Paragoni intimi
Per quanto non ci volesse così tanto tempo per raggiungere l'indirizzo che le era stato dato dal parco, Eriko era troppo immersa nei suoi pensieri affinché potesse badare a ciò che le stava attorno. I suoi occhi, appena inquadrata una strada, facevano sì che le gambe si muovessero in quella direzione senza preoccuparsi della precisa meta che c'era da raggiungere; era proprio per questo che, nonostante fossero passati più di 15 minuti, non era ancora arrivata.
Stava riflettendo intensamente su quale tattica avrebbe adottato una volta ritrovatasi il demone di fronte, quali strategie aggiungere a quelle che aveva in mente e, viste la professionalità e minuziosità acquisite, stava persino cercando di farsi un'idea di quante energie le sarebbero servite per uno scontro senza imprevisti, così da programmare quanto tempo di riposo avrebbe dovuto concedersi per recuperare prima della sua tanto attesa missione a Tokyo.
Non era la prima volta che dilettava la sua mente ad un calcolo del genere che alla fine bizzarro non era: gli ammazzademoni la notte stavano svegli per vigilare sulla vita delle povere persone innocenti, mentre il giorno doveva condurre la loro di vita comune e allenarsi. Sprecare troppo tempo a dormire non era mai l'ideale, per nessuno spadaccino. Significava soltanto venire meno agli allenamenti, quindi allo sviluppo delle proprie capacità e, di conseguenza, al poter svolgere il proprio lavoro.
Tutto d'un tratto, come una forbice taglia un filo, il suo flusso di pensieri sull'argomento furono interrotti quando il suo corpo, poco attento all'ambiente circostante, urtò con qualcosa. Ciò costrinse la testa a riportare l'attenzione sul presente.
Agli inizi Eriko alzò leggermente la testa, guardandosi davanti senza vedere nulla. Fece poi girare lo sguardo attorno a sé, notando soltanto gli edifici che circondavano ai lati la stradina su cui si trovava. Tuttavia, quando sentì la voce infastidita di un bambino di fronte a sé, guardò per terra. C'era un piccolo ragazzino a terra che la guardava con uno arrabbiato ed infastidito. A vedere ciò la giovane ricambiò con un'espressione più arcigna e terrificante.
<<Brutta strega!>>, urlò balbettando il bambino. Spaventato si alzò in piedi e corse lontano.
Eriko continuò a guardarlo mentre scappava, e le passò per la testa il pensiero di inseguirlo ed insegnargli le buone maniere, ma dovette tenere a freno il suo fastidio e proseguire.
Aveva notato di essersi persa, ed ora aveva bisogno di ritrovare la retta via. Continuò comunque a girovagare.
Cinque minuti dopo, grazie ad un bacio da parte da parte del destino, era riuscita a sbucare sulla via corretta, poi a trovare l'indirizzo desiderato.
Non era un'abitazione troppo diversa dalle altre case più lussuose della città, e nemmeno da quelle che le stavano di fianco: era spaziosa sia in larghezza che in altezza, tanto che a guardarla da fuori si poteva essere sicuri che avesse almeno due piani. Le mura era fatte per la maggior parte in legna, ma c'erano anche delle parti fatti in pietra levigata, come nei punti in cui si univano due mura. Tutt'attorno alla casa, inoltre, c'era un bel prato fiorito, ed attorno a quest'ultimo un muro in pietra alto più di due metri.
Dinnanzi al grosso portone in legno di quella piccola cinta muraria, fatta forse per tutelare la privatezza di coloro che abitavano la casa, vi era una giovane donna: a guardarla da lontano pareva avere sui trent'anni. I suoi capelli erano scuri ed indossava un bel kimono nero.
Fino a quel momento era intenta a pulire l'uscio del portone con una scopa, ma s'interruppe subito non appena percepì su di sé lo sguardo di Eriko che la squadrava. Non poté non iniziare anche lei a guardare la ragazza che era appena arrivata, siccome la faceva sentire a disagio.
<<Buongiorno, posso esserle d'aiuto?>>, chiese con gentilezza.
Eriko quindi disse il suo nome e, sfruttando il fascino della sua uniforme e la serietà che aveva sempre in volto, mentì in modo convincente, anche se non andò troppo lontano dalla verità, facendosi passare per un'investigatrice di un'organizzazione privata che si occupava di casi di sparizione. Disse che era stata inviata lì per aiutare i famigliari a ritrovare l'ultimo bambino scomparso, senza volere in cambio nessun compenso. A sapere ciò la donna assunse un'espressione grata e commossa: a quanto pare aveva creduto a tutto. Si presentò come la madre di Hideaki e senza perdere tempo invitò Eriko in casa sua, così da parlare subito. Lasciò dunque la scopa per terra e valicarono prima il portone, poi la porta d'ingresso della casa.
<<Vi prego di aspettare qui un momento, vado a chiamare immediatamente mio marito>>. La donna poco dopo aver parlato sparì di corsa dietro il primo angolo in fondo al corridoio, lasciando Eriko da sola a contemplare ciò che per ora poteva vedere.
Si trovava nella genkan della casa, l'anticamera che collegava l'interno di ogni casa al suo esterno. Certe persone dicevano che osservandola si potesse capire molto di una famiglia, se si era in grado di leggere oltre le apparenze. Allora la ragazza cosa poteva capire degli Tsukimoto -il cognome della famiglia che aveva potuto leggere su una targa posta sul portone fuori- guardando soltanto quel piccolo spazio? Riusciva a vedere soltanto tre paia di scarpe, due per piedi adulti e l'altra con una taglia da bambini, e qualche vaso di fiori poggiato su dei comodini ai lati, ed un bel quadro riguardante un paesaggio meraviglioso fisso ad un muro. Tutto ciò non le diceva molto... Guardando le scarpe però capì soltanto una cosa. Non sapeva se la famiglia avesse altri figli oltre il piccolo Hideaki, ma se fosse stato un no, il fatto che le sue scarpe fossero ancora lì era un modo chiaro per dire: "per noi è ancora vivo, ritornerà sicuramente a casa e indosserà di nuovo, e noi lo stiamo aspettando". Ad Eriko dispiaceva non poterli mettere difronte alla cruda realtà che loro figlio era morto.
La donna ritornò poco dopo a riprendere Eriko e, dopo che questa si tolse le scarpe, la accompagnò lungo un corridoio in cui c'era un certo odore d'incenso. Man mano che andavano avanti la fragranza diventava più forte, fino a che non divenne più forte in prossimità del salotto dell'abitazione, dove entrarono.
La ragazza era molto curiosa di trovare la fonte di quell'odore, che ormai stava iniziando a darle la nausea da quanto era forte e fastidioso. Sembrava che le entrasse nel naso e prendesse ad attaccare dall'interno le pareti nasali ed i suoi polmoni mettendo tutto a soqquadro. Era proprio questa una di quelle situazioni in cui odiava avere un olfatto troppo potente: intensificava profumi ed odori e, se da un lato le permetteva di ritrovare sempre la fonte o scoprire dove fosse andato qualcuno, riusciva a trasformare insopportabile tutto ciò che una persona comune avrebbe potuto facilmente sopportare. In quel momento, per puro riflesso, stava per portare la manica dell'haori davanti al naso, ma non appena diede uno sguardo approfondito alla stanza, si fermò di colpo.
Oltre alla presenza del giovane marito della donna, seduto ad un tavolino in centro al salotto, in un angolo, fonte della fragranza dell'incenso, c'era quello che era un piccolo altare per i morti. Era ben adornato di fiori, ed una ciotola d'incenso rilasciava un piccolo filo di fumo e profumo nell'aria. C'era una foto incorniciata posta su un piedistallo ed Eriko stava cercando di capire a chi appartenesse, ma dovette distogliere lo sguardo quando la signora la invitò a sedersi al tavolo, mentre lei andava via e la lasciava sola col marito.
Aspettò educatamente che l'uomo, essendo il padrone di casa, prendesse per primo la parola per chiederle qualunque cosa, ma così non fu: non disse nulla e lei finì col fare lo stesso. In quel silenzio abbastanza particolare Eriko cercava di tenere lo sguardo sull'uomo il più possibile, ma ogni tanto, per curiosità, spostava la sua attenzione sulla foto posta sull'altare per cercare di identificare il volto che vi era impresso.
L'uomo, notando ciò, disse, con una punta d'amaro in bocca: <<E' Reo, il nostro primogenito. E' morto qualche tempo fa durante un suo viaggio di lavoro a Tokyo. Da ciò che hanno detto le autorità, è morto in un incidente stradale.>>
Anche questa era una bugia.
Dove i demoni agiscono, agiscono persino gli ammazzademoni stessi. Non sempre, però, si riesce a salvare tutti. Molti muoiono e continuano a morire. Allora l'organizzazione, grazie a dei suoi inviati, riesce a manovrare la polizia, la giustizia e le informazioni, facendo passare le morti sovrannaturali per assassinii, incidenti, malori.
Ad Eriko erano bastati pochi dettagli per riconoscere quell'ennesimo caso di cui era stata informata. La situazione non le piaceva per niente... Gli Tsukimoto avevano già perso un figlio a causa di qualcosa che non potevano sapere e a cui non avrebbero mai potuto credere, ed ora aspettavano il ritorno del loro secondogenito, invano.
<<Capisco, mi dispiace molto>>, rispose Eriko mostrando un certo dispiacere. Dentro di sé sentiva uno strano senso di colpa, così intenso da risentire al suo cuore. Aveva ben chiaro il perché di questo: anche se erano a fin di bene, erano troppe bugie.
La porta da cui la moglie dell'uomo era uscita si aprì di colpo, alla signora s'infilò nella stanza il profumo di tè verde, proveniente dalla teiera che era posta su un vassoio.
Si avvicinò al tavolo, ed offri del tè ad Eriko, la quale accettò. Versò il liquido caldo in altre due tazze e, mentre si sedeva affiancò al marito, gliene passò una.
I due padroni di casa la guardavano, come se aspettassero che lei si spiegasse meglio. Eriko quindi si ripresentò ancora come aveva fatto poco prima e spiegò le stesse cose, anche se con parole differenti. Aggiunse di essere venuta a conoscenza della scomparsa di Hideaki e del loro indirizzo grazie al giornale cittadino e a Shohei.
A sentire tali parole i due poveri genitori tirarono assieme un sospiro di sollievo, e si dimostrarono felici di avere aiuto, tanto che si guardarono l'un l'altra sorridendo speranzosi.
<<Vedete,>> disse l'uomo, <<la polizia di Tokyo ci ha abbandonati. Non ci vogliono più aiutare, pensano che in questo caso non si parli di rapitori, ma soltanto di bambini che si perdono ed hanno criticato aspramente tutti i genitori che hanno "perso" il figlio... Si vergognassero.>>. Il tono con cui parlava era in grado esprimere tutto il disprezzo che provava. Il suo volto si era crucciato e la mano che aveva poggiato sul tavolo stava tremando a causa di chissà quanta ira.
<<Pensavamo che nessuna istituzione esterna alla città volesse fare qualcosa,>> prese parola la donna, vedendo come il marito stesse perdendo le staffe, <<siccome gli unici che hanno provato ad agire sono stati altri cittadini stessi. Mi fa piacere che voi e la vostra organizzazione vogliate aiutarci>>. In confronto al marito la donna era molto più calma. Parlava con un tono perennemente dolce e grato e, per quanto provasse un dolore che addirittura le si leggeva in faccia da quanto fosse intenso, rimaneva sempre composta.
<<Loro vi hanno abbandonato, noi non lo faremo mai perché è il nostro dovere, e noi non veniamo mai meno ai nostri doveri>>, rispose con risolutezza e zelo la giovane spadaccina. Il suo sguardo era serio e la sicurezza con cui parlava e si mostrava avevano un certo effetto calmante e rassicurante sui suoi interlocutori. Per quanto non puntasse mai a ciò, ma soltanto a comunicare le sue intenzioni, le ritornava spesso utile quando si occupava di persone comuni. <<Se vi fa piacere saperlo, ho già in mente una pista da seguire, ma avrò bisogno che voi mi aiutate>>.
I due genitori ancora una volta, dopo essersi calmati, sorrisero l'una all'altro e si presero per mano. La possibilità di ritrovare il figlio li aveva resi entusiasti ed ottimisti, tanto che nelle loro menti non venne per niente il dubbio sul suo stato, se fosse vivo o no, e nemmeno su che cosa gli fosse successo.
<<Qualunque cosa, faremo tutto ciò che ci chiederete!>>, rispose l'uomo.
<<Ho bisogno soltanto di una risposta e di alcune alcune cose. Iniziamo da una cosa: non c'è bisogno che vi riferiate a me in modo così tanto formale, sono una ragazza qualunque>>. Dopo di ché Eriko si schiarì la gola, e passò a fare la sua domanda: <<Qual è l'ultimo luogo in cui sapete che si trovava Hideaki?>>
A tale domanda la moglie posò gli occhi sul marito, aspettandosi che fosse lui a prendere parola, e fu così.
<<Hideaki ama andare a giocare coi suoi amici ad un incrocio non molto lontano qui: le strade che si incontrarono sono cinque. Anche se di solito va' li per giocare, alcune volte si reca da quelle parti a passeggiare quando è arrabbiato, non ho mai capito il perché,>> l'uomo aveva iniziato ad abbassare la testa, facendosi un po' più cupo <<ma sono sicuro sia andato lì perché l'ultima sera in cui è stato a casa ho litigato con lui ed è scappato via furibondo. Quando l'abbiamo scoperto ci siamo messi a cercarlo ovunque, ma non l'abbiamo trovato. Anche se è così, sono sicuro che di lì sia passato...Me lo sento>>. Il padre del ragazzino aveva un espressione colpevole, aveva le mani poggiate sulle cosce e la testa abbassata. Si sentiva responsabile di qualunque cosa accaduta al figlio ed avrebbe voluto rimediare al meglio delle sue possibilità. La sua compagna gli dimostrava amore e cercava di confortarlo come meglio poteva, in nome della loro unione, del loro amore e del dolore condiviso. Quella scena commosse nel profondo il duro cuore di Eriko, la quale restò in silenzio per per un periodo di tempo abbastanza lungo, prima di riprendere a parlare.
<< Ora mi serve qualcosa di molto importante, senza di questo non ritroverò il ragazzino. Si tratta di qualcosa, un qualunque oggetto al quale è molto affezionato e che porta sempre con sé o che usa frequentemente. Ve lo farò riavere quando avrò finito con il mio lavoro>>
I due genitori del bambino si guardarono per l'ennesima volta negli occhi davanti a quella richiesta tanto strana ed inusuale. Quando si voltarono verso la ragazza e notarono il suo sguardo diventato ancora più serio e risoluto, tuttavia, non poterono far altro che acconsentire: che altre scelte avevano dopotutto?
Così la madre si alzò ed uscì dalla stanza per qualche minuto, prima di tornare indietro e porgere sul tavolo un comune giocattolo per bambini, un kendama. A guardarlo si notava come fosse unico del suo genere, dall'aspetto logoro, alle decorazioni artistiche estremamente precise incise sia sulla sfera che sul corpo del gioco. Eriko quindi lo prese.
<<Grazie tante, farò del mio meglio per vostro figlio>>, rassicurò Eriko.
Guardò marito e moglie abbracciarsi l'un l'altra, fiduciosi nelle competenze e nell'aura particolare che lei stessa emanava. Il primo era felice come non mai, mentre l'altra era già in preda alle lacrime di gioia.
A vedere dei genitori così tanto amorosi e impazienti di poter riabbracciare il loro figlio, Eriko non potè fare a meno di sentirsi un po' invidiosa. Non aveva potuto fare a meno di paragonare gli Tsukimoko ai Konemoto, la sua famiglia.
Se i primi erano dei genitori fantastici, affettuosi e benevolenti anche verso il prossimo, i secondi erano mediocri, impassibili ed odiosi per chiunque.
Il padre della spadaccina non era mai stato altro che un violento e scorbuto ubriacone che cercava di dimenticare la sua inutilità e mancanza di qualunque buona dote affogando ogni dispiacere nel mero alcool e nell'odio immotivato delle altre persone. Era come una bomba ad orologeria, imprevedibile ed irrequieta, ed era inarrestabile quando decideva di alzare le mani sulla figlia o sulla moglie, era impossibile da fermare perché nessuno faceva nulla: Eriko era troppo piccola allora; sua madre non aveva il coraggio di affrontare suo marito, preferiva essere la sua ombra e lasciarsi maltrattare.
Il giorno in cui Eriko smise di essere una bambina e divenne una piccola adulta affrontò di petto suo padre per proteggere sua madre, ma l'unico trattamento che le fu riservato fu l'alienazione ed il disconoscimento completo da parte di entrambi. Fu cacciata di casa a soltanto dodici anni e dovette imparare ad affrontare il mondo da sola.
A sedici anni, ancora, desiderava avere dei genitori che la guardassero e le sapessero dire "siamo fieri di te", ma quelli che aveva probabilmente avrebbero cercato di ucciderla si fosse ripresentata, oppure non l'avrebbero nemmeno riconosciuta. Entrambi casistiche troppo dolorose per rischiare. Non li odiava, non poteva commettere lo stesso loro errore e provare quello stesso sentimento ripugnante. Non era nemmeno arrabbiata, era disposta a perdonare, se mai fossero cambiati. Ma non si illudeva: mai sarebbero cambiati, mai sarebbe tornata da loro.
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