Capitolo VIII - Corri e non ti fermare
Capitolo VIII - Corri e non ti fermare
Quando Eddie esce di casa, non si premura nemmeno di richiudere la porta; ci pensa da sola, con un tonfo inquietante, a sbattere contro la serratura. Si volta un secondo a guardare il caravan e l'idea che sia in parte distrutto e che una linea di terra spalancata l'abbia quasi inghiottita, gli fa salire il cuore in gola. Si chiede se sia successa la stessa cosa di sopra, se zio Wayne sta bene e si domanda, nel mosaico confuso incastonato nella sua mente, se lo zio lo odi profondamente per averlo lasciato solo. Non ha tempo però, ora come ora, di soffermarsi su quei dettagli e quei pensieri intrusivi e distruttivi, perché il tempo stringe e Dustin, Steve, Robin e Nancy sono già partiti verso la villa dei Creel e lui non può permettersi di perdere un secondo della sua miserabile vita a guardarsi indietro e a porsi domande alle quali non avrà risposte finché non tornerà a casa. Se ci riuscirà, ovviamente.
Non che sia un tipo che rivanga troppo il passato, ma a volte gli succede di non andare oltre le sue possibilità per paura di commettere sempre gli stessi errori e di fallire e sentirsi inutile. Perché sa di esserlo, ma non vuole dare prova al mondo che le cose stiano effettivamente così.
Quell'esperienza nel sottosopra deve avergli insegnato qualcosa, anche se forse non sa ancora bene cosa per questo, raggiunto lo spiazzo di fronte al caravan, si guarda intorno. Ha visto la bici buttata a terra pochi metri più avanti e, confermare che ci sia davvero e che non si tratti di una proiezione della sua mente che si sta pian piano disintegrando, lo risolleva. Si china per raccoglierla, ma gli sfugge dalle mani quando un lampo esplode nel cielo e lo illumina di rosso. Poi esplode in un rombo che gli fa schizzare la pelle delle braccia in un lunghissimo brivido.
«Cristo santo, se esco vivo da qui avrò bisogno di qualche seduta da Miss Kelley, mi sa.»
Si china di nuovo e finalmente riesce a tenere la bicicletta tra le mani senza farsela scivolare di nuovo. Si posizione accanto al sellino e, come se le gambe fossero fatte di cemento, alza la sinistra con una lentezza quasi frustrante. Prova a scavalcare la bici per sedercisi sopra, ma l'inguine tira e fa un male cane, così come le ferite sull'addome quando piega la pancia all'indietro per sedersi. Trattiene un vagito di dolore tra le labbra, che stringe tra i denti e, cercando di convincersi che sarà tutto semplice e veloce, Eddie prende coraggio e tenta di allontanare quella sensazione di essere sostanzialmente un morto che cammina. Quando finalmente ha le chiappe ben salde al sellino, stringe forte il manubrio e, guardando dritto fisso di fronte a sé, verso il bosco e la villa dei Creel, posa un piede sul pedale e poi si spinge in avanti con l'altro, iniziando poi a pedalare.
Il dolore che prova ovunque è lancinante, come quando dopo educazione fisica e pagava le conseguenze di due chilometri di corsa e una trentina di flessioni la mattina dopo appena sveglio, per colpa dell'acido lattico. Ricorda ancora quei giorni, alle scuole medie, quando aveva ancora la testa rasata e qualche segno di colluttazione sul naso – a volte pure qualche occhio nero e, il professor Kurt di educazione fisica, premiava chi riuscivano a fare più flessioni e in meno tempo. Eddie non si è mai sprecato nel concorrere con nessuno; non è un tipo competitivo, almeno non in quel tipo di giochi e forse nemmeno a D&D, visto che fa il master e forse lo fa perché gli piace vedere i ragazzi divertirsi durante le campagne che crea con un certo impegno. Però ha questo ricordo dove alcuni dei ragazzi più cool si mettevano d'impegno per vincere la sfida, e sembravano tutti così uniti, così complici; si prendevano in giro per scherzo, erano sempre in gruppo e lui era lì, da solo, per nulla invidioso di quello che loro avevano, ma con la consapevolezza dentro di sentirsi un po' solo, emarginato, diverso. E tra quei ragazzi che si divertivano, c'era anche Steve. E, come in un tradizionale teen drama, quelle sfide le vinceva sempre lui.
Non per nulla è il Re della Hawkings High persino ora che si è diplomato.
È sempre stato un king, e gli è sempre stato sul cazzo, a dirla tutta. Per quanto, tra tanti stronzi, è l'unico a non avergli mai buttato addosso un solo insulto, o ad avergli fatto un dispetto o chissà che altra cattiveria. Lo ha semplicemente ignorato.
Anzi, si sono ignorati, per una vita intera, e ora quel damerino sta scendendo lì sotto per salvargli la vita.
Scuote la testa, e gli scappa una mezza risata amara, ed è chiaro che, nella vita, ci sarà sempre qualcosa che ti stupirà e che proprio non avresti mai pensato...
Con quel pensiero nella testa, comincia a pedalare più velocemente. Anche se le gambe gli fanno un male cane, anche se le ginocchia scricchiolano come se potessero spaccarsi da un momento all'altro. Anche se le ferite sembrano quasi essersi riaperte e sente la maglietta di nuovo umida in alcuni punti. Si augura sia sudore e non sangue.
Non può fermarsi ora per accertarsene, sarebbe inutile, stupido e da dementi totali. Deve fare uno sforzo, un ultimo sforzo e spingersi fino alla villa, farsi salvare, tornare su e dimenticare per sempre quell'esperienza, sebbene non sarà facile, ma può dire di essere vivo, per lo meno e non è una cosa da tutti, da quello che ha capito.
Sta quasi per sorridere con un certo entusiasmo, quando dietro di lui, come un boato rilasciato dall'inferno stesso, sente un suono fin troppo familiare e inquietante, che lo fa sobbalzare. Non smette di pedalare, ma si volta indietro di tre quarti, scoprendo con terrore che uno stormo di demo-bats sta arrivando da lontano e lo sta puntando. Di nuovo.
«No, no, no, no, no, cazzo, no!», urla e, stringendo i denti, tenta di accelerare la sua corsa verso la villa degli orrori, sperando che entrare dentro la casa non gli riservi altre sorprese, come incontrarsi faccia a faccia con Vecna e spiegargli per quale assurda ragione si trovi lì, anche se è convinto che non gli importerebbe un gran che di sentire le sue ragioni.
Li sente sempre più vicini, quei cosi maledetti e, quando si gira di nuovo per capire quanto stacco c'è tra lui e loro, scopre con orrore che lo stanno raggiungendo. Non può correre più di così, ha le gambe a pezzi, le braccia doloranti. L'effetto della paralisi è svanito, ma è come se avesse iniziato a usare i muscoli ora, dopo anni che non lo faceva e di nuovo gli tornano in mente le gare del professor Kurt, il fatto che quei ragazzi – e Steve, per vincere avrebbero, fatto qualunque cosa.
Ma non lui. Non Eddie Munson.
Sente un demo-bat gracchiare quasi vicino al suo orecchio e, con un urlo terrorizzato, si lascia cadere dalla bici e si mette subito in piedi. Quando alza la testa verso il cielo, lo stormo nero è sempre più denso e, l'unica cosa che può fare, è correre.
No, non può. Non ce la farà mai. Lo prenderanno e lo uccideranno.
L'unica cosa che può fare è nascondersi e, impegnato a cercare di non pensare al dolore, si guarda intorno alla ricerca di un rifugio.
Poco lontano da lì, dopo una breve strada sterrata, c'è la vecchia casa dei Byers. Se non ricorda male ora non ci abita più nessuno – o, da quello che gli hanno detto Mike e Dustin, è stata messa in vendita, anche se forse nessuno vuole comprarla, dopo quello che è successo al piccolo Will Byers. Ricorda ancora quel caso con un brivido lungo la schiena e, sapere che William abbia passato esattamente ciò che sta passando lui, uscendone però sano e salvo, un po' lo conforta e un po' lo fa rabbrividire.
Si dirige verso la casa, correndo, zoppicando, con la sensazione che tra poco le ginocchia gli esploderanno, ma non può fermarsi. Non può, non ora, non adesso.
Corre lungo il vialetto, i piedi che bruciano, il rumore dei demo-bats dietro di lui.
Fa un ultimo, faticoso sforzo e, sbattendo con la spalla contro la porta d'ingresso, la apre e la richiude immediatamente non appena si ritrova dentro. Il suono di quei cosi contro le pareti è simile a tanti chiodi che vengono spinti contro il muro contemporaneamente da un martello.
Eddie si gira di schiena verso la porta, col fiatone, e cerca di ricordare al suo corpo come accidenti si fa a respirare. Si lascia scivolare giù, di schiena, verso il pavimento e si siede a terra, prendendosi le ginocchia tra le mani.
Guarda il soffitto, ma è così buio che non vede niente.
Ha paura, non può negarlo, e nasconde il viso tra le braccia appoggiate alle ginocchia.
Non ne può più, è stanco morto di tutto; di fuggire, di nascondersi, di mettere in pericolo le altre persone...
Non sa che fare, sa solo che ora nessuno sa dove si trova, non può comunicare con nessuno se nella casa dei Byers non ci sono più i Byers, no?
«Sarebbe stato troppo semplice per essere vero, immagino», mormora, tra i denti, e pensa ancora alla gare di educazione fisica, a chi non si è mai arreso, a chi si è portato al limite pur di vincere. Come Steve, e glielo ha visto fare persino lì sotto, o quando si è buttato dalla barca, o quando ha cercato di salvarlo più volte, o quando ha rubato quel camper e lo ha guidato a piedi scalzi.
Vorrebbe avere anche solo un briciolo del suo coraggio, della sua capacità di saper gestire ogni situazione, e invece no, lui non è così.
Lui non è Steve Harrington.
I demo-bats continuano a picchiettare contro le pareti, cercando di buttarle giù a colpi di testa e, probabilmente, con la fortuna che si ritrova, ci riusciranno e sono talmente incazzati per non averlo finito la prima volta, che probabilmente ora lo divoreranno vivo.
Allunga le gambe sul pavimento e si controlla la pancia. Come temeva le ferite si sono riaperte, e nuove chiazze rosse hanno imbrattato i suoi vestiti. Un brivido gli percorre la schiena, perché forse dovrebbe medicarsi, nel frattempo, e magari trovare una via d'uscita sul retro. Cerca di alzare la maglietta ma, quando sente il tessuto attaccato a una ferita e la crosta alzarsi dalla pelle, lascia subito la presa. Fa male, malissimo, e farà male medicarsi, farà male ricucire, se mai sarà necessario – e spera proprio di no.
Il suono dei demo-bats, i loro versi, sono sempre più forti e l'idea che qualcosa possa andare nel verso giusto inizia pian piano a sfumare dalla sua mente.
Chiude gli occhi, e aspetta. Non sa ancora bene cosa, ma lo fa.
Poi però sente un suono improvviso, come se qualcosa fosse improvvisamente esplosa e, subito dopo, i versi incazzati dei pipistrelli satanici si trasformano in pure grida agonizzanti e inquietanti. Sente un fuoco crepitare e, dalle finestre, entra la luce rossa delle fiamme che finalmente illuminano la casa.
Poi tutto cessa e il buio torna a circondarlo.
Sente dei passi che si avvicinano alla porta; passi pesanti, pesantissimi, ma lenti, inquietanti.
Si copre le orecchie, non vuole ascoltare.
È Vecna, è lui, è venuto a prendermi. Mi ha trovato. Pensa, e il cuore gli batte così forte che gli sta venendo il mal di testa. Gli bruciano gli occhi, sente la pressione sanguigna tutta concentrata verso il cervello, che pulsa, e raschia, e non si vuole rassegnare all'idea che lo aspetta una morte orribile.
Ripensa a Chrissy, ripensa a come è morta. Ripensa a Patrick, alle sue ossa rotte, al suo sguardo vuoto. Ripensa a come tutto questo non c'entri niente con lui e di come invece ne è rimasto implicato.
Mi dispiace, Dustin. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!
I passi cessano appena dietro la porta, un picchiettio annuncia che il momento è arrivato, poi il silenzio.
Chiude gli occhi e aspetta.
«Eddie?»
Spalanca le palpebre di scatto, guarda fisso di fronte a sé, e assimila quella voce che lo ha appena chiamato e pensa, dentro di sé, che non ha mai avuto così tanta paura in vita sua come in questo momento.
Fine capitolo VIII
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