annuisce, invece Riccardo mi rivolge uno sguardo ostile. «Vorrei restare qui ancora un altro po'», replica.
«Mi dispiace ma sono esausta. Torneremo domani mattina», ribatte. Poi si avvicina e viene ad abbracciarmi. «Non sparire», mi sussurra all'orecchio.
È davvero la ragazza perfetta per Seb, penso con un sorriso, ricambiando l'abbraccio. «E tu prenditi cura di loro», la prego, trattenendo le lacrime.
Lei annuisce e, dopo avermi stretto un'ultima volta, se ne va insieme agli altri due.
Mi siedo finalmente accanto a Kris e le accarezzo il viso. La sua espressione è rilassata: mi chiedo cosa stia provando in questo momento. Le stringo la mano per farle sentire che sono qui. Le parole iniziano a fluire incontrollate dalla mia bocca.
«Dovrei esserci io a soffrire in questo letto», mormoro. «Non dovevi mettere a rischio la tua vita per me, non lo meritavo. Sei la cosa più bella che mi sia capitata, eri tutto ciò che desideravo. E che continuerò a desiderare per sempre, anche se non ti avrò mai». Le accarezzo il viso e le sfioro i capelli, maledicendo la vita per quello che abbiamo dovuto passare.
«Non avrei mai pensato di innamorarmi di qualcuno, anzi, non era proprio mia intenzione. Ma poi sei arrivata tu e hai mandato al diavolo tutti i miei propositi. Ti prego, svegliati, e ti prometto che non soffrirai più per colpa mia».
Inizio a cantarle piano all'orecchio alcune mie canzoni, e in men che non si dica è l'alba. È arrivato il momento di dirle addio prima che tornino gli altri. Avvicino le labbra alle sue e la bacio, trasmettendole tutto l'amore che provo per lei dal momento in cui l'ho vista la prima volta. Ricordo gli sguardi rubati, il suo arrossire quando la sorprendevo a guardarmi da lontano e la timidezza dei nostri primi incontri, quando cercavo ogni scusa per vederla anche solo per un momento, adesso invece devo obbligarmi a starle lontano.
«Continuerò ad amarti, non smetterò finché avrò vita», le prometto con un filo di voce.
Cerco a fatica di staccarmi da lei, quando mi accorgo di non essere più da solo.
«Scusa, non volevo disturbare».
Sento il sangue gelarsi nelle vene: è Riccardo. Indossa gli stessi vestiti di ieri sera e sembra che non abbia chiuso occhio.
«Entra pure, stavo per andare via», mi limito a dire, evitando il suo sguardo e facendo un passo indietro.
Si siede accanto al letto e sospira. «Credo che tu sappia chi sono».
«E di sicuro tu sai chi sono io».
Annuisce pensieroso, mandando indietro i capelli chiari. «Grazie per esserti preso cura di lei quando io non c'ero».
«Quando l'avevi lasciata, intendi dire».
«Da quello che so, anche tu hai fatto lo stesso», ribatte in tono ostile.
«Scusa se te lo dico, ma tu non sai proprio nulla di me».
«Non ho nessuna intenzione di fare sceneggiate», dichiara alzando i palmi delle mani. «So che stai lasciando la città, perciò ti ho concesso del tempo per dirle addio».
«Non illuderti, non sei tu la causa per cui me ne vado. Ma sappi che se la farai soffrire di nuovo, ti verrò a cercare».
«Sei l'ultima persona al mondo che può farmi la predica, è colpa tua se lei si trova in questo letto. Io avrei saputo proteggerla».
«Tu pensa solo a trattarla bene», sibilo, ed esco dalla stanza prima di cambiare idea.
✽✽✽
Nonostante l'impegno di Seb, la casa è rimasta com'era prima della mia partenza: incasinata e fredda, proprio come me. La mia moto è parcheggiata qui fuori in attesa di portarmi lontano da questo posto. Raccolgo le mie poche cose e le butto alla rinfusa in uno zaino, mentre Seb continua a pregarmi di rimanere. Guarda impaziente la porta e mi chiedo cosa stia architettando.
«Non puoi lasciarmi di nuovo», piagnucola.
«Ne abbiamo già parlato, Seb. Ogni tanto potrai venire a trovarmi».
«Ma io voglio che tu resti. Lo sai che non posso vivere da solo, mamma e papà non mi avrebbero neanche mandato qui se non ci fossi stato tu!».
«Non sei da solo, hai trovato Alice. Guai a te se fai qualche cazzata».
«Ne farò di sicuro, senza di te a dirmi di non farne».
«Hai ragione». Sorrido. «Vorrà dire che ti chiamerò spesso per ricordartelo».
Seb è stato il mio punto fisso da quando sono scappato dall'orfanotrofio: non avrei mai immaginato di allontanarmi volontariamente anche da lui. Eppure devo farlo, merita di vivere la sua vita.
Appena finisco di chiudere lo zaino, bussano alla porta. Seb sobbalza e sussurra «Finalmente!», credendo forse di non essere sentito.
Lo guardo irritato mentre un ragazzo lo saluta ed entra in casa. Mi sembra di averlo già visto: porta gli occhiali e ha i capelli scuri come i miei.
«Adam, questo è Andrew!», esclama Seb con uno strano sorriso.
Sospiro e guardo il tipo tendere la mano per stringere la mia. Ricambio con riluttanza la stretta e la sensazione di conoscerlo non mi abbandona neanche adesso.
«Sono tuo cugino», confessa all'improvviso.
Sgrano gli occhi e lo osservo meglio: in effetti c'è una leggera somiglianza tra di noi, ma... io sono sempre stato solo, come posso adesso avere un familiare?
«Tu...», borbotto, «anche tu eri in quella chiesa».
«Ti racconterò tutto, se hai tempo», si limita a dire guardando il mio zaino.
«Non è una delle tue trovate per farmi restare, vero?»
«Non potrei mai inventarmi una cosa del genere», mi risponde Seb. «Hai una famiglia adesso».
«Io ho già una famiglia, Seb», ribatto. «Tu e i tuoi genitori, ci siete stati sempre e solo voi».
«Non sapevo della tua esistenza», mi spiega Andrew. «Non appena ho saputo di te ho lasciato tutto e sono venuto a cercarti».
Mi racconta dei nostri genitori, di come suo padre non ha mai parlato di mia madre o me e di come ha scoperto tutto tramite John. Mi gira la testa, devo sedermi. Quando sono arrivato a Kratas non avevo nessuno a parte Seb, adesso ho addirittura un cugino.
«Non so che dire», affermo alla fine del racconto. «È l'ultima cosa che mi sarei aspettato».
«Spero che avremo la possibilità di conoscerci meglio». Sorride. «Mi hanno raccontato tanto su di te, ma conoscerti di persona è tutt'altra cosa».
Annuisco guardando la porta. Sono sempre deciso ad andarmene, ma adesso è ancora più difficile. Ora ho un legame di sangue, il primo da quando ho perso i miei genitori.
«Potresti venire a trovarmi insieme a Seb, qualche volta».
«Vuoi ancora partire?», dice deluso.
«Devo farlo, mi dispiace».
In quel momento squilla il cellulare di Seb, che risponde al volo. Sta in silenzio per qualche secondo e poi riattacca. «Era Alice», ci informa, e il mio cuore perde un battito. «L'operazione è finita, adesso non ci resta che aspettare».
«Si riprenderà, vero?», chiede Andrew.
«Non lo sappiamo... possiamo solo sperare».
È tutta colpa mia.
Queste parole continuano a ronzarmi in testa e a farmi odiare me stesso sempre di più. Afferro lo zaino e vado verso la porta.
«Vi scriverò dove sono, così potrete venire a trovarmi», dico senza guardarli.
«Ma...».
«Devo andare, Seb».
Dopo averlo abbracciato di sfuggita, indosso il casco e salgo sulla moto. Il rombo del motore ha un che di confortante e il vento freddo mi sferza il viso, e mi allontano per sempre da Kratas.
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