Sono io la Morte e porto corona

Levita un olezzo di morte sopra Santa Maria degli Angeli, quella sera d'ottobre.

Un consesso di anime.

Frati, cittadini, laici, fratelli, animali. Le creature nel palmo del Creatore. Tutte riunite a deporre l'ultimo saluto sulle spoglie moribonde dell'uomo che ha stravolto in eterno le sorti di quella piccola città arroccata su un colle.

Ognuna di quelle spaventate, inquiete, disorientate, anime, che si astengono dal parlare - il silenzio è percepito quasi d'obbligo in quest'occasione solenne - è consapevole, in quella sera del tre ottobre del milleduecentoventiseiesimo anno dell'Era Cristiana, d'essere testimone della Storia.

Stavo venendo.

Il tempo è scaduto.

Il tempo di Francesco.

Quella storia che si è sempre dipanata altrove, a Roma, a Perugia, in Oriente, su dune cocenti e picchi innevati, su coltri di grano e spuma di fiori, ma che poi si è puntualmente, ciclicamente, presentata ad Assisi a chiedere i suoi conti, a tirare le somme, ad imporre i suoi gioghi. Quella Storia, ora, invece, si sta concludendo ad Assisi, tirando il sipario, e seppure non a tutti appaia chiaro il come e il perché quell'uomo la stia facendo, tutti hanno cognizione certa di esserne i testimoni.

Testimoni silenti. A chi passava davanti alla celletta, un antro buio, angusto, dove Francesco era accudito senza interruzione, veniva domandato assoluto silenzio, al fine di non arrecargli disturbo. Ma Francesco agogna il disturbo, il chiasso, la baraonda canterina. Agogna che le sue ultime boccate d'aria siano coronate da canti, balli, dolciumi, un tripudio gioioso di feste! Una festa!

Come mai quei musi mogi e lunghi?

Dopo tanto sparlare in Assisi di quel figliolo snaturato di Pietro di Bernardone, a tutti risalta ormai chiaro, lampante, che l'uomo che sta morendo alla Porziuncola è un santo, un giusto, un uomo che ha sovvertito le logiche che dominano il mondo, capovolgendone le strategie, le certezze, scoperchiando le maschere. Ognuno di loro, di quei presenti attoniti, deve aver sperimentato - almeno una volta nella vita - cosa voglia dire opporsi a quelle logiche, cosa significhi provare - osare! - a restare in piedi contro un fiume in piena e rovinare poi irrimediabilmente. E chi, dopo aver vissuto la forza distruttrice del flusso, l'impeto dell'acqua, la pressione, avrebbe il coraggio di ritentare? Di perseverare controcorrente? Chi avrebbe la tempra, l'audacia, la follia, dopo la prima sferzata, di lasciarsi travolgere ancora? E ancora e ancora?

Chi avrebbe la temerarietà, dopo essere sopravvissuto alla forza d'urto della prima mareggiata, d'abbandonare, nondimeno, ogni rifugio e rinunciare ad ogni sostegno? A ogni sicurezza? Un pazzo. Chi potrebbe essere benedetto da un corpo tale da poter rimanere esposto senza alcuna difesa? Un pazzo.

L'ardore d'un pazzo.

Ce l'hanno davanti quel corpo pazzo. È il corpo di Francesco, uno scheletro velato d'once di carne e nervi e tremiti. Un corpo martoriato. Martoriato da diciotto anni di incessante, instancabile predicazione, di peregrinazione perenne, di cura caparbia del prossimo, di attenzione costante al mondo, di privilegi respinti, di beni non goduti, di cure rifiutate, di necessità ignorate, di trascuratezza e costanza.

Eppure amarlo vuol dire stringere, silenziare il cuore nella morsa del dolore e lasciarlo andare, così come hanno dovuto silenziare il cuore tutte le volte che, malato, ha chiesto di potersi privare del suo unico mantello, del suo unico pane, della sua unica coperta. Amarlo è fare la sua volontà. Assecondarla.

Adempiere al piano divino così come Francesco ha adempiuto ai suoi doveri d'uomo.

I lupi del Subasio sono irrequieti. In branco s'acquattano sui colli, annusano l'aria caliginosa degli albori d'ottobre, sentinelle di pelo e zanne. Sentono che qualcosa accade - o accadrà- giù nella piana, lo fiutano, lo avvertono con il loro istinto ancestrale. Puntano le iridi ambrate e fameliche verso la città, raspano sulla terra compatta e brinata con la coda, snudano gli artigli per comprendere meglio cosa scombussoli il mondo degli uomini. I merli cantano inquieti contro l'incedere purpureo della sera. Gufi e civette, immobili sul limitare del bosco, bubolano lugubri.

I lupi s'avvicinano alle mura di Assisi, scodinzolano mesti. I cani abbaiano. Jacopa dei Settesoli è pietrificata, il canestro dei mostaccioli in mano. Il padre rancoroso, Pietro di Bernardone, singhiozza, macero di lacrime.

Francesco tramuterà tutto quel sale in diamanti. In stelle.

Coll'avanzare delle tenebre notturne, asperse d'astri, il vento del Subasio, padrone assoluto degli umori di Assisi, s'intensifica. Fa tremare d'un lungo fruscio le frasche del misero villaggio di capanne fangose e storte per intimidire i frati che si compattano intorno al compagno morente. Deve convincerli a dargli quel che è venuto a cercare, devono lasciarlo andare: a monte, a mezzacosta, a valle devono smettere di trattenerlo con le loro preghiere, con i loro ricordi accorati, con il loro affetto, con il loro ostinato rifiuto a privarsi della sua presenza.

Francesco deve venire con me.

Deposto nudo sulla nuda e fredda terra.

Rimasto a mani vuote, il vento fa il suo giro, sale a monte, si rovescia sulla città alta, dilaga ululando nei vicoli stretti, solleva i mulinelli delle foglie che l'incipiente autunno ha staccato dalle querce già secche, scende a spirale verso San Damiano, batte sull'uscio delle sorelle in preghiera per intimare loro di non farsi illusioni: il momento è ormai giunto. Chiara crolla nel pianto. Torna poi a dirigersi, senza incontrare più ostacoli, sulla piana aperta, dove dilaga con tutta la potenza incamerata nella sua recente corsa, e riesce, infine, a rubare ai frati il loro bene più prezioso.

Le fiaccole traballano.

Scende il sipario sull'ultimo atto.

Cala la notte e cala il mio languore, spegnendo il suo fuoco.

Denti stretti, il viso sfigurato in una smorfia dolorante. L'aria puzza di biancheria umida, sudore e sangue. Il suo respiro s'arresta, faticoso, pesante. Al cielo volano rantoli e gemiti. I suoi arti rattrappiti si contraggono. I tremori si assestano. La febbre scende. Le braccia e gambe s'irrigidiscono negli spasmi dell'agonia.

Impallidisce, sgrana gli occhi, rapito, assorto.

Eccomi.

Io, sorella e madre. Io, dolore e gioia. Io, regista dell'epilogo.

Sorella Morte.

Angelo, Piccardo, Giovannetto, Maman et Papa, Leone, Elia, Rufino e altri fratelli intonano il Cantico, le voci rotte, mentre Francesco esala l'ultimo respiro.

A terra ha cantato la sua ultima canzone, poiché sembra che la voce della creazione torni, lo assalti con giubilo. Francesco può sentirla, affacciato al Tutto dove tutto acquista un senso, perché lui stesso la sta cantando e lui stesso fa parte della canzone. Tutte le perdite sono chiarite. Tutto ciò che era stato perso è stato ritrovato.

Un filo nell'arazzo...

La sua anima si ripiega su se stessa e sboccia come un fiore alla Fonte.

Sole. Luna. Terra. Fuoco. Acqua. Aria. Stelle. Sera. Giorno. Amore. Amici. Dio.

Venni da lui nelle vesti di una bambina. La Morte è sempre bambina, non conosce fine, ma danza in un infinito inizio. Non lo sapete?

«Andiamo a casa Francesco.»

Lo sollevai nelle mie braccia e m'alzai in volo.

Destinazione? L'Eternità.


"La sera del giorno di sabato, dopo i vespri, antecedente la notte in cui il beato Francesco migrò al Signore, molti uccelli, che chiamano allodole, sopra il tetto della casa in cui giaceva, presero a volare a bassa quota, e giravano in cerchio e cantavano.

Dopo morto, diventò bianco e la sua carne morbida e appariva quasi ridere; cosicché dopo la morte appariva più bello di prima. Chi lo guardava se ne incantava più di quando era vivo, poiché appariva come un santo che rideva."

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top