Capitolo XXII - Spaccature

Capitolo XXII - Spaccature

Steve sa perfettamente che, lo stato in cui si trova, è quello di una rassicurante dormiveglia. Ha chiuso gli occhi solo dopo essersi accertato che Eddie si fosse addormentato, perché si sente un po' il guardiano del suo sonno, da quando l'altro ha avuto quell'incubo - o quella visione, come Nancy preferisce chiamarla - e forse, dall'altra parte, per Eddie è rassicurante che si siano stabiliti questi ruoli, e va bene così.

Hanno passato tutta la sera a parlare nel letto, dopo cena. A scambiarsi qualche segreto, qualche aneddoto divertente, perché dopotutto si conoscono da una vita, ma per i motivi sbagliati e, ora che tra loro è nato qualcosa, si avverte il desiderio di conoscere il più possibile l'uno dell'altro, con la paura di non piacere abbastanza, ma scoprendo ogni giorno che dopotutto, forse, avrebbero potuto avvicinarsi molto prima, anche se Steve non è convinto che avrebbe funzionato. Un po' per colpa di come era fatto lui, fino a qualche tempo fa, e un po' per come era fatto Eddie, nello stesso periodo.

«Diciamo che ci siamo dati una calmata», gli ha detto poco fa; il braccio stretto intorno alla sua spalla, e la testa dell'altro appoggiata alla sua.

«Diciamo di sì», ha risposto Eddie, ridendo, e poi si sono baciati, e guardati, e studiati ancora e ancora e ancora, fino a crollare di nuovo sui cuscini, con la giornata sulle spalle che iniziava a gravare e ha portare loro via le forze.

Steve si rigira nel letto, poi trova una sorta di comfort sprofondando con la schiena sul materasso. Apre gli occhi un secondo e guarda il soffitto; è buio, e c'è silenzio, a parte il ticchettio dell'orologio che ormai sente a malapena per una questione di abitudine e il respiro pesante di Eddie, che dorme accanto a lui.

Così sprofonda anche lui, in quello che è un sonno un po' agitato, ma allo stesso tempo profondissimo. Non lo ha detto ancora a nessuno, nemmeno a Eddie, ma ogni volta che chiude gli occhi si ritrova lì, nel sottosopra, a combattere Vecna e a vederlo bruciare, ma nei suoi sogni non indietreggia, non cade giù dalla finestra, piuttosto avanza verso di lui, tra le fiamme, mentre Robin continuano a lanciare molotov infuocate e Nancy a sparare colpi, su colpi, su colpi...

Ma Vecna non indietreggia mai, come se nulla potesse scalfirlo e, quando arriva così vicino che può quasi sentire il calore del fuoco addosso, Steve si pietrifica. Henry Creel non ha mai espressioni facciali sul suo viso, ma lui è certo di vederlo ghignare, quando alza un braccio verso Robin e la scaraventa contro il muro. Poi fa lo stesso con Nancy, che nel frattempo non ha mai smesso di colpirlo, disperatamente, tentando di salvare il salvabile. Entrambe volano ai lati opposti della stanza, e quando Steve muove gli occhi – solo gli occhi, perché tutto il resto è pietrificato, le vede prive di sensi o, peggio ancora, forse prive di vita. Vorrebbe urlare, anche solo per sincerarsi che sono vive, che riuscirà a salvarle, quando tutto questo sarà finito, ma quando i suoi occhi tornano di fronte a sé, e Vecna lo guarda quasi come se fosse lui, la sua unica preda, inizia a tremare, e a capire che non ha scampo. Che moriranno tutti, prima loro, poi Dustin e Eddie, Erica e Lucas, Max e poi tutti gli altri, fino all'ultimo abitante di Hawkins... e forse anche oltre.

«La speranza che riponi è ammirevole, Steve. Purtroppo però non basterà mai a salvare le persone a te care. E forse sono proprio loro quelle che ti distruggeranno», dice Vecna, e sembra entrargli nel cervello. Sembra quasi sia dentro di lui e, allo stesso tempo, che si trovi al di fuori di quel sogno. Come se fosse accanto a lui, nel letto, a guardarlo dormire attraverso gli occhi di qualcun altro.

La mano del nemico si alza sul suo viso, poi si spalanca, e il dolore che sente nel petto è così forte da fermare persino il tremore. Steve vorrebbe combattere quel senso di impotenza, e tenta di alzare le sue, di mani, per fare qualcosa, ma non ci riesce. È come una statua di marmo, e la sua testa è come un palloncino pieno d'aria bollente pronto ad esplodere. Sente gli occhi girarsi all'indietro, il respiro mozzarsi nella gola e, con tutta la buona volontà che ha in corpo, si impone che c'è un unico modo per vincere quella paura.

Devo svegliarmi.

Il suo corpo si alza da terra, lentamente, fino a fronteggiare Vecna; non può vederlo, ma il suo alito caldo e quasi marcio lo inonda, e gli sale in gola un conato di vomito.

Devo svegliarmi. Ora!

Sente il sangue nelle vene quasi ribollire, salire fino alla testa. È così che si muore, per mano sua? Fa così male?

Sente una morsa intorno al collo, come una mano che gli stringe la gola e, di nuovo, annaspa aria senza trovarla. Il potere di Vecna gli sta ostruendo le vie respiratorie, lo sta strangolando senza nemmeno toccarlo. Ha paura, ma ogni cosa è solo un'eco lontano.

Devo svegliarmi!

E infine si sveglia. Spalanca gli occhi, e annaspa aria, cercandola aprendo la bocca e alzando istintivamente una mano sul collo, che però non raggiungerà mai. C'è la mano di qualcuno, intorno alla sua gola, ma non stringe, anche se forse poco fa lo stava facendo – ha sentito chiaramente quel dolore, quella stretta, è impossibile da credere che non sia successo. Gli è mancata l'aria davvero.

Sussulta, cerca di alzarsi a sedere sul letto ma non ci riesce, perché sopra al suo bacino c'è un peso che non gli permette di muoversi. Così sbatte gli occhi un paio di volte, tentando di abituarsi al buio della stanza e, quando finalmente ci riesce, strabuzza gli occhi e resta immobile.

C'è Eddie, sopra di lui, a cavalcioni. La mano intorno al collo è la sua, e anche se non stringe più, è rimasta lì. Nell'altra mano tiene una forbice – e Steve sa perfettamente dove l'ha presa. La tiene sollevata sulla testa ma il suo corpo è immobile. I suoi occhi carichi di paura.

«Eddie», lo chiama, piano, e cerca di spostare la sua mano dal collo, senza riuscirci. L'altro è immobile, una pietra, un vero e proprio masso appoggiato al suo corpo. Le sua gambe lo tengono imprigionato nel letto, strette intorno al suo bacino e, la mano che tiene la forbice, trema.

«Non... non ero io», dice, terrorizzato, e quegli occhi impauriti si caricano di lacrime. «Steve, non ero io.»

«Lo so», cerca di rassicurarlo, anche se ha paura. Ha paura che ora sia lui, ma che presto possa non esserlo più e che, quella mano intorno al collo, possa tornare a stringere e la forbice conficcarsi da qualche parte per fargli del male. «Lo so, l'ho sognato... lo so.»

«No, non lo sai!», quasi urla, e resta ancora lì, immobile, a guardarlo come se nessuno potesse aiutarlo. Arrabbiato con lui, con sé stesso, con Vecna e col mondo intero e forse col destino che, alla fine, sembra remargli contro appena ne ha l'occasione. Vorrebbe rassicurarlo molto più che con le parole, ma con i fatti, ma Steve sa che non esiste niente di concreto e che tutto, ma proprio tutto, sta pian piano crollando sotto i loro piedi. «Voleva che ti uccidessi! Lo vuole ancora!»

«Lo so», ripete, e sa che non è quello che Eddie vuole sentirsi dire. Sa che non è quello che dovrebbe dire in un momento come quello ma è così, lo sa, è la verità. Quel sogno non è stato come gli altri. Non è mai andato oltre, Vecna non lo ha mai attaccato. Lo ha sempre e solo guardato, come se lo stesse cercando, solo che stavolta l'ha trovato e questo... questo significa solo una cosa. «Respira, e calmati. Prenditi tutto il tempo che ti serve e, appena ci riuscirai, butta quella forbice e liberami, okay? Solo quando te la sentirai. Solo quando ci riuscirai», dice, e lui lo guarda dapprima spaesato, poi annuisce, tirando su col naso e, dopo qualche minuto di silenzio dove si sono solo guardati e dove Steve ha cercato di non trasmettergli la propria paura, alla fine Eddie gli lascia andare il collo, lentamente, e lui gli prende la mano, immediatamente, per stringerla alla sua – e, non può non ammetterlo a se stesso, per evitare che torni a stringere.

Poi le gambe di Eddie si rilassano. Non stringono più come una morsa mortale, che lo tiene in trappola, è solo seduto a cavalcioni su di lui, come è successo poco prima di dormire, mentre si baciavano quasi senza alcuna memoria di tutta quella storia che, invece, ha deciso di tornare a perseguitarli.

Si alza immediatamente a sedere e lo fronteggia. Con la mano libera gli prende la forbice, che però Eddie continua a tenere saldamente tre le dita. Si guardano, sono vicinissimi, sente il suo respiro sulle labbra e, mentre dagli occhi dell'altro iniziano a scendere lacrime quasi automatiche dal suo viso, finalmente libera le dita e la forbice cade a terra, in un rumore sordo contro il tappeto.

Gli stringe anche quella mano; la stringe forte, ed è un sollievo sentire le dita di Eddie fare lo stesso, mentre poggia la fronte alla sua, forse di nuovo libero, forse di nuovo lontano da Vecna, dai suoi ordini, dalle sue corde pronte a manipolarlo fino al punto di uccidere. Sente il corpo di Eddie rilassarsi sul suo, ed è in quel momento che slega le mani dalle sue per prendergli le guance e guardarlo, anche se quello sguardo non viene restituito.

«Ehi», lo chiama, e lo sprona a rivolgergli un'occhiata, cercando di risultare per nulla toccato da ciò che è appena successo, anche se il cuore gli batte a mille e ha avuto paura di morire sul serio, stavolta. Gli prende il mento tra le dita.

«Sono pericoloso», gli risponde, e quel tono frustrato ha una vena di rabbia che lo fa rabbrividire.

«Non sei tu quello pericoloso.»

«No, ma ha usato me per esserlo. Stavo per ucciderti!», gli ripete.

«E non lo hai fatto», dice Steve ed è in quel momento che Eddie finalmente lo guarda. Stringe gli occhi, poi sospira e tira su col naso.

«Non gliel'ho permesso. Non potevo permetterglielo. Era come se fosse lui al comando e io fossi solo... prigioniero nel fondo. Ho cercato di spegnerlo, ho cercato di cacciarlo via ma non ci sono riuscito. Non finché ha... ho preso quella forbice dal tuo cassetto e stavo per... per...», balbetta, poi sembra andare in apnea e, chiudendo di nuovo gli occhi, torna silenzioso. Forse è ciò di cui ha bisogno, gli serve questo, tacere e cercarsi nel fondo; assicurarsi di aver ripreso il comando. Forse è così, che funziona Vecna. Forse non è poi così forte, se c'è qualcosa di ancora più forte che può fermarlo, ed è la volontà, la vera arma e, pure se sembra una stronzata, con Eddie ha funzionato.

Ha funzionato anche con Max. Anche se lei adesso è altrove, chissà dove, ma c'è.

Forse è così che funziona pure la depressione; prende il comando, ti schiaccia, ma a un certo punto decidi che non è lei a muovere tutto, e tiri fuori qualcosa da dentro che ti sfianca, ma che ti salva.

Perché è così che vede Eddie, ora. Stanco e salvo.

Gli accarezza le guance con i pollici; movimenti circolari e lenti, che sembrano funzionare, in qualche modo. Le sue spalle si rilassano, le sue lacrime diminuiscono e, alla fine, quando apre gli occhi, gli sorride nel tentativo di trasmettergli tutto quello che gli serve. Come la sicurezza che non ce l'ha con lui, che non ha paura di lui, che non c'è niente che possa dividerli anche se, a questo punto, dovranno attuare il piano e questo... questo è terribilmente ingiusto, ma è l'unico modo.

«Ci proverà di nuovo», dice Eddie, a un certo punto, e non è un timore, ma un'assoluta certezza. «Lo farà.»

«Sì, lo farà, non si fermerà. Sta tornando. Per questo dobbiamo fermarlo, prima che ti faccia del male.»

«E che faccia del male a tutti voi; a te. Steve, non sei più al sicuro, con me. Nessuno di voi lo è.» Steve non può far altro che essere d'accordo, anche se non vorrebbe dirgli che è così, ma Eddie non è stupido e lo sa che, quell'episodio, non ha portato altro che certezze in quelle che erano solo delle teorie alle quali speravano di non dover dar adito. Sa da sempre che è una conseguenza del sottosopra; che Eddie è una conseguenza del sottosopra, che è tornato su ma che forse non appartiene più a quel mondo. Forse non appartiene a nessuno dei due mondi, in realtà, finché Vecna vivrà.

«Attua il tuo piano», gli dice, e lo fa quasi in modo sbrigativo, come se non ci fosse tempo, o forse solo perché ha paura di tornare ad essere un pericolo per la sua vita.

«Lo faremo domani», risponde Steve, calmo, poi gli bacia una guancia, con dolcezza, e le mani di Eddie salgono al suo collo. Sussulta per un attimo, ma poi si rilassa, quando sente solo il calore di dita tremanti che si spostano sulle sue spalle e ne trovano un appiglio. «Domani agiremo, fino ad allora, cerca di riposare.»

«Forse è meglio che tu vada a dormire da un'altra parte.»

«E lasciarti qui da solo dopo quello che ti ha fatto? Non ci pensare nemmeno!»

«Dopo quello che ha fatto a me? Steve, stavo...»

«Per uccidermi, sì! Ma non eri tu, era lui! Ha fatto del male a me tanto quanto ne ha fatto a te. Fine della storia. Dormirò con un occhio aperto, ma non me ne vado da qui, okay?», dice, ed è quasi un sollievo vedere Eddie annuire, così gli bacia le labbra e c'è tanta di quella disperazione in quel gesto, che non la sa quantificare.

Da una parte ci sono i sensi di colpa dell'altro, dall'altra c'è lui che non vuole attuare quel piano, perché significherebbe lasciarlo solo, isolarlo dal mondo, isolarlo da Vecna e da tutti loro. Da lui. È appena tornato e hanno fatto di tutto per non farlo sentire abbandonato, e ora devono farlo. Sa che è per il suo bene, e forse per il bene di tutti, ma fa male essersi appena trovati e doversi già separare.

Proprio ora che ha capito chi è e chi vuole nella sua vita.

Quel bacio dura un tempo infinito, ma forse non abbastanza da appianare le cose, o renderle meno dolorose. Steve si accascia sul cuscino, e si porta dietro Eddie, continuando a divorargli le labbra. Poi rotola su un lato, e finisce sopra di lui, tra le sue gambe. Si dividono per un attimo, si guardano e Steve ha la sensazione di aver bisogno di quel contatto per capire chi ha davanti e, per fortuna, c'è ancora Eddie lì dentro.

Vorrebbe dirgli tante cose, esprimere tante di quelle emozioni, rassicurarlo e raccontagli le sue paure, ringraziarlo per averlo salvato da tutto e tutti. Eppure non ci sono parole che possano esprimere tutto questo, e forse non ha nemmeno il coraggio di esternare qualcosa di così intimo e profondo in un momento come quello.

Quella è l'ultima notte passata insieme perché, dopotutto, si divideranno e, nel caso in cui Vecna dovesse vincere, non si rivedranno mai più.

E, dentro, Steve ha la sensazione che le cose andranno inesorabilmente così.

•••

Eddie dorme ancora quando Steve sgattaiola via dal letto. Non ha chiuso occhio, e ha la sensazione che un'incudine pesantissima, come quella dei cartoni animati, gli sia caduta sulla testa. Scivola via dalle lenzuola, silenzioso, e resta qualche secondo sulla porta, prima di aprirla, per la prima volta in vita sua incerto su cosa sia veramente giusto fare e cosa no.

Alza il polso per controllare l'ora: sono le sei del mattino, forse non è poi così presto per fare quella telefonata. O, comunque, se così fosse, chi risponderà capirà.

Stringe un sospiro tra i denti, poi esce fuori, lanciando un'ultima occhiata alla figura coperta fino al petto ancora pieno di cerotti, i capelli sparsi sul cuscino e un braccio allungato dove prima c'era lui.

Come si fa a decidere qual è la cosa migliore da fare, se nessuna di quelle che ho in testa lo è veramente?

Esce dalla stanza, e non vuole pensarci più nemmeno un minuto. Tutte le altre soluzioni sono solo ombre, solo pensieri folli pieni di speranze che non hanno più, e non c'è nemmeno tempo per crearsi nuove illusioni. Così scende le scale, lanciando un'occhiata alle sue spalle, di tanto in tanto, per paura che Eddie esca dalla sua stanza e gli faccia passare tutto il coraggio che è riuscito a trovare in questo momento.

Raggiunge la cucina, non prima di aver spento la luce all'ingresso, che di certo Robin e Nancy hanno dimenticato di spegnere prima di andare a dormire nella stanza degli ospiti. Arriva di fronte al telefono appeso alla parete e, quando apre la mano destra, ne emerge un foglietto tutto stropicciato. Dentro c'è il numero di cui ha bisogno, che non perde tempo a comporre, anche se non vorrebbe essere lui il dito che preme il grilletto di tutta questa storia.

Il telefono squilla a lungo, così tanto che Steve, ad un certo punto, sta quasi per attaccare ma, ad un tratto, dall'altra parte, si sente la cosa più vicina a un grugnito.

«Chiunque tu sia spero tu abbia un valido motivo per chiamare a quest'ora.»

Non sa nemmeno come dovrebbe chiamarlo. Agente? Detective? Signore? Non hanno mai avuto modo di parlare, ma alla fine sono implicati nella stessa, medesima merda. Forse questo rende la riverenza qualcosa su cui sorvolare.

«Hopper, sono Steve. Steve Harrington.»

«Ah. Harrington», dice l'uomo, e sembra sorpreso, poi sbadiglia; Steve può chiaramente sentire la sua mandibola scricchiolare. «È successo qualcosa col vostro amico capellone?»

«Sì», risponde solo, poi guarda indietro. Non vuole essere sentito. O meglio: non deve essere sentito. Se quello che è successo stanotte può ripetersi ancora, significa che, in qualsiasi momento, Vecna potrebbe usare Eddie come burattino per spiare le loro mosse.

«Che succede? Le sue ferite so-»

«No, no, non c'entrano niente le ferite, è... successo qualcos'altro. Ho bisogno di parlarti, ma di persona. Ci possiamo vedere tra un'ora?»

«Harrington, mi stai spaventando. Che cosa sta succedendo?»

Steve grugnisce, premendo la mano contro la cornetta per non farsi sentire. Alza gli occhi al cielo e poi stringe le palpebre e ha l'impressione che tutto stia andando nel verso sbagliato. «Non posso parlare per telefono. Vengo da te tra un'ora, okay?»

«Okay, okay! Come vuoi. Fa' che sia importante, o non ti perdonerò mai per avermi buttato giù dal letto a quest'ora!»

«Credimi», inizia, tenendo la cornetta tra l'orecchie e la spalla per avere entrambe le mani libere e poi inizia a scrivere un biglietto da appendere in frigo per avvertire gli altri che è dovuto uscire di corsa. Nessuna spiegazione, solo un sono fuori, torno presto. Fate i bravi. «Ne va del bene di tutti.»

Fine Capitolo XXII

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