3. La Signora in Giallo ✓

Tiziano prese a scuotersi con violenza, per cercare di sfondare l'armadietto in cui era rinchiuso, o almeno deformare le lamiere, ma ogni movimento peggiorava la sua posizione. Udiva grida inarticolate uscirgli dalla bocca, ed era talmente soffocato dal panico che quasi gli sembrava fosse un'altra persona, a urlare.

Dopo qualche minuto si calmò, ma non perché la razionalità avesse ripreso il sopravvento: fu semplicemente sopraffatto dalla stanchezza.

Iniziò a piangere. Un pianto asciutto, apatico. Passò un tempo indefinito, forse qualche minuto, a Tiziano sembrò un eternità, quando all'improvviso la porta di ingresso fece rumore.

Qualcuno l'aveva aperta. Qualcuno era entrato.

«Aiuto!» gridò immediatamente Tiziano.

Forse era il custode? Ma certo! Doveva per forza esserci un custode. Che stupido era stato a non pensarci.

«Mi faccia uscire!»

«Non serve che mi dai del lei.»

Tiziano quasi si commosse: era la voce di Simone. Sempre lui, il suo cavaliere in armatura scintillante.

«Simone, sei tu?»

Sentì Simone armeggiare con la chiusura dell'armadietto. «Cazzo, è incastrata... spingi!» disse da fuori.

Tiziano premette col ginocchio contro lo sportello.

«Daje, di più!»

Alla fine la porta cedette con uno schianto e Tiziano crollò fuori, addosso a Simone, facendolo cadere a terra.

Si guardarono per qualche lunghissimo istante negli occhi a pochi centimetri di distanza, prima che Simone girasse la testa di scatto. «Ehm» bofonchiò cercando di spingere via Tiziano.

Tiziano non collaborò, ma non per sua volontà. «Mi devi aiutare. Sono tipo paralizzato.»

Simone tossicchiò. Si mosse sotto di lui strusciandosi e contorcendosi, e Tiziano ringraziò mentalmente il cielo di avere il senso del tatto ancora ovattato dallo stritolamento, altrimenti la reazione in zona pelvica sarebbe stata imbarazzante.

Dopo qualche contorsione di troppo, Simone riuscì a sollevare il corpo semi-immobilizzato di Tiziano. Lo prese per le spalle e cercò di metterlo seduto con la schiena contro la panchina, ma lo spinse con troppa forza e Tiziano scivolò su un fianco.

«Ahia.»

«Ma non ce la fai nemmeno a reggerti seduto?»

«Uhm, sì, credo. Aspetta.» Tiziano puntò i gomiti a terra e i nervi delle braccia che si riattivavano dopo la lunga compressione gli sembrarono mille spilli che trapassavano la carne.

Nonostante ciò riuscì a sedersi, emettendo un lungo gemito di dolore. Simone si inginocchiò davanti a lui e posò una mano sulla sua spalla. Anche quel semplice tocco sulla pelle formicolante causò a Tiziano delle fitte di dolore, ma stavolta trattenne i lamenti: avrebbe voluto che quella mano non si staccasse più da lui.

«Tutto bene?» chiese Simone. Lo stava guardando negli occhi con aria preoccupata e Tiziano sentì il cuore ribaltarsi nel petto. Avrebbe voluto dire qualcosa per ringraziarlo. Qualcosa che non suonasse come lo svenevole sospiro della damigella salvata dal pericolo. Avrebbe voluto esprimere la sua gratitudine in modo sincero, semplice, diretto.

Aprì la bocca e tutto ciò che riuscì a dire fu: «Gra...»

«Ah, ma allora è vero che sei frocio.»

Simone si scostò da Tiziano quasi spaventato e si voltò verso la porta: Claudio osservava la scena con aria disgustata. Fece un cenno col viso in direzione di Simone. «Da te però non me lo sarei mai aspettato.»

«E smettila di dire cazzate!» sbottò Simone.

Claudio smise la maschera oltraggiata e fece una risatina. «Fro-cio! Fro-cio!» cantilenò scherzosamente. «Che cazzo ce fai qua? Sei tornato apposta per tirarlo fuori?» aggiunse, indicando Tiziano nel modo in cui si indicherebbe una cacca di cane sul marciapiede. Poi diede una ginocchiata a Simone che si stava alzando in piedi, facendogli perdere l'equilibrio. Ridendo, gli afferrò al volo un braccio per non farlo cadere e anche Simone rise: «Cretino!» disse allegramente.

Ed ecco lì, davanti ai suoi occhi, ciò che Tiziano considerava più grande mistero dell'universo: l'amicizia tra Claudio e Simone.

«Eccerto che sono venuto a tirarlo fuori» disse Simone ostentando nonchalance. «Metti che lo trovava il custode, sai i casini che passavamo? Anzi, che passavate, tu e quei tre coglioni. Di certo io non mi prendevo la colpa.»

«Relax! Relax!» ribatté Claudio, mettendo le mani avanti. «Ma che te credi, che non ci avevo pensato anch'io, al custode? Mica so' scemo.»

«Non sei scemo, sei poco intelligente.» Simone fece un mezzo sorriso.

«Ho giusto aspettato che se ne annassero gli artri, ché sennò me rompevano er cazzo. Quelli pensano solo a menà.»

E perché, tu no? pensò Tiziano.

Claudio si rivolse proprio a lui: «E tu, prova solo a dire qualcosa al mister...» si passò un pollice sul collo storcendo la bocca in una smorfia.

«Quanto cazzo sei melodrammatico!» commentò Simone alzando gli occhi al cielo.

Claudio rise.

Com'era possibile? Com'era possibile che quei due fossero amici? E non era un'amicizia superficiale, erano migliori amici. Da un lato Simone, il ragazzo perfetto: gentile, buono, timido, malinconico. Dall'altro Claudio, il bullo stronzo: maleducato, rozzo, sguaiato, prepotente.

Tiziano li guardava sorridere e scherzare, mentre pian piano ricominciava a sentire braccia e gambe. Si tolse i parastinchi, li posò a terra accanto a sé. Si massaggiò le cosce e le ginocchia, doloranti per essere state stritolate così a lungo dentro l'armadietto. Giudicò che entro un minuto sarebbe riuscito a rialzarsi in piedi. Claudio gli lanciò un'occhiata che esprimeva pura frustrazione.

«So' riuscito a paralizzarti finalmente? Quand'è che smetterai di ammorbarci e andrai a giocare nella squadra paralimpica, come diceva Paolo?» Portò un indice al mento. «O era Stefano? Ci hanno tutti e tre lo stesso senso dell'umorismo da cinepanettone...»

«Tu invece sei un maestro di humour inglese» ribatté Tiziano. Battuta debole, ma il suo cervello era ancora in tumulto per l'emozione di essere stato a contatto con Simone, non sarebbe riuscito a elaborare una risposta brillante nemmeno se avesse avuto un'altra ora a disposizione.

Claudio comunque apprezzò il sarcasmo, e tutto il risentimento che sembrava aver provato fino a pochi istanti prima si sciolse in una risatina.

Claudio era un bullo, non c'era alcun dubbio. Era maleducato, rozzo, sguaiato e prepotente. Ma mentre i beta erano ottusi, sadici, e capivano solo il linguaggio della sopraffazione, Claudio non era stupido (o meglio: sembrava un po' meno stupido degli altri) e non era sadico. 

Tiziano non riusciva a capirlo bene. La maggior parte delle volte in cui Claudio lo derideva (o derideva chiunque altro), sembrava farlo alla leggera, con spirito umoristico. Persino quando lo chiudeva negli armadietti Tiziano spesso aveva l'impressione che volesse solo giocare, scherzare. Un gioco manesco, che a Tiziano non piaceva, ma nondimeno un gioco. 

C'erano delle volte, però (e oggi era una di quelle), in cui Tiziano aveva la netta impressione che Claudio lo odiasse, lo detestasse con tutto il cuore, e che le sue angherie fossero il naturale sfogo di questo sentimento. 

In entrambi i casi, Tiziano lo disprezzava: che fosse un semplice bullo che prendeva tutto alla leggera, senza curarsi dei sentimenti altrui, o che lo facesse con la reale intenzione di fargli male, rimaneva comunque un prepotente, un prevaricatore. Un tipo di persona con cui Tiziano non voleva avere a che fare.

E quindi si stupiva di come Simone, invece, sembrasse volerci avere a che fare. Forse subiva il carisma del maschio alfa? Poteva biasimarlo per questo?

Claudio batté un'energica manata sulla spalla di Simone. «Daje, annamo.» Poi, dopo un attimo di esitazione: «Ho visto che ce sta Bea, qua fori.»

Beatrice era la ragazza di Simone, nonché ex ragazza di Tiziano. La storia tra Beatrice e Tiziano, suo primo e ultimo disperato tentativo di eterosessualità, risaleva a due anni e mezzo prima, quando entrambi erano quattordicenni, ed era finita dopo tre mesi di baci e reciproche palpate incerte. Tiziano era convinto del fatto che tra di loro non avrebbe funzionato nemmeno se lui fosse stato etero: all'epoca lei era troppo allegra e festaiola per i suoi gusti. Simone si era messo con lei poco dopo la fine della storia con Tiziano. All'inizio sembrava molto preso, ma ormai era da più di un anno che, in modo evidente, non era più innamorato. La loro storia, però, continuava stancamente a trascinarsi.

«È qui da prima, era tra il pubblico» disse Simone.

«Ammazza, che spettacolo che l'hai portata a vedere!» commentò Claudio.

«Be', io il mio gol l'ho fatto!» Simone si battè il petto con aria soddisfatta. «E pure l'assist al gol tuo.»

«Senti, parlando di gente più interessante, je voi risponne ar messaggio de Mariangela?»

Simone roteò gli occhi. «Ti ho già detto cento volte che Mariangela non mi interessa.»

Mariangela era l'ennesima ragazza che Claudio cercava di appioppare a Simone in sostituzione di Beatrice. La ragione ufficiale era che: «Beatrice ha rotto er cazzo» (testuale) «e nun te piace più.» Ma Tiziano non ci credeva: era così ovvio che Claudio avesse mire su di lei. Quello che a un occhio ingenuo poteva sembrare cameratismo era in realtà una subdola tattica per rubare la ragazza all'amico. Tiziano ne era convinto, e il suo disprezzo verso Claudio aumentava ogni volta che lo sentiva nominare qualche nuova papabile fidanzata per l'altro.

Simone, per fortuna, non ci cascava, rifiutava qualsiasi proposta, e Tiziano ne era intimamente felice. Simone stava con Beatrice, ma non ne era innamorato, era evidente. Allo stesso tempo non sembrava interessato ad altre ragazze. Questo dava a Tiziano una minuscola, debolissima speranza.

Forse anche lui è... forse...

«Che palloso che sei, mica ho detto che ce devi scopà. Risponnije, no? Magari scopri che te sta simpatica.»

«Andiamo fuori ché Bea mi aspetta» disse Simone, faccia seria e pugni stretti. 

Claudio sbuffò. «E dove andate, ar bar?»

La domanda sembrò irritare ancora di più Simone.

«No. Andiamo a casa mia.»

Claudio sbuffò di nuovo. Sembrava di umore nero. «Va be'. Fatte almeno fà un pompino premio per il gol.»

L'espressione tesa di Simone finalmente si rilassò. «Se ce casca...»

L'ultimo scambio di battute scatenò una serie di immagini inopportune nel cervello di Tiziano, che non riuscì a fare a meno di visualizzare se stesso nei panni della fortunata Beatrice. Chiuse gli occhi, e per evitare che il suo corpo rispondesse in modo imbarazzante alla fantasia, iniziò a canticchiarsi in testa la sigla della Signora in Giallo.

La sigla della Signora in Giallo era il suo personale mantra anti-eccitazione. Era un ricordo che metteva il suo cervello in modalità prima elementare tarda mattinata febbricitante a casa da scuola, o pranzo a casa della nonna, cioè probabilmente i momenti più noiosi e meno energici della sua intera vita.

E poi quel mood bonario e anzianotto: il pianoforte albertino, la macchina da scrivere in caps-lock, il garrulo saluto di Angela Lansbury in bicicletta. Ta-rira-ri-raaa...

E mentre Tiziano visualizzava Jessica Fletcher con la torcia sulla scena del delitto, Simone e Claudio uscirono dalla stanza, senza salutarlo, senza guardarlo, parlottando tra loro di pompini e allenamento.

Era sempre così, con Simone. Era gentile, buono, premuroso, ma in maniera distaccata.

Tiziano non avrebbe potuto definirlo suo amico, non avevano mai parlato per più di qualche minuto di fila. Simone ovviamente, davanti agli altri, non era troppo esplicito nelle premure che aveva per lui, e Tiziano capiva perfettamente che non volesse mostrare un debole nei confronti dello sfigato del gruppo. Non lo biasimava per questo. Al suo posto probabilmente si sarebbe comportato allo stesso modo. A Tiziano era sufficiente vedere che Simone lo notava, lo capiva e cercava di aiutarlo. Non sapeva perché lo facesse, e sì, sì, sì, per non illudersi continuava a ripetersi che Simone era etero, ma un angolino del suo cervello non voleva abbandonare l'idea che forse...

Forse anche lui è... forse...

La parte razionale del suo cervello riprese il controllo. Si batté un pugno sulla fronte. Purtroppo non c'erano sigle di telefilm anni '80 che riuscissero a togliergli quei pensieri dalla testa: non aveva un mantra anti-amore.

Raccolse i parastinchi che si era tolto poco prima e provò ad alzarsi in piedi. Le gambe gli formicolavano, ma riusciva a muoversi.

Si guardò intorno: dov'era il suo borsone? Probabilmente quei simpaticoni dei beta l'avevano portato fuori e sparpagliato tutto il suo contenuto sul campo.

Non voleva uscire subito: preferiva evitarsi lo spettacolo di Simone che infilava la lingua in bocca a Beatrice. E poi, dopo essere tornati a casa...

Non pensare al pompino. Non è il momento.

Ta-rira-ri-raaa...

Si diresse verso la sala docce per darsi una sciacquata alla gamba - se ci ripensava, ancora gli sembrava di sentire il getto caldo del piscio di Stefano - e quando aprì la porta ebbe la prima sorpresa: il suo borsone.

Sotto un rubinetto, inzuppato d'acqua.

«Evviva» esclamò con un tono di voce totalmente privo di entusiasmo.

Si avvicinò al borsone e lo esaminò: era vuoto.

Si guardò intorno. Non c'era traccia dei vestiti di ricambio e delle scarpe. Li avevano portati fuori?

Oppure...

Una sensazione di disgusto gli chiuse lo stomaco.

«Dimmi che non l'hanno fatto...» mormorò.

Si fiondò nei bagni.

Per prime vide le scarpe. Negli orinatoi verticali.

Avvicinandosi avvertì un pungente puzzo di piscio e notò le chiazze verdognole sulla tela azzurra.

Le sue Converse nuove di zecca. Le aveva comprate in saldo appena due giorni prima.

Poi esaminò i loculi dei WC. E le altre cose erano lì, infilate nelle tazze: pantaloni, calzini, asciugamano, cellulare... e la sua bellissima maglietta di Gareth Bale. Avvertì un formicolio agli occhi, ma trattenne le lacrime.

Quegli stronzi non si meritano delle lacrime.

In un armadio del bagno trovò una scopa, e usò il manico per recuperare le sue cose. Le sciacquò alla buona sotto il getto di una doccia e le buttò ancora fradice nel borsone, insieme ai parastinchi. A casa forse avrebbe trovato il modo di lavarle (almeno scarpe e maglietta). Trattenendo il disgusto (e il respiro) infilò la mano nel wc dove era stato gettato il suo telefono. Lo sciacquò sotto un rubinetto e poi si lavò le mani. Non era sicuro che sarebbe riuscito a farlo funzionare di nuovo, e temeva di non avere cellulari di riserva, a casa, se non qualche vecchissimo catorcio di suo padre. Già lo prendevano in giro per quella scatoletta a manovella di quattro anni prima, figuriamoci se avesse esibito un residuato degli anni 2000 che assomigliava più a un walkie-talkie giocattolo che a un cellulare.

Il borsone era zuppo d'acqua (e anche di qualcos'altro, ma non voleva pensarci) e avrebbe dovuto portarlo sulle spalle, in bici. Per fortuna casa sua distava solo un paio di chilometri.

Uscì dal campo sportivo ormai deserto. Il sole era basso all'orizzonte, ma la frescura della sera era ancora un lontano miraggio.

Fuori dal campo sportivo non c'era più nessuno, la bicicletta di Tiziano, incatenata alle rastrelliere spoglie, era l'unico mezzo di locomozione rimasto.

Anzi no. C'era uno scooter parcheggiato sul marciapiede, vicino alle siepi, e Tiziano avrebbe riconosciuto quello scooter tra mille: era quello di Simone.

Mentre apriva il lucchetto della bici, Tiziano si guardò intorno. Notò una caffetteria, dall'altra parte della strada, una decina di metri più avanti. Forse Simone era lì, insieme a Beatrice, nonostante avesse detto a Claudio che sarebbe andato a casa. Tiziano montò in sella, diede un calcio al cavalletto e partì. Il borsone percolava liquidi disgustosi sulla sua schiena e il caldo afoso ravvivava gli umori nauseabondi.

Non voglio passare davanti al bar, pensò Tiziano, non voglio che Simone mi veda e mi compatisca ulteriormente.

Non voglio passare davanti al bar, pensò Tiziano mentre pedalava in direzione del bar irresistibilmente attratto dall'idea di rivedere il viso di Simone anche solo per un secondo.

Che cazzo sto facendo? Adesso giro il manubrio e faccio inversione, pensò Tiziano mentre ormai già riusciva a intravedere le persone sedute ai tavolini.

E mentre aumentava il ritmo della pedalata, per oltrepassare l'edificio più rapidamente possibile, lo vide. Anzi, li vide. Simone e Beatrice, da soli. La bici sfrecciava e Tiziano non riusciva a distogliere lo sguardo: seduti sullo stesso divanetto, le mani intrecciate, due birre sul tavolino, le bocche premute una sull'altra. Un inno all'eterosessualità spensierata.

Alla faccia della crisi di coppia...

La testa di Tiziano era ancora girata a novanta gradi e l'impatto fu violento e inaspettato.

Si udì un rumore come di legno che si spezza, un tonfo sordo e fragore di metallo sull'asfalto. Tiziano lanciò un urlo di spavento in quel secondi interminabili in cui il suo corpo volava dal sellino all'asfalto. 

Inizialmente non sentì dolore, e per qualche istante rimase fermo a terra incapace di muoversi o capire cosa era appena successo. L'adrenalina gli scorreva nelle vene, pompata a mille dal cuore quasi impazzito dallo spavento.

«Che cazzo...» biascicò. Si sollevò a sedere e guardò incredulo il lato esterno della sua gamba destra, rosso di sangue e puntinato di terriccio e asfalto. Mentre si guardava la gamba il bruciore della sbucciatura cominciò a farsi sentire e divenne in pochi secondi quasi insopportabile. Contemporaneamente diversi dolori sordi localizzati iniziavano a reclamare attenzione in altre zone del corpo: spalla, gomito e guancia. Si toccò quest'ultima e sentì dell'umido. Quando allontanò le dita si aspettò di trovarle sporche di sangue, ma era un liquido trasparente quello che gli sporcava la faccia.

E dopo qualche istante capì: aveva battuto la testa contro il borsone bagnato che stava portando in spalla. Quel borsone schifoso gli aveva forse salvato la vita o comunque risparmiato una commozione cerebrale, attutendo la botta alla testa.

«Porca puttana» sussurrò, all'idea che avrebbe potuto farsi molto più male.

Fu solo allora che si voltò per vedere cosa aveva urtato, cosa aveva causato l'incidente.

E fu con sgomento che vide che non si trattava di un cosa. Ma di un chi.

Il corpo di una donna giaceva immobile in mezzo alla strada.

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