Capitolo XII - Casa
Capitolo XII - Casa
Quando la porta del cottage si apre, ad accoglierli, è il viso di El che, con un sorriso di sollievo, si porta le mani al cuore. Il suo sguardo dice tutto, e la tensione sulle spalle di Steve, per un attimo, si fa un po' meno difficile da sostenere. Dietro di lei, col suono duro di scarpe contro il legno, compaiono Will e Mike. Hopper resta sullo sfondo, con una birra in mano e l'altra nella tasca dei pantaloni.
Resta lì, in disparte, rispettando lo spazio personale di sua figlia e degli altri ragazzi. Steve pensa che il suo soggiorno in Russia deve averlo cambiato parecchio, sotto molti punti di vista. Forse le torture subite e tutto il resto gli hanno alleggerito il cuore, lasciando però altre ferite dentro, che difficilmente si riescono a rimarginare, persino col tempo.
Lui ne sa qualcosa, di torture. Sotto allo Starcourt gli è successo più o meno lo stesso – non a quei livelli, certo, ma lo hanno comunque quasi ammazzato pur di spillargli qualche informazione. Abbassa lo sguardo per un attimo, a quel ricordo, e gli salta un battito al cuore al pensiero del dolore e della paura che ha provato – più per gli altri che per sé stesso, ma è un lato del suo carattere che ha imparato a conoscere e ad accettare.
Eddie, appoggiato a lui con un braccio intorno alle sue spalle, inclina la testa per guardarlo. Sente il suo sguardo addosso e glielo restituisce.
«Ehi, tutto okay, ragazzone?»
Steve vorrebbe dirgli di no, che in effetti non c'è un cazzo di niente che vada per il verso giusto ma, dopotutto, in mezzo a tanta merda, sono riusciti a salvare almeno lui, ed è un peso in meno sulla coscienza che, in un certo senso, lo fa sentire meglio.
Sorride. «Cominci a pesare», risponde, ironicamente, e Eddie sbuffa divertito, alzando gli occhi al cielo e scuotendo la testa in un diniego.
«Non ci posso credere!», esclama Mike, ad un tratto e si fa avanti, in modo che possa avvicinarsi al suo Dungeon Master, «Eddie!»
«Santo cielo, Wheeler junior, hai una faccia tutta da manuale. E io di manuali me ne intendo abbastanza!», risponde Eddie e Mike ride, reprimendo probabilmente dentro tutte le emozioni, come suo solito. Qualcosa in comune con sua sorella, ammette Steve, che ora li sta guardando, silenziosa, accanto a Robin.
«Ragazzi, è fantastico, anzi meraviglioso che siamo tutti qui riuniti come ai vecchi tempi ma, se non vi dispiace, sarebbe carino entrare e lasciare questo sacco di vestiti lerci sul divano, vi va? Se non me lo togliete di dosso mi si spacca una spalla», interviene Steve e, come se tutti si fossero risvegliati da un sogno, si affrettano a far entrare tutti in casa e, non appena Eddie viene fatto adagiare su un divano, tutti quanti si siedono su delle sedie o, i meno fortuna, per terra. Tra questi c'è Steve.
Ha lasciato i posti più comodi alle ragazze e a Dustin, che ancora zoppica.
Sa di aver bisogno di riposare anche lui, che ha portato Eddie sulle spalle per mezzo chilometro, che lo ha aiutato a risalire dal sottosopra, che ha guidato fino lì, con le spalle tese e le gambe a pezzi, ma c'è tempo anche per quello.
A dire il vero non vede l'ora di tornare a casa a fare una doccia calda e dormire fino a domani pomeriggio.
«Direi che sarebbe bene fare qualche presentazione, non trovate?», osserva Robin, seduta sul divano, ai piedi di Eddie che si guarda intorno per nulla a suo agio, dunque incapace di rilassarsi. Steve si rende conto che si sente esattamente allo stesso modo.
«Beh, lui è Eddie. Eddie loro sono... loro. Ecco qua», risponde, indicando prima il ragazzo e poi gli altri con un gesto teatrale, poi si spolvera le mani, soddisfatto. Nancy gli lancia un'occhiata di traverso. «Che c'è?»
«Sei una bestia senza cuore», osserva Dustin, sospirando e Steve si accorge solo in quel momento che, invece di sedersi sulla sedia che gli aveva liberato, il ragazzino si è messo a terra accanto a lui.
«Ehi, aspettate un attimo. Solo un attimo! Io lo conosco!», sbotta Eddie, ad un tratto, guardando Hopper che, come un ninja, si è avvicinato ed è rimasto in piedi con le braccia incrociate al petto e un sorrisetto furbastro che la dice lunga su qualcosa che Steve non riesce a capire al volo.
«Lui... Io lo conosco!», ripete Eddie, e sembra quasi che tutte le energie gli siano tornate improvvisamente: si è alzato a sedere sul divano e, con una luce di puro terrore negli occhi, sta indicando Jim Hopper.
L'uomo gli lancia un'occhiata machiavellica. «Felice che ti ricordi di me, Munson», sbuffa via, divertito.
«Non ci posso credere!»
«Qualcuno può spiegare che sta succedendo, per favore?», chiede Mike, alzando un sopracciglio, dando voce al quesito di tutti.
«Lui... è lo sbirr- cioè, il poliziotto con il record più alto nell'avermi beccato a vendere... a vendere cose», spiega Eddie, senza tralasciare un certo imbarazzo, nel fare quella confessione.
«E con il record più alto delle volte in cui ho chiuso un occhio e ti ho lasciato andare via fingendo che non avessi visto nulla. Ringrazia tuo zio, per questo», risponde Hopper, ma non sembra per nulla arrabbiato, anzi. Sembra più divertito da quella buffa coincidenza. Eddie Munson, che vende roba illegale a gente di un certo calibro come truffatori, ladri e qualche studente col papà ricco, è sdraiato sul divano del capo della polizia di Hawkins. Entrambi tornati dalla morte. Steve non può fare a meno di pensare a quell'assurda coincidenza, mentre sposta la testa da uno all'altro come se stesse assistendo a una partita di tennis, e li ascolta conversare, quasi lo fa sorridere vedere Eddie più tranquillo e Hopper che quasi ci gioca sopra come fosse un altro ragazzino come loro da salvare.
«Più che un occhio direi! Che si è bendato la faccia! Immagino di doverla ringraziare, vero? Insomma, a quest'ora sarei in galera e...»
«E forse sarebbe stato meglio per te e non ti saresti ritrovato là sotto, con tutta questa gente che ti credeva morto», risponde Hopper, e Eddie abbassa la testa per un secondo, prima di tornare a sorridere in modo arrogante verso l'uomo.
«Immagino di sì», risponde, e lancia un'occhiata a Steve, fugacissima, che non sa come interpretare. Non sa se ha capito cosa vuole dire – ovvero che, probabilmente, se fosse stato in galera non si sarebbero mai incontrati, o se vuole dire altro. Se è pentito. Se avrebbe davvero preferito che le cose fossero andate come ha detto Hopper.
«Comunque io sono Eleven, ma puoi chiamarmi El, se preferisci», si intromette la figlia di Jim, avvicinandosi a Eddie e allungandogli una mano. «Mike mi ha parlato un sacco di te», sorride.
Eddie alza la testa e la guarda, poi la sua bocca si spalanca e forma una O. «Tu sei Eleven? La super eroina? Be', anche io ho sentito parlare un sacco di te! Piacere. E tu... tu devi essere Will, Will il saggio! Ho sentito parlare anche di te; avrei preferito conoscerti durante una partita a D&D ma... ehi, non si può avere tutto dalla vita, no?»
Il viso di Will viene attraversato da un guizzo divertito. «Anche Mike e Dustin mi hanno parlato molto di te. Non vedevo l'ora di conoscerti, a dirla tutta e sì, anche io avrei preferito farlo durante una sessione di gioco, ma mi accontenterò di questo primo incontro.» Si passa una mano dietro al collo, e sembra a disagio, timido come sempre, ma Steve lo osserva bene e sa, oh se lo sa, dietro la schiena di Will succedono tante cose, tra cui brividi e battiti che non gli appartengono, ma che fanno parte di un mondo diverso; anzi, un mondo che si sta fondendo al loro.
Stringe le mani a pugno e scopre che sono sudate, così decide di intervenire. «Se avete una cassetta del pronto soccorso, sarebbe magnifico usarla per curare le ferite di Eddie.»
El e Hopper si guardano, poi lei si morde un labbro e incrocia le braccia sotto al seno, a disagio. «Purtroppo abbiamo scoperto che tutte le medicine e le garze sono scadute, siccome questa casa è rimasta chiusa per tantissimo tempo. Avremmo voluto dirvelo prima ma ce ne siamo resi conto quando già eravate arrivati. Dovremmo uscire e cercare una farmacia o qualcosa del genere.»
«O magari portarlo in ospedale», se ne esce Mike, indicando Eddie con un gesto teatrale.
Steve sbuffa e si passa una mano sulla faccia, esasperato. «Certo, Wheeler, un ricercato per triplice omicidio tu lo porteresti in ospedale!»
«Non serve, non sono così messo male», dice Eddie, forse cercando di appianare le cose.
«Sei messo peggio. Non sappiamo quanto sono infette quelle ferite!», risponde Robin, e lo zittisce e Steve vorrebbe ringraziarla per averlo fatto al posto suo. Eddie torna a sprofondare nel divano, chiaramente incapace di ribattere. Nancy, allora, cattura l'attenzione con un colpo di tosse e, quando tutti la guardano, sembra quasi provare soggezione.
«Non possiamo portarlo da nessuna parte. A casa nostra pensano ancora che Eddie sia un assassino. Mia madre e soprattutto mio padre sono inamovibili sotto quel punto di vista.»
«Stessa cosa mia madre», risponde Dustin, alzando una mano.
«Lucas nemmeno e Joyce... beh, si sono appena trasferiti in una nuova casa, dubito abbiano una cassetta del pronto soccorso.»
Will annuisce e abbassa la testa, quasi si sentisse in colpa per quel fatto.
Così scende il silenzio. Nessuno sa cosa fare, anche se la soluzione di Steve, nella sua testa, sarebbe quella di uscire, andare a comprare i maledetti medicinali e tornare lì, ma non c'è posto per un malato. Ci sono a malapena due stanze e sono in mezzo al nulla e ha la sensazione che quel divano sul quale lo hanno appoggiato, sia in procinto di spezzarsi da un momento all'altro.
Sospira e si pianta le mani sulle cosce. «Lo portiamo a casa mia. I miei sono fuori, torneranno tra mesi. Dopo lo spacco hanno preso impegni lavorativi il più lontano possibile e, comunque, non sanno nemmeno chi sia Eddie. Ho una cassetta del pronto soccorso, ne sono certo. In più magari... non so, puoi farti una doccia, cambiarti i vestiti e dormire da me finché non sistemiamo le cose.»
Eddie lo fissa attonito, sbatacchiando gli occhi, come se si fosse imbambolato di fronte alla scelta più ardua della sua vita e, a vederlo così, a Steve viene quasi il dubbio di aver detto una grandissima stronzata e vorrebbe non aver mai fatto quella proposta.
«Sei... sei sicuro, Harrington?», chiede l'altro e lui sbuffa divertito, cercando di placare la tensione che invece gli ribolle dentro.
«Certo. E in più mi sembra l'unica soluzione. Ho altre stanze, comunque, magari se qualcun altro vuole venire, possiamo unire le forze per sostenerci.»
«Come una grande famiglia! Potremmo fare tanti di quei pigiama party! Non ho mai fatto un pigiama party!», esclama Robin, e Dustin le dà corda battendole il cinque.
«Voi due siete banditi da casa mia», sbuffa Steve, poi si rivolge alla sorella di Mike. «Nance?»
«Penso che sia una buona idea ma... non vengo a casa tua da un po' e preferirei ci fosse anche Robin, con noi.»
Steve e Nancy si scambiano uno sguardo profondo, che ha un significato ben diverso da quello che gli altri potrebbero leggerci atraverso: significa che stanno entrambi pensando a quella sera, quella maledettissima sera, dove Barb è sparita – anzi, è morta a casa sua. Steve cerca di pensare che era nel sottosopra, non è successo lì, non nel suo giardino, ma non è sempre facile da credere e, per quello, la sua morte tenderà sempre a dividere un po' lui e Nancy. Lo sanno entrambi, ci sono scesi a patti, ma a volte fa ancora male condividere una cosa così grande come quel dolore.
Sente gli occhi di Eddie addosso e, quando si volta a guardarlo, lui distoglie subito lo sguardo.
«Okay. Allora andiamo a casa mia», annuisce e, senza indugiare ulteriormente, si alza e mostra la sua mano a Eddie che, ora, lo guarda confuso. «Se non vuoi morire in casa di uno sbirro, Munson, ti conviene venire con me», cerca di ironizzare e l'altro, dopo un momento di esitazione, sorride. Gli stringe la mano e si fa aiutare ad alzarsi in piedi.
«Ci rivedremo presto, è chiaro che avremo bisogno di parlare di questa situazione, quando Eddie starà meglio», dice Nancy, rivolta a tutti, mentre Robin le si affianca.
•••
Quando varcano la soglia di casa, la prima cosa che li investe, è il buio, seguito poi da un silenzio assoluto che sembra annidato tra quelle mura da troppo tempo, come se si fosse radicato all'interno delle pareti stesse, del suo scheletro. A Steve ha sempre lasciato addosso un senso di inquietudine specie perché, quella casa, non la condivide mai con nessuno e, quelle rare volte in cui ci sono i suoi, si sente come se fosse prigioniero di troppe cose, tra cui le aspettative prive d'affetto di suo padre. Per quello cerca di uscire di casa il più possibile, tra il lavoro e le cene sfigate con Robin, per non stare solo o per non stare con loro.
Lui e Robin, ogni tanto, hanno provato ad uscire anche con altre persone ma, a parte i ragazzini a cui fa praticamente da babysitter, Steve non riesce a legare più con nessuno da un sacco di tempo e, si domanda dentro, se diventare adulti non significhi proprio questo: scendere a patti col fatto che ora è molto più selettivo per quanto concerne la scelta delle amicizie di cui circondarsi. Ha imparato delle lezioni dalle compagnie che ha frequentato in passato e con cui ha tagliato definitivamente i ponti, ovvero che si vuole un po' più bene. O almeno questo è quello che pensa in parte..
Alla fine, se scava più a fondo, sa che c'è altro che lo ha cambiato e che, forse, ha fatto lo stesso con tutti gli altri. Il sottosopra li ha un po' divisi dal mondo, e a volte è difficile ritrovarsi insieme a chi non sa. Non è facile tenere per sé un segreto così grande, e forse è questa la ragione per cui non riesce ad andare oltre la cerchia di colore che, invece, sanno.
Scuote la testa, perso nei suoi pensieri, mentre sono ancora oltre la porta di casa, fermi immobili, ad aspettare una sua mossa.
«Hai intenzione di lasciarci qui ad ammirare la grandezza di casa tua?», lo rimbecca Robin e lui si risveglia, e sente tutto il peso di Eddie sulla spalla sinistra, all'improvviso, ricordandosi dove sono e perché..
«Non avete bisogno del mio permesso per entrare. La luce è lì.» Indica un interruttore che Nancy prontamente va ad accendere e, l'atrio di casa, finalmente si illumina e rivela le scale che salgono al piano di sopra, appena sulla destra e una stanza a sinistra, ovvero il salotto.
Steve trascina Eddie verso le scale e, quando si ferma proprio all'inizio, lo guarda.
«Ti porto di sopra. Nella mia stanza c'è un bagno dove puoi farti una doccia. Nei cassetti del comò ci sono dei vestiti e in quelli del comodino la biancheria. Non farti problemi a prendere quello che ti serve.»
«Problemi?», sbuffa divertito Eddie, «Io che mi faccio problemi?»
Steve alza gli occhi al cielo e ride. «Oh, giusto! Tu sei quello sfacciato del gruppo!», ribatte, poi gli stringe un braccio intorno alla vita e lo aiuta a salire. Un gradino per volta, pian piano; si lascia guidare da Eddie, dai dolori, dal tempo che gli serve tra un gradino e l'altro. Non appena arrivano al piano si sopra, gli indica la sua stanza e apre la porta. Lo fa entrare e, con delicatezza, lo fa sedere sul letto.
I versi di dolore di Eddie sembrano quelli di un vecchio che non riesce più ad alzarsi per via dei reumatismi e, sebbene non ci sia nulla da ridere, quel fatto lo diverte un po'.
Lo scoiattolo che, fino a qualche giorno fa, fuggiva senza farsi trovare, è invecchiato.
«Stai bene?»
Eddie strabuzza gli occhi, come se quella fosse la domanda più idiota che gli abbiano mai posto. E forse è così. «Bene? Santo cielo, guardami! Sono decisamente lontano dallo stare bene, ad essere onesti. Mi sento uno straccio. Fa tutto così male che mi sento fuori dal mio corpo, e non è una bella sensazione, se lo vuoi sapere», gli confida e, subito dopo, quasi come se volesse rassicurarlo, alza gli occhi sui suoi e gli sorride. «Me la caverò, Steve. Se non mi hanno ucciso quelle cose prima, non lo faranno ora. Smettila di preoccuparti così tanto!», ironizza, ma anche se non lo dà a vedere, Steve è preoccupato sul serio. Non gli piace l'idea che siano ancora lì, a discutere su come sta, con i vestiti ancora imbrattati di sangue e l'aria di chi ha bisogno di cure vere.
«Vado a prenderti la cassetta del pronto soccorso.»
Esce dalla stanza, dopo che Eddie ha annuito mettendosi più comodo seduto sul letto, con una lentezza quasi frustrante. Torna poco dopo con una valigetta che ha recuperato nel bagno della stanza patronale, quella dei suoi genitori e la appoggia sul letto.
«Ecco qua. Dovrebbe esserci tutto: garze, cerotti, acqua ossigenata e qualche antidolorifico. Se ti serve una mano chiama, okay? Mettici tutto il tempo che ti serve», ripete, chinato su di lui, come farebbe un padre premuroso, probabilmente.
«Steve, se continui a dirmi di metterci tutto il tempo che mi serve finirò per fare le cose di corsa. Rilassati, sto bene, devo solo... rimettermi in sesto. Sì, mi serve rimettermi in sesto», sorride Eddie e lui gli restituisce lo stesso sorriso, sbuffandolo via, conscio di essere ripetitivo e pressante solo perché è preoccupato e Eddie l'ha capito e, alla fine, si ritrova lui ad essere rassicurato dall'altro, quando dovrebbe essere il contrario.
Continua a sentirsi un po' responsabile per quello che gli è successo, e forse è per questo che continua inesorabilmente a tentare di confortarlo, a ripetergli che va tutto bene, che ora è al sicuro, che quello che è successo non si ripeterà.
Vorrebbe poter dire le stesse cose a Max, e quel pensiero gli spacca in due il cuore. Succede ogni volta che ci pensa e tutte le volte in cui va a trovarla all'ospedale.
«Ti lascio fare, ci vediamo dopo. Ordiniamo qualcosa per cena, okay?»
«Cibo! Il cibo è buono! Il cibo va bene!», esclama l'altro, entusiasta, e per un secondo gli ha visto quasi sparire il dolore dal viso. Deve avere seriamente una fame tremenda.
«Allora sarà bene che ti sbrighi, o Robin sarebbe capace di mangiarsi pure il tavolo e non lasciarti nemmeno una briciola.» Steve si rimette in piedi sulla schiena e ignora ridacchiando le proteste di Eddie, avvicinandosi poi alla porta per andare via.
«Steve?», lo chiama Eddie. È lo stesso, identico tono di voce che ha usato quel giorno, nel sottosopra, quando si sono visti per l'ultima volta prima della battaglia contro Vecna e, dietro la schiena di Steve, ballano brividi che sanno di brutte memorie. Si volta. Eddie lo guarda con la medesima espressione di quel giorno; resta in silenzio per una manciata di secondi, che a lui paiono ore e poi guarda altro per un attimo, prima di tornare su di lui. «Grazie per quello che stai facendo per me. È un sacco metal.»
«Deve essere proprio il non plus ultra dei tuoi complimenti, questo!», risponde, semplicemente e ridono entrambi. «È okay, non devi dirmi grazie», si sente di dire, prima di uscire fuori dalla porta della sua stanza. Poggia la schiena alla porta, una volta chiusa dietro di sé, buttando via tutta l'aria che non è riuscito a respirare fino ad ora.
Lo sa, come lo sapeva quel giorno, che Eddie non gli ha detto quello che avrebbe voluto. Che Eddie si è tenuto dentro qualcosa, e ancora una volta ha scelto di cambiare le carte in gioco all'ultimo momento, forse carente di coraggio, forse per nulla pronto.
Steve sa solo che, dentro, sente ribollire il sangue e che il cuore, ora, gli batte forte al ritmo di un orologio rotto e impazzito e non ne capisce la ragione.
O forse, chissà, è dura ammettere che sa benissimo il perché.
Fine Capitolo XII
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