Capitolo XIII - Cicatrici

Capitolo XIII - Cicatrici 

Steve scende le scale e raggiunge Robin e Nancy, sedute sul divano del salotto, intente a guardare il notiziario della sera. Il giornalista alla tv, sulla collina più alta di Hawkins e con lo sfondo del fumo nero che esce dallo squarcio, sta dando gli ultimi aggiornamenti sulla situazione. Sono ancora tutti convinti che si tratti di un terremoto che, purtroppo, ha causato dei danni ingenti; danni costosi, che lasceranno il segno nell'economia della città e l'uomo si augura, nel suo monologo pieno di inesattezze, che il governo americano decida di dar loro una mano con qualche fondo destinato alle catastrofi naturali e di non tenerlo solo per le vittime dei tornadi che spesso affliggono chi vive sulla costa atlantica.

Steve si siede stancamente accanto a Robin e, poggiando le mani sulle ginocchia, sente finalmente le ossa trovare un po' di conforto sotto ai cuscini comodi del divano.

«Perché continuano a credere che sia stato un terremoto?», chiede Robin, iniziando poi a tartassarsi le pellicine delle dita con i denti, nervosamente.

«Perché è l'unica spiegazione logica in un mondo che non sa che esiste una Hawkins alternativa, immagino», le risponde Nancy e l'altra non sembra soddisfatta da quella risposta. «Mi sorprende che non abbiano ancora detto che l'inferno stesso si è aperto sotto i nostri piedi solo per creare un po' di allarmismo.»

«Beh, non sarebbe troppo lontano dalla verità, in effetti», controbatte Steve e Nancy sospira d'accordo, poi gli lancia un'occhiata.

«Come sta?»

«Eddie?», chiede conferma, poi incrocia le braccia dietro la testa e si stiracchia, quando lei annuisce. «Dice alla grande. Non ci credo, ma non penso sia messo così male dopo... dopo quello che gli è successo, ecco.»

«Gli ho visto il panico in faccia, quando ci ha aperto la porta, là sotto. Aveva due occhi da cucciolo indifeso. Non l'ho visto così nemmeno quando lo abbiamo raggiunto a Skull Rock», osserva Robin, guardando dritta di fronte a sé, quasi come se fosse tornata indietro a quel ricordo e lo stesse rivivendo. «Chissà che fine avrebbe fatto se Dustin non avesse avuto quel sentore...»

«Beh, a dirti la verità», inizia Nancy, «Non lo vedrei come un sentore, più una speranza. Quando Barb è sparita e abbiamo capito che El poteva entrare lì dentro senza... senza entrare davvero lì, ho avuto la sensazione che l'avremmo ritrovata. Viva. Dentro di me sapevo che lo era, ma era solo una speranza alla quale mi ero aggrappata e se avessi saputo di Eleven prima, forse...»

Steve la guarda bloccarsi, e Nancy gli lancia un'occhiata fugace, prima di abbassare la testa e zittirsi, incapace di andare avanti, di dire che, se l'avessero cercata prima, ora Barbara Holland sarebbe ancora viva. Questo però vuol dire che, se non lo è, è tutta colpa loro? Nancy è ancora convinta di questo? Perché, a dirla tutta, Steve pensa di sì, che in qualche modo sono complici di una cosa così orribile perché, se lei non avesse accettato di restare a casa sua e Steve non glielo avesse proposto, ora... ora...

«Steve?»

È la voce di Eddie che rompe il silenzio che si è creato. Tutti e tre alzano lo sguardo dal divano e lo vedono affacciato sulle scale, ancora vestito e pieno di graffi. È evidente che non ha ancora fatto niente di quello che Steve gli ha detto ma, come si sta ripetendo da ore, sa che quel ragazzo ha bisogno del suo tempo.

«Ehi, tutto okay?»

«Potresti venire un secondo? C'è un problema del cazzo e non so come fare, quindi, non so, magari tu...?»

«Arrivo», dice subito, alzandosi prontamente dal divano e raggiungendolo. Non si volta a guardare Nancy e Robin, sa solo che quella scappatoia gli ha salvato la vita e forse, chissà, l'ha salvata anche a Nancy. Potevano continuare a stare in silenzio o potevano discutere della cosa finendo per litigare, o per cercare di appiopparsi la colpa e toglierla all'altro. È colpa mia, solo mia! No, Steve, è mia. Non avrei mai dovuto lasciarla sola. E io non avrei mai dovuto permettertelo.

Si sente un idiota capace solo di farsi film mentali. E, a dirla tutta, tutte quelle accuse, continua a sentirle addosso come un vestito di chiodi, al quale si sono aggiunti pure i sensi di colpa per Eddie e per Max.

Raggiunge la sua camera e, dopo aver chiuso la porta, Eddie lo fronteggia. Tiene tra le dita il lembo della maglietta, ancora insanguinata e sporca e, con una smorfia quasi schifata, la tira leggermente verso l'esterno.

«Non riesco a toglierla. Le ferite si sono appiccicate al tessuto. Ho provato a tirare ma... ecco, questo è il risultato», si mette su un fianco, alza l'indumento e scopre un punto appena sopra l'anca. Una ferita si è appena riaperta, e sta uscendo del sangue scuro. Eddie riabbassa la maglia e strizza gli occhi. «Fa schifo e fa male. Cristo santo, sarà dolorosissimo ma non ce la posso fare da solo. Non è che...?»

«Vuoi che ti... sì, certo. Certo», risponde Steve, immediatamente, e lo guarda, cercando di capire come possa staccargli via la maglietta dal petto senza fargli male. Si china sulla cassetta del pronto soccorso, ancora sul letto, e la apre. Prende del disinfettante e bagna la garza, poi la porge a Eddie. «Cristo», si gratta la testa, pensieroso. «Premiti questa sulla ferita aperta, intanto, che io penso a un modo per risolvere questa cosa.»

«D'accordo», risponde solo, l'altro, facendo come gli ha detto e Steve si sente così dannatamente un impostore. Eddie gli dà l'idea di fidarsi ciecamente di lui, come se sapesse esattamente cosa sta facendo, quando la verità è che non ne ha la più pallida idea ma, dirglielo, non farebbe altro che agitarlo.

Così sarebbero due persone in ansia che non sanno cosa fare.

Incanala aria nei polmoni, poi prende i lembi della maglia di Eddie tra le dita e, pian piano, la alza. Lentamente, fino a trovare l'ostacolo della cicatrizzazione che si è fusa con il tessuto. Lo capisce dal fatto che la maglietta non si sposta più di così e che l'altro ha stretto gli occhi per via del dolore.

«Mi dispiace, non sarà facile», si sente di dire.

«Lo so, lo so. Tu... tu fai, non ti preoccupare. L'idea che alla fine me la sarò tolta mi conforta più di quanto tu possa credere. C'è una fine anche al dolore», risponde Eddie, e cerca di ridere, ma è tutto così maledettamente sbagliato.

Steve torna a tirare. Pian piano, con delicatezza, e il suono della pelle che si stacca dalla maglietta è quasi inquietante e sa di umido e infetto. Eddie tace, ma trattiene tra le labbra arricciate un gemito di dolore, che gli rimbomba in gola.

«Scusa, Cristo santo, scusa!.»

«Smettila di scusarti! Non c'è altro modo per farlo e da solo non ce la faccio!», sbotta, quasi impaziente, e se fosse una situazione diversa Steve gli direbbe di darsi una calmata. Tira ancora, e lentamente sente la maglietta scollarsi da quella ferita e, quando strattona via l'ultimo pezzo, la schiena di Eddie si inarca e, forse per un riflesso incondizionato, gli stringe le mani sulle spalle, con un grugnito.

«Una è andata», dice Steve, e Eddie annuisce rapido, ma non si stacca dalle sue spalle. Ha l'impressione che il cuore gli sia schizzato in gola e questo sia il motivo per cui ha smesso di parlare. Ha ancoral e dita strette intorno alla sua maglietta e, quando apre gli occhi e incontrano i suoi, Steve distoglie lo sguardo e ricomincia a lavorare su quelle ferite. Ogni volta che ne libera una, la capacità dell'altro di trattenere suoni di puro e agghiacciante dolore tra le labbra, è sempre meno efficace. Finché, finalmente, stacca anche l'ultima e si rende conto di quanto la distanza tra il suo corpo e quello di Eddie si sia accorciata.

Si sente gelare.

«Abbiamo finito», lo informa e il suono della sua voce rimbomba come una cannonata, dopo un tempo infinito passato a riprendere fiato e a guardare il sangue che ha ricominciato a scorrere da tutte le sue ferite. «C'è una fine anche al dolore», gli ripete, sorridendo, nel tentativo di confortarlo, quando l'espressione schifata di Eddie si fa sempre più accentuata, mentre si guarda, allargando le braccia come se non volesse sfiorarsi nemmeno. Si guardano, e non dicono più niente.

C'è qualcosa di strano nel silenzio che è sceso, dove ci sono solo loro che si guardano e basta, senza imbarazzo, quasi come se parlare potesse rompere qualcosa. C'è qualcosa di strano in quel silenzio e forse è il fatto che sia così goffamente rassicurante.

«Grazie», dice Eddie, in un soffio, e nel semibuio della stanza, Steve vede qualcosa brillare nei suoi occhi scuri e non sa definire che cosa sia.

«Figurati, è stato un...»

«Un piacere? Non so perché, ma penso di no!», ironizza l'altro e Steve non può fare a meno di ridere.

Solo ora si rende conto che le sue mani sono appoggiate ai suoi fianchi, dopo che ha lasciato andare la maglietta. Il suo viso è così vicino che può contare quante ciglia hanno i suoi occhi. Pezzo per pezzo. E ne ha così tante...

«Vuoi toglierla?», gli chiede, e gli trema la voce.

Eddie non sembra capire a cosa si stia riferendo, in un primo momento ma, subito dopo, annuisce incerto, alzando il lembo della maglietta con le mani. Steve lo aiuta a toglierla dal buco della testa e, quando l'altro riemerge con i capelli spettinati, restano a fissarsi senza parlare. Senza una sola cazzo di parola da dire, senza alcuna percezione della realtà, e Steve non ha nemmeno la forza – o forse il coraggio, di girare i tacchi e andarsene da lì.

Perché lo sa, e lo ha capito, che c'è qualcosa che scorre tra di loro da quando è iniziato tutto quello schifo, da quando hanno cominciato a passare del tempo assieme, pure se è stato per un motivo di merda. Sa che mai avrebbe creduto, in vita sua, di sentirsi così confuso per colpa di una persona diversa da una ragazza. Sa che mai avrebbe creduto di trovarsi faccia a faccia con Eddie "il mostro" Munson e provare un tuffo al cuore mentre lo guarda.

Si sente uno schifo, si sente fuori dal mondo, si sente sbagliato e incosciente. Si sente diverso, strano e amorale, eppure non può farci niente. Ce lo ha davanti agli occhi ed è vivo, conta questo, non c'è altro pensiero sul quale soffermarsi, nemmeno i propri sentimenti confusi. Forse è solo il sollievo di quel senso di colpa in meno, a farlo sentire così, no? Dopotutto da quanto non si sente in questo modo? Un po' meno schiacciato. Un po' meno rigido. Da quanto, Stevie?

Da prima che morisse Barb. Ovvio.

«Steve?», lo chiama Eddie, e lui sussulta, risvegliato da un groviglio pastoso di pensieri e confusione, mentre sente il cervello colargli letteralmente dalle orecchie.

«Sì, sì, ci sono. Sarebbe meglio medicarti», dice e mette le mani ai fianchi mentre lo squadra da capo a piedi. Gli guarda il petto pieno zeppo di ferite che sanguinano e tatuaggi ormai quasi del tutto cancellati dai lividi e dai buchi provocati dai morsi dei demo-bats. È ridotto peggio di quanto potesse credere e, quando Eddie annuisce, lentamente, un po' incerto, lo invita a sedersi sul letto e si mette accanto a lui. Prende la cassetta del pronto soccorso e se la appoggia sulle gambe. La apre e imbeve un pezzo di ovatta con dell'acqua ossigenata. Quando si volta a guardare Eddie, questo indietreggia leggermente. «Brucerà un bel po' e, in verità, penso che tu abbia bisogno di qualche punto. Intanto, però, vediamo di pulirle, prima che diventino più gravi di quanto non siano.»

«Dici che sono gravi?»

«Dico che non lo so ma, a guardarle ora, non sembrano graffietti, ecco», risponde e, goffamente, dopo aver poggiato la cassetta di nuovo sul letto, si avvicina titubante a una ferita sotto al collo, con la mano tremante che tiene il batuffolo di cotone e, quando entra a contatto con la pelle di Eddie, lo sente gemere e ritrarre il bacino.

Alza gli occhi sui suoi, e il dolore che gli attraversa il viso è pregno di stanchezza e di frustrazione, ma è solo un attimo. Ci vorrà un attimo, davvero, poi andrà meglio. Lui lo sa, hanno morso anche lui e, a meno di un ferita che si sta cicatrizzando, non gli è rimasto altro. Non sente nemmeno più il dolore, solo un senso di indolenzimento quando dorme sul fianco leso.

«Ce la fai a resistere?»

«Dio, come se ci fosse alternativa! Vai, Harrington, non preoccuparti. Ho avuto momenti peggiori», risponde Eddie e cerca di sorridere ma, sotto a quelle espressioni di dolore, è difficile capire se lo stia facendo davvero o solo per rassicurarlo.

Steve torna a dedicarsi alla ferita. Inizia gentilmente, ma non è così che si fa. Tra poco, quando lo vedrà abituarsi, inizierà a grattare via il sangue e le croste, perché è così che gli hanno insegnato al corso di pronto soccorso, quando ha fatto il bagnino per tre anni alla piscina di Hawkins.

Una fortuna, a dire il vero, che non pensava – e sperava, gli sarebbe servita al di fuori di quel lavoro.

«Momenti peggiori? Tipo?», chiede, ma è più per distrarlo che altro.

Eddie fa una smorfia arricciando le labbra, poi alza le spalle. «Beh, una volta mi sono rotto il naso prendendo un muro in pieno. Era buio e mi stavano rincorrendo. Per fortuna sono caduto dietro a un cassonetto della spazzatura e non mi hanno trovato. Il giorno dopo mi sono risvegliato con il sangue secco che mi era arrivato fino alle mutande. E un gran mal di testa. Sono andato al pronto soccorso e, nulla, per fortuna non era così grave ma, per una settimana, ho avuto gli occhi gonfi. Sembrava mi avesse punto uno sciame di api incazzate. Un'altra volta mi sono spaccato la testa sbattendo contro la porta di un garage. Erano le mie prime partite a D&D a casa di Gareth. Ero talmente su di giri che sono arrivato correndo e boom, una botta colossale. Mi hanno messo sei punti e mandato a casa con la prognosi di un miracolo. Ho sfiorato il trauma cranico.»

«Sei un disastro, Munson!»

«Oh, e non te le ho raccontate tutte. La peggiore è stata quando mi è salita sul piede la ruota di una macchina. La signora che guidava si è distratta ed è salita sul marciapiede, proprio dove c'ero io fermo a farmi gli affari miei, mentre aspettavo l'autobus. Capisci, di tutto lo spazio, proprio il mio piede. Pazzesco, non trovi?»

«Se parli della tua sfiga sì, la trovo pazzesca!»

Eddie ride, tra una smorfia e l'altra, mentre Steve comincia a pulire più a fondo la ferita, e gli sembra di grattare via del cemento dalla sua pelle. Il sangue non smette di uscire, ma è diminuito e non è più nero, ma rosso e questo è decisamente un buon segno.

«E tu, ragazzone, non ti sei mai rotto niente?»

«Una volta mi sono rotto un dito giocando a basket. In realtà non proprio giocando. Mi hanno passato la palla per rimetterla a posto e, puff, l'ho presa così male che mi ha spezzato l'indice. Ho portato il gesso per tre settimane. Ah, e una volta mi sono fratturato la mascella.»

«Come? Dio santo che dolore!», esclama Eddie e Steve non sa se sta parlando del suo dolore o quello che prova nell'immaginare le sue ossa del mento che si rompono.

Ridacchia e passa a un'altra ferita, dopo essersi premurato di aver pulito bene l'altra. Alla fine è andata meglio del previsto e, aver distratto Eddie con quella conversazione, sembra essere servito a qualcosa. O forse, semplicemente, ormai si è davvero abituato al dolore.

«In verità mi hanno riempito di pugni. Anche calci e altre cose che non ricordo. Dopo mi hanno drogato. Forse è per questo che ho sentito dopo tutto il dolore e mi sono reso conto che mi si era quasi spaccata la mascella.»

«Che... che accidenti dici? Sul serio? Cristo, Steve, nemmeno a me che sono un avanzo di galera è mai successa una cosa del genere! Che hai combinato?», chiede Eddie, seriamente sconvolto da quella rivelazione e Steve, improvvisamente, si ricorda che quello che è successo non ha nulla a che fare con zuffe da ragazzini o incidenti stradali. Quello che gli è successo è più grave, va molto più a fondo, quasi nella psicologia umana e lui, in effetti, si chiede ancora cosa abbia fatto di male, quella volta, per farsi ridurre a quel modo senza averne nemmeno colpa.

Abbassa lo sguardo sul petto di Eddie, ma la sua testa è di nuovo lì, sotto allo Starcourt, esattamente dove non doveva trovarsi, insieme a Robin, prendendo pugni e calci anche per lei, pur di difenderla.

«Sai, questa storia del sottosopra per noi omai è un po' all'ordine del giorno e l'anno scorso siamo entrati in una base russa sotto al centro commerciale dove lavoravo con Robin e, nulla, pensavano sapessi tutto e invece io di solito non so mai un cazzo di niente e mi hanno picchiato così tanto, per farmi parlare, che a un certo punto non c'ho capito più niente.»

«Questo si chiama torturare, Steve», dice Eddie, con un filo di voce, e quando alza lo sguardo sul suo, dopo attimi infiniti di esitazione, sospira e sorride.

«Penso di sì, ma almeno è servito a qualcosa. Prendere tempo, aiutare Dustin e Erica a scappare, scoprire i loschi piani dei russi. Certo, non è servito a impedire tutto questo», indica il suo petto, indignato. «Ma almeno siamo tutti vivi.»

A parte Billy, Steve. Billy è morto per salvare El, quel giorno, te lo ricordi? Non è vero che siete tutti vivi. È sempre morto qualcuno, durante questi anni, per colpa del sottosopra. Prima Barb, poi Bob, poi Billy e infine è toccato a Max e Eddie. Anche se lui è qui, di fronte a te, lui ha pagato il suo prezzo, e come gli altri, lo ha fatto senza pensare. Lo ha fatto per salvare voi, per darvi tempo.

«Mi dispiace», risponde Eddie e lui scuote la testa, perché dopotutto non ha importanza. Non più. È acqua passata, la mascella è guarita, e ora hanno decisamente altri problemi a cui pensare.

«È andata. Hopper ha passato di peggio, con i russi.»

«Questo non significa che quello che hai passato tu non abbia importanza.»

«Invece sì. Non più, almeno. Ho smesso di pensarci da un bel po'», non è vero. Ci pensi sempre, costantemente, tanto che hai avuto paura che questo potesse essere il tuo trauma, quello che avrebbe dato a Vecna un motivo per prendersi anche te. Sei un ragazzino, Steve, e nessun ragazzino supera un trauma del genere con facilità.

Eddie gli dà una botta sulla spalla, infastidito. «Dovresti smetterla.»

«Di medicarti?», chiede, alzando un sopracciglio.

«No, idiota! Di pensare che quello che fai è solo dovuto e che non meriti, che ne so, attenzioni, riconoscimenti o un po' di supporto morale. Non hai fatto altro che metterti davanti a tutti noi, fino ad ora, e tralasciare quello che provi tu, nei riguardi di questa situazione del cazzo. Essere un eroe non significa che tu debba prenderti la responsabilità su qualunque cosa, persino quello che non ti compete.»

«Io non sono un eroe, Eddie. Io sono uno che si è ritrovato in una situazione di merda e ha deciso di non ignorarla e agire.»

«Non è una cosa da poco! Non è una cosa da tutti! Tu e quelle altre due siete pazzeschi, dico davvero! Se non fosse stato per voi, io non avrei mai fatto quello che ho fatto. Me ne sarei andato e basta.»

«E avresti fatto la miglior cosa, credimi. Invece di fare lo stronzo e farti quasi ammazzare, avresti potuto seguire il piano come abbiamo fatto tutti. Più o meno.»

Eddie sbuffa, e si avvicina a Steve, in modo confidenziale. «Ho fatto quello che ritenevo giusto in quel momento, proprio come fai tu, senza pensare. Solo che tu dovresti cominciare a ridimensionarti, senza screditarti. Senza pensare che, le cose che non riesci a fare, siano fallimenti che fanno tabula rasa di tutto il resto. Le cose buone non le puoi cancellare per qualche sbaglio o qualcosa che non puoi controllare. Quel pezzo di merda di Henry, Vecna o come accidenti lo vuoi chiamare, è andato oltre le vostre – le tue possibilità, ma hai fatto il tuo, e hai fatto tutto quello che potevi. Nessun altro lo avrebbe fatto. Nessuno.»

Steve non sa che dire. Arriccia le labbra e assimila quelle parole; ricorda che, in un certo senso, Eddie ha cercato di motivarlo anche quel giorno, là sotto, nel bosco, mentre gli diceva di provare a riprendersi Nancy, quando l'unica cosa che Steve vuole è che lei sia felice. Che tutti siano felici.

A parte lui. Se lui non lo è, non importa, eppure Eddie sembra quasi combattere per quel fatto, per la sua felicità, come se volesse sentirgli dire a voce alta che ha bisogno d'aiuto, e forse è così. Forse Steve ha bisogno di qualcuno che faccia per lui quello che lui fa per gli altri.

«Mio zio mi ha sempre detto una cosa. Il peggior nemico che abbiamo siamo noi stessi, per questo dobbiamo imparare a conoscere i nostri limiti e gioire se ci abbiamo messo il massimo. Se non siamo andati oltre, non è colpa nostra, si vede che non era possibile farlo, no?»

«Immagino di no», sospira Steve, e forse inizia a crederci davvero, a quel fatto. Forse è vero che, dopotutto, ha fatto tutto il possibile, sempre, in qualunque occasione, pur di salvare gli altri. La maggior parte delle volte c'è riuscito, altre no, ma questo non cancella quello che è.

Quello che è diventato.

Il sottosopra l'ha cambiato, e a guardarsi indietro si trova migliorato. Non lo pensa sempre, ci sono momenti in cui vorrebbe non pensare il contrario ma è così che funziona la sua testa. Non è sempre in grado di non autosabotarsi.

Continua a pulire le ferite di Eddie, con cura, mentre l'altro trattiene a volte mugugni di dolore e imprecazioni tra i denti. È sceso il silenzio, ma sa di riflessione, da parte di entrambi. Steve sa che anche Eddie ha i suoi fantasmi – i suoi scheletri nell'armadio, e Chrissy è a capo di tutti i suoi incubi; non l'ha nominata nemmeno una volta e non sarà lui a risvegliargli quel ricordo, anche se sa che non si è mai spento nella sua testa.

«Ho finito. Ora va' a farti una doccia e dopo disinfettale di nuovo, se riesci da solo. Ci sono abbastanza cerotti per tutte le ferite. Anche sulle gambe, nel caso ne avessi. i vestiti sono lì», indica un comò appoggiato alla parete vicino alla porta e poi il dito si sposta verso il comodino accanto al letto. «E lì c'è della biancheria. Le scarpe sono nella scarpiera in bagno. Mi sa che portiamo più o meno lo stesso numero.»

«Mi sa di sì», risponde Eddie, guardando i piedi di entrambi, poi alza lo sguardo sul suo e sorride. «Grazie mille. Sarà un onore indossare gli abiti del grande King Steve!», dice, dandogli una gomitata sul braccio, in modo amichevole e ridacchiano entrambi, poi la risata si spegne e si guardano, ancora lì, seduti sul letto, così vicini che sembra quasi non esista uno spazio vitale, tra loro.

«Eddie?», lo chiama, ma non sa nemmeno il perché. No, lo sa, e sa cosa stava per dire, ma non ci riesce. Sono felice che tu sia vivo. Sono felice che tu sia qui. Sono felice che, malgrado tutto, sono io quello che ti ha aiutato a scappare. Sono felice che, alla fine, malgrado sembrasse impossibile, ci siamo avvicinati. Sei una sorpresa dopo l'altra.

«Dimmi», dice l'altro, i lati della bocca sollevati quasi trepidanti, in attesa di sentire cosa ha da dire, ora, il Re della Hawkins High.

Resta fermo, immobile, e guarda le sue ferite finalmente pulite, ma ancora così dannatamente infette. Ne sfiora una con il dito, e quando l'altro si ritrae, si ferma. Alzano lo sguardo nello stesso momento, e c'è un magnetismo che lo spaventa morbosamente. C'è qualcosa, negli occhi neri di Eddie, che sa di veleno e di salvezza.

«Riposa un po', se riesci. Ci vediamo dopo per cena», risponde, e si alza in piedi. Eddie non si muove, resta fermo sul letto e lo guarda. Steve sente i suoi occhi trapassargli la schiena ma, malgrado questo, non si gira. Esce dalla porta e la chiude dietro le spalle, lasciando dentro quella stanza un milione di dubbi e una sola certezza.

Eddie Munson gli piace più di quanto dovrebbe.

Fine Capitolo XIII

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