Capitolo VI - Eddie, Mi Ricevi?
Capitolo VI - Eddie, Mi Ricevi?
Ha la sensazione che, infine, dopo ore che ha letteralmente passato quasi a dover imparare nuovamente a percepirsi per intero, le gambe abbiano ritrovato una certa stabilità e, fortunatamente, il fastidioso formicolio che le ha accompagnate fino ad ora è sparito quasi del tutto. Eddie fa un sospiro lunghissimo, mentre le dita sono strette intorno alle ginocchia – è seduto sul letto, si sente come una marionetta rotta, lasciata in una stanza buia perché non più utile al suo compito primario.
Dimenticato da tutto e tutti.
Sospira. «Okay, okay. Le sento, ci sono. Le mie gambe funzionano ancora, e questo è un bene, no?», mormora a sé stesso, poi gonfia le guance e butta via aria, cercando di alleggerire quella tensione che gli ha arrotolato un gomitolo di preoccupazioni intorno al cuore, ben sapendo che ora gli tocca la parte più difficile: alzarsi in piedi e capire se è ancora in grado di camminare. «Mi piacerebbe tantissimo poter tirare un d20 a stamina, in questo momento, sai?», chiede al soffitto, e si sente un completo deficiente all'idea che, per la prima volta in vita sua, sta parlando con Dio, ma ha la sensazione che sia l'unica presenza che gli è rimasta vicina. Come se lui esistesse, poi... e come se, da quell'inferno, potesse effettivamente sentirlo. Ha la sensazione di star impazzendo, ed è questo il motivo per cui si è abbassato a discutere con Lui, dato che non lo ha mai fatto prima e mai avrebbe creduto di arrivare ad essere così disperato da invocare quasi il suo aiuto.
Nessuno gli ha mai impartito un'educazione su Dio; o meglio, nessuno gli ha mai insegnato cos'è l'educazione. Sua madre, per quanto ne sa, è andata a vivere in un altro paese quando suo padre è stato arrestato e, del suo vecchio, non ha più notizie da anni. L'unica persona che si prende cura di lui è zio Wayne, ed è l'unico a cui forse è mai importato qualcosa del suo futuro. Eddie guarda la sua chitarra, ancora sdraiata sul suo letto - e si chiede chi abbia mai avuto la sentimentale idea di poggiarla accanto a lui come se fosse la spada di un guerriero caduto -, la prende tra le mani e sorride.
Zio Wayne non è un uomo particolarmente loquace, lo ammette. Non parla quasi mai, ma quando lo fa sa sempre dire la cosa giusta e... e soprattutto lo ascolta, anche quando lo ha di certo deluso con la sua indole così caotica e stravagante, o quando è stato rimandato a scuola per i brutti voti e la pessima condotta; gli fa i suoi discorsetti, che non durano molto, ma il più delle volte cercano di rimetterlo in riga e ricordargli che non è come suo padre, non è egoista, menefreghista, un avanzo di galera, un poco di buono e lui, ogni volta, abbassa il capo, gli chiede scusa, riceve un abbraccio e il giorno dopo prova a fare del suo meglio, ad essere un Eddie migliore, anche se poi è un attimo ricadere negli stessi errori ma... quella chitarra ha un significato gigantesco, ed è stato il regalo più bello che gli abbia mai fatto. Forse l'unico per cui abbia speso più di quanto potesse permettersi.
«Non ne potevo più di sentirti suonare quel rottame di vent'anni fa.» Gli ha detto, quando lui l'ha scartata per il suo dodicesimo compleanno.
«Ma è tua! E fa il suo dovere. È un po' vecchia, ma è un'ottima chitarra.»
«Questa è meglio, credimi. Trattala bene, Eddie. Non penso di potermene permettere un'altra molto presto», gli ha risposto, e gli ha arruffato i capelli, lasciandosi sfuggire uno dei suoi rari, mezzi sorrisi. Qualcosa che resta impresso nella mente e nei ricordi molto più del dolore, certe volte, specie se sono gesti che vedi di rado sul viso di qualcuno.
Eddie lo ha abbracciato, stretto stretto. Si è sentito come un bambino piccolo che ha fatto il bravo, per una volta, e si è meritato un regalo pazzesco. Sa quanto impegno metta suo zio nel suo lavoro, quanto sia sempre poco presente per permettere ad entrambi di vivere una vita dignitosa e... e forse se ne sta rendendo conto solo ora, di quanto avrebbe potuto dare, se avesse messo la testa a posto molto prima.
Se esco vivo da questa merda, giuro che la smetto di fare il coglione e mi sistemo. Mi diplomo e gli compro una casa come si deve. Glielo devo, dopotutto.
Sposta la chitarra di nuovo sul letto, con la solita delicatezza con la quale ha imparato a maneggiarla e appoggia le mani sul materasso, pronto a spingersi verso l'alto per alzarsi in piedi e testare le sue gambe, con la speranza di ricordare ancora come si usano. Si sente debole, ha sempre una fame tremenda, ma non può demordere ora. Non può restare lì. Non può aspettare che qualcuno venga a salvarlo, come non può pretendere di sopravvivere là sotto troppo a lungo, se resta fermo dove è.
Muove i muscoli delle cosce per staccarle dal materasso e il dolore che percepisce è come un pugnale incandescente che sembra spaccargli in due l'interno delle ginocchia fino a salire su, stringendo intorno alle cosce e raggiunge i fianchi. Stringe i denti, perché la voglia che ha di urlare va oltre ogni decenza.
Non si può arrendere, non può farlo adesso; non ora che è a metà dell'opera. Si spinge di più verso l'alto, il bacino si piega all'insù e le ferite sulla pancia bruciano e vede letteralmente le stelle, dietro le palpebre che ha appena stretto dolorante.
Fa un ultimo sforzo. Ritrae il bacino, sposta il peso del corpo sulle ginocchia e, infine, si mette in posizione eretta. Non è certo di sentire davvero le proprie gambe, sembrano più arti fantasma; trema, vibra, oscilla su sé stesso troppe volte, ma non può cedere; non se lo può permettere. Alza la gamba sinistra e cerca di metterla poco più avanti della destra; quando posa il piede a terra barcolla un secondo, ma poi riprende immediatamente l'equilibrio, allargando le braccia verso l'esterno per trovare una stabilità che lo tenga in piedi.
«Bene! Bene, bene, bene, cazzo! Molto bene! Non è chissà che, ma è un passo avanti!», cerca di motivarsi da solo, battendo le mani e sfoggiando un pugno verso il cielo, come a voler dire, rivolto a Dio: Hai visto? Non ci credevi nemmeno tu!
Sposta il piede destro di fronte al sinistro, ancora instabile, ma riesce finalmente a fare un passo avanti. Gli viene da piangere e non per la felicità o per la disperazione, ma perché la schiena gli fa un male cane, e si rende conto che il tessuto della maglietta si è appiccicato alle ferite sul petto. Gli vengono i brividi solo al pensiero che dovrà strapparla via...
«Un problema per volta, okay? Un cazzo di problema per volta, Munson. Non essere frettoloso, fai con calma, hai tuuuuutto il tempo del mondo!», esclama, poi alza le sopracciglia, «Beh, non proprio tutto, sarebbe bene se ti sbrigassi, ma prenditi il tuo tempo, okay? Stiamo andando bene, razza di stronzo!», si insulta e, come se le sue gambe l'avessero presa sul personale, quando muove di nuovo il piede sinistro e lo appoggia a terra, gli sembra di non percepire il pavimento e, inesorabilmente, il ginocchio si piega e Eddie cade a terra, prima sulle ossa delle ginocchia e poi di lato.
«Gesù Cristo!», urla, stavolta, incapace di trattenersi, perché questo ha fatto davvero, davvero male. «Cazzo, cazzo! Che male! Cazzo!»
Quasi non gli importa più niente se i demo-bats lo troveranno di nuovo e finiranno di banchettare con la sua carne. Quasi non gliene frega un cazzo se Vecna dovesse aprire quella dannata porta e portarlo con sé nella sua stanza dei trofei, insieme a Chrissy, il collega della Wheeler e Patrick. Non gli importa niente, davvero. Fa troppo male. Si stringe le ginocchia al petto. È un dolore insopportabile, è insopportabile l'idea di essere incastrato lì, ancora vivo, con zero speranze di riuscire a cavarsela.
Non è vero che, se è sopravvissuto, significa qualcosa. Non esiste il destino, così come non esiste la fortuna. È un caso che abbia riaperto gli occhi, non c'è alcuna correlazione con la spiritualità delle cose. Non c'è Dio, non c'è un bene superiore che lo ha risparmiato, c'è solo la cazzo di sfortuna e la disperata paura di morire di nuovo, stavolta per sempre, provando lo stesso, identico senso di vuoto che ha provato la prima volta.
«Non voglio morire di nuovo», mormora, poggiando la testa al pavimento, e non ha la forza di riprovarci. Sente le gambe, sono di nuovo sue, ma è troppo difficile, persino per uno abituato a scappare sempre, da qualsiasi cosa.
È la fine. Stavolta è davvero la fine.
«Eddie?»
Spalanca gli occhi.
Qualcuno lo ha appena chiamato, e il tempo sembra essersi frizzato all'improvviso. Alza leggermente la testa, si guarda intorno, ma non c'è nessuno e l'unico pensiero che gli passa per la testa è quello che in verità sia completamente uscito di testa.
«Eddie, mi ricevi? Eddie!», la voce torna a riempire l'aria e, questa volta, Cristo sì, questa volta è forte e chiara. Non può metterci la mano sul fuoco ma l'ha sentita davvero, e il fatto che somigli a quella di Dustin gli fa accelerare il battito cardiaco spasmodicamente. Non può farsi venire un infarto proprio ora.
«Eddie, se ci senti, ti prego fai qualcosa per comunicarcelo!» Questa è la voce di Robin, ne è certo. No, non sta sognando. No, no, no, no, è tutto vero, ma non sa dove siano. Forse di sopra? Come lo erano Dustin e i fratelli Sinclair quel giorno in cui hanno comunicato attraverso le luci?
«Eddie? Resteremo qui finché non ci darai un segno di vita ma ti prego, fai in fretta! Sappiamo che sei lì e che sei vivo.» Wheeler? È lei? Santo cielo, se sta impazzendo lo sta facendo per bene, ma è sempre più convinto che quelle voci siano vere e che, dopotutto, da quando è arrivato laggiù, niente sia impossibile, dopotutto.
Il sottosopra ha rovesciato tante di quelle certezze che non è sicuro più di niente,
«Ragazzi!», urla, poi alza il busto con una fatica quasi fastidiosa e si mette a sedere sul pavimento. «Dio, non mi sentiranno mai. Com'è che abbiamo fatto, quel giorno, con il codice morse?», si chiede, e cerca di alzarsi in piedi, lo sguardo sempre rivolto verso l'alto; il suo unico appiglio, sapere che sopra la sua testa c'è qualcuno che sta cercando di salvarlo.
«Usa una luce, una lampada, qualsiasi cosa, Munson. Ma per l'amor di dio, spicciati!»
Steve. È la voce di Steve, non ha dubbi. Cristo, deve essere incazzato nero con lui. Gli ha promesso che non avrebbe fatto l'eroe, e invece...
Gli scappa una risata nervosa, al pensiero, ma l'idea di ricevere un pugno in faccia da Steve Harrington è più confortante che rimanere intrappolato lì dentro e farsi mangiare da dei mostri che, fino a poco tempo fa, facevano solo parte della sua fervida immaginazione.
Si guarda intorno e, con un ultimo sforzo, riesce ad alzarsi in piedi poggiando le mani sul letto. Non è facile sostenere il peso del proprio corpo e restare in equilibrio, ma deve trovare il modo per accendere una cazzo di luce e comunicare con loro. Si avvicina all'interruttore della plafoniera posta al centro del soffitto. La preme almeno una dozzina di volte, ma questa non ne vuole sapere di accendersi.
«Cazzo, cazzo, cazzo», mormora, avvicinandosi poi all'abat-jour a forma di teschio appoggiata al comodino vicino al suo letto. Cerca di farlo velocemente, ma cammina come se gli avessero infilato un palo su per il culo e non è una bella sensazione. Preme il tasto di accensione quasi ossessivamente.
«Eddie? Una luce, trova una luce, amico, e dimmi che sei ancora lì, per favore!» È di nuovo Dustin e l'ansia di sentirlo così impaurito lo assale, e di nuovo avverte quel peso in mezzo al petto che aveva smesso di premerlo non appena ha sentito le loro voci.
Se ne andranno. Se non riuscirai ad accendere una stracazzo di luce se ne andranno, ti lasceranno qui credendoti morto e tra non molto lo sarai davvero. Pensieri intrusivi, catastrofici, e un attacco di panico pronto a esplodere nel petto. Gli tremano le mani, mentre continua a provare ad accendere la luce, senza successo.
«Dai, dai, dai, dai, dai, stronza, dai!», urla e, quando sta per lasciar andare l'interruttore, disperato, pronto a scavare lui stesso un portale sul soffitto, se fosse necessario, la luce finalmente si accende.
Stacca immediatamente la mano dal pulsante e, con il fiatone e il sudore che gli imperla le guance, Eddie si ferma. Guarda la luce, poi il soffitto e aspetta.
«Guardate!», urla Robin e un gran fracasso di piedi che si muovono seguono quell'esclamazione. «Si è accesa!»
«Bada-bada-bum! Che vi avevo detto?», risponde Dustin e la sua voce è un insieme di entusiasmo, commozione e quel suo solito tono da sotuttoio che lo rende comunque adorabile. Eddie si lascia sfuggire un sorriso e stringe i pugni sulle ginocchia, che ora tremano. Non sa se per lo sforzo o per la paura.
«Sì, hai avuto i tuoi cinque minuti di gloria, Henderson», replica Steve e Dustin risponde con una protesta che non riesce a cogliere. «Eddie, riesci a dirci se stai bene usando la luce? Una volta sì, due volte no. Okay? È chiaro?»
Eddie si morde il labbro inferiore, poi fa mente locale e ricorda il momento in cui hanno usato le luci e l'S.O.S. per parlare con gli altri ad Hawkins e, alzando una mano tremante, la spinge verso le particelle che vorticano vicino alla luce. Questa si intensifica, poi la ritrae.
«Okay, era un sì ad entrambe le domande?», chiede Robin.
«Ma che razza di domanda è?» dice Steve, con un tono aspro, e Eddie ride di nuovo. Ha il magone all'idea che non è poi così solo come credeva.
Risponde ancora di sì attraverso le luci.
«Bene, benissimo. Ora ti faremo qualche domanda e ci metteremo d'accordo per venirti a prendere. Le cose qui a Hawkins non sono esattamente come te le immagini e non sarà semplice come l'altra volta, ma possiamo farcela, d'accordo?», gli dice Dustin e lui, sfregandosi prima le mani sulla faccia, disperato all'idea che forse le cose non sono più semplici da un bel po' – e che non riesce a immaginare come possano essere peggiorate, risponde ancora di sì.
«D'accordo, allora adesso ascoltami bene e non perdere un solo punto del piano. Dopo che ci saremo mossi non ci sarà più possibile comunicare. Sarà tutto alla cieca, quindi mantieni la concentrazione, okay?»
Eddie guarda il soffitto e non è sicuro di essere pronto, ma la voglia di uscire da lì e tornare a casa – o anche solo in superficie, è l'unica cosa che vuole in questo momento. Quattro persone si sono mosse per cercarlo e aiutarlo, quando persino lui credeva di essere spacciato. Sono lì per lui, per tirarlo fuori da quel guaio e non può demordere.
Si sente perso, sa che al cento per cento, il ruolo dell'eroe, non gli riuscirà facile per una seconda volta.
Lo deve a loro, però. Lo deve a chi sta rischiando la propria vita per salvarlo.
Così risponde di sì, attraverso la luce, e l'idea che forse Dio esista, ora, non gli sembra poi così assurda.
Fine capitolo VI
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