Nel cuore tumultuoso dell'uomo
In seguito la storia la conoscete. Devo trattarla, non vi trasmetterei l'impressione di essere... ecco, ripetitiva? Il mio mestiere è ripetitivo, in fin dei conti, si ripete con uguale, ciclica precisione da milioni di ere e non mi concentro solo su di voi. Ogni morte varia, si assomigliano, ovvio, ma costituiscono casi a parte, univoci e...
... sto divagando.
Abbiate comprensione, diamine, non avviene spesso che possa far risuonare la mia voce! Poter raccontare rappresenta un'esperienza nuova per me. Nessuno mi offre mai la possibilità di rovesciare il punto di vista, nessuno si interessa mai del mio, perciò voglio godere di questa novità fino all'ultimo stilla!
Che sarebbe la stessa maniera in cui voi dovreste godere della vita.
Se solo vi ricordaste di starne vivendo una.
D'accordo, d'accordo! Non mi impantano più in questi gineprai filosofici su un senso che voi dovreste dare alla vostra esistenza. Promesso.
Riavvolgiamo il filo della narrazione.
Francesco si spogliò di se stesso per rivestire il mondo.
Io c'ero. La morte è guardiana della vita, la pascola nell'attesa di ricondurla all'ovile di partenza. Francesco, a tal proposito, scardinò un altro giogo angustiante l'uomo medievale e di ogni epoca. Quale?
La credenza che, per meritarsi la vita celeste, bisogni disprezzare quella terrena.
Mai fandonia Francesco mise più a repentaglio di questa! Questa vita non è un impedimento al cielo, questa vita - questo mondo tracimante di pulsazioni, suoni, emozioni, angosce, risate, brio, canzoni - è la chiave per il cielo! Cristo non ha salvato il mondo rifuggendo da esso, ma immolandosi al suo epicento, nel pieno della calca schiamazzante, del baillame, della tristezza, della confusione. Si è spinto fino in fondo nel peccato, fino a toccarne il fondale, per poi risalirne gloriosamente.
Bisogna vivere per saper morire.
Ma bisogna anche vivere per non morire mai nella memoria.
Io cancello le vostre tracce, ma la memoria vi mantiene in vita.
Che poi, meditandoci sopra, voi non temete me.
Voi temete l'oblio di cui io sono la mandante, il buio che vi avvolge e vi mutila, sottraendovi la possibilità di incidere il vostro nome a caratteri cubitali nella Storia.
Voi temete il tempo che io fagocito, risucchiandolo dalle vostre ossa.
Ma non temete veramente me.
Menomale che esiste il detto di non sparare sul messaggero...
Va bene, va bene, ma Francesco?
Come un sasso scagliato nell'acqua si propaga in anelli concentrici, identica si dirama la rete in cui, uno dopo l'altro, rimangono impigliati tutti i più abbienti giovani d'Assisi. Bernardo di Quintavalle viene per primo, dopo una notte di discernimento accanto a Francesco, che ha invitato nella sua magione. Pietro Cattani lo segue filato e, insieme, formano il trio primigenio della comunità.
Un mattino entrano in una chiesa. Francesco sale sul pulpito, sfoglia il Vangelo per ciascuno, tre volte. Indaga su quale condotta di vita dovranno assumere i suoi nuovi compagni. Per tre volte lo sfoglia e per tre volte i suoi occhi sono attirati sui passi della rinuncia ai beni materiali.
«Questa sarà la vostra vita fratelli miei!» annuncia festoso. «Spogliatevi di tutto e distribuitelo ai poveri, poi venite! Cristo vi chiama.»
Vengono Bernardo e Pietro Cattani e vengono anche Rufino, cugino di Chiara, Silvestro, l'amico sacerdote dalla fama di taccagno, Elia dalla spiccata cultura, Leone, la Pecorella di Dio, Masseo, che arrossisce se si complimentano per la sua avvenenza, Egidio il contadino, Ginepro il semplice dal cuore di bimbo, Angelo Tancredi il cavaliere, Filippo Longo dall'alta statura, Morico, Sabatino, Pacifico il menestrello, Barbaro e Giovanni della Cappella.
Scapicolla Chiara, infiammata dal suo ardore, dal suo esempio - plagiata, diranno in paese - e, dirimpetto, sua sorella Caterina e l'ondata travolge anche Bona e Pacifica di Guelfuccio, Jacopa dei Settesoli, Beatrice, Ortolana...
Tutti.
Ormai, in città, nessuno più ride di quel fraticello incappucciato.
Assisi, smorzata la derisione, cementato il rispetto, si affeziona al suo Santarello.
Quando improvvisa scene vivaci o canta a squarciagola per attirare la gente, ballando, piroettando, balzellando, imitando, alla quale poi predicherà di Dio, i monelli non gli tirano più il cappuccio, come facevano una volta. Non gli sollevano la tunica per ridere di quei poveri piedi deformati dal gran faticoso camminare, né gli infilano i ramoscelli nel cordone che gli stringe la vita.
Ascoltano tutti, ora, grandi e piccoli, rapiti, emozionati. Poi rincasano soprapensiero. Qualcuno lo pedina di lontano, il loro buon piccolo Francesco, affascinato, sedotto dalla sua vita e, magari, prima di sera alla Porziuncola, nelle capanne piccine di frasche e fango, accoglieranno un nuovo confratello o il pavimento ruvido di San Damiano si accenderà dal baluginare di nuove ciocche recise.
Che uomo era quello? Che parole incantevoli, magnetiche, erano le sue? Mi scervellavo pure io, sapete? Talvolta quelle parole pronunciate con voce cristallina, limpida, scandite anche in francese, penetravano nel cuore, sottili come spade, e lo facevano dolere, contrito dalla colpa. Tal'altra, invece, erano quiete e suadenti, s'insinuavano con discrezione, piantavano semi nel terreno inaridito, irrigandolo di amore e letizia, e tanto bene faceva l'udirle.
Perchè si era stanchi, tanto stanchi di sentir parlar di guerre atroci con tanti nemici, di lotte ancor più atroci tra gente dello stesso sangue, di congiure fratricide e battibecchi tra potenti dove, a pagarne le spese, erano sempre i poveracci come loro.
Oh, egli era veramente messaggero di pace in un mondo tutto sconvolto!
Non dimenticherò mai il suo sguardo.
Possono gli occhi di un moribondo bruciare di vita?
Occhi d'un grigio che s'incupiva se impensierito, vellutati, materni, dolci, straripanti di pietà e mitezza, celanti una forza sovrumana. La forza della Fede. Due voragini che ti inghiottivano e sondavano la tua anima. Scavavano e non si accontentavano delle apparenze. Francesco non vedeva il tuo corpo. Vedeva il tuo cuore.
Ce li ho ancora presenti, vividi, scolpiti nella mia memoria ancestrale.
Quei gorghi incavati che ti fissavano e da essi scaturivano silenti domande a cui non sapevi rispondere e ti sentivi nudo, esposto, vulnerabile.
Ma mai giudicato.
E i suoi piedi? Ho visto, nella mia millenaria esperienza, piedi di ogni tipo. Di mendicanti e pellegrini, re e regine, principi e imperatori. Piedi inguainati in soffici calzari, piedi storti, zoppi, piagati, sanguinanti. Piedi sporchi e piedi candidi.
Non ho mai visto piante tanto consunte, torturate e spellate, tanto sfregiate dalle pietre aguzze, dai tagli sanguinanti. Piedi callosi e induriti dal cammino, segnati dalle vesciche scoppiate, lividi e violacei dal freddo o abbrustoliti dall'arsura.
Francesco ha marciato per le vie del mondo e io ho marciato al suo fianco.
Lui, gracile e minuto, quel tappetto scuro e scarmigliato, che sprigiona favile di fuoco, la sua bocca come un forno da cui sprizzano lingue di fiamma.
Fermati Francesco, avrei voluto urlargli, o brucerai il mondo!
Era quello il suo obbiettivo e la combustione consumò lui, le sue energie, il suo corpo. Francesco era una fiammella fievole che, per qualche inconcepibile ragione, non si spegneva mai, alimentata da un olio miracoloso.
Una mattina sale a predicare nudo nel duomo di San Rufino, dopo essersi pentito d'averci costretto Rufino, che arrossisce e si vergogna, impappinandosi quando deve illustrare la Parola anche innanzi a una piccola folla. Timido e riservato, tanto impacciato ora quanto è stato spaccone nel secolo, Francesco gli impartisce una sonora lezione, mandandolo, in nome del voto d'obbedienza, a predicare in duomo nudo, le grazie tutelate dalle sole brache.
Gli assisiani, dapprima divertiti dai due idioti, chetano le facezie e le risa - ubriachi! Scemi! Balordi! Ma non vi vergognate?! - quando Francesco prende parola.
Una predica tutt'ad un fiato, ammutolente la chiesa intera.
«È molto facile inchinarsi di fronte a un'immagine. Un uomo di legno non soffre come un uomo reale. L'uomo vero invece, l'uomo confuso, solo, escluso da tutti... davanti a lui, a quello sgorbio, proviamo disprezzo, non è vero? Non mentiamoci. È così. Ci sentiamo superiori a lui. È lui, non io. Io non sono lui, non sto patendo la fame, il freddo, la sete, l'angoscia come lui. Io sono fortunato. Siamo sopraffatti dal gusto di schiacciarlo. Quella malsana goduria di poterlo schiacciare, deridere, quella smania di potere che ci tramuta in giudici, giuria e carnefici. Gli ridiamo in faccia, ci vergogniamo di lui, lo compatiamo. Meglio essere invidiati che compatiti, è il motto con cui stiamo avvelenando la nostra prole. Io direi: meglio essere derisi che indifferenti. Meglio essere fuoco che arde d'amore che ghiaccio insensibile! Il Cristo era così. Era quello sgorbio, era un perdente. Nudo, livido, insultato dalla folla. Così si è consegnato ai suoi aguzzini, così si è mostrato al mondo! Per voi, per noi. È stato un uomo, un essere umano, in carne e ossa e spirito e risate e pianti. Ma noi questo l'abbiamo dimenticato, preferiamo venerare le immagini dipinte. Un uomo dipinto, anche se morto, non può nuocermi, giusto? Sono solo quattro assi, due pennellate di pittura. Ma lui era un uomo, un uomo! È facile ripulirsi la coscienza recitando formulette e litanie davanti a una croce dipinta, a un Cristo finto. Ma quando il Cristo vivo, piagato, ci viene incontro per la strada, noi come lo trattiamo? Il Cristo lebbroso, il Cristo mendicante. Lo oltrepassiamo, non lo guardiamo nemmeno. Non preghiamo con la preghiera della carità, del servizio. Siamo tanti Pietro e Giuda, che rinnegano e tradiscono, che vendono il maestro per la cupidigia di questo mondo. Gli voltiamo le spalle. Ma lui non le ha voltate a noi. Mai. Ci ha rassicurato, ha detto che sarà al nostro fianco fino alla fine. A suggello di questo amore si è immolato tutto, tutto, Dio si è fatto uomo e sulla croce quest'umanità è stata esaltata, sublimata! Ci ha chiesto di svestirci del nostro io per ricoprirci del noi. E non un noi esclusivo, elitario, da difendere. Un noi da donare, da comunicare, da schiudere per far breccia nei cuori, cuori che devono irradiare il suo fuoco! Ha detto che è venuto ad accendere un fuoco sulla terra e che gli resta da desiderare, se già è acceso? Appiccate fuochi d'amore fratelli! Il mondo deve bruciare, affinché le ceneri fecondino l'amore! L'amore!»
Francesco ride, ride e piroetta, ebbro di quell'amore. Tra i concittadini non vola una mosca, nessuno fiata. Le parole di getto del fraticello hanno centrato il bersaglio.
Chiara, agghindata per la messa, nella ressa, non si esime dal sorridere.
Il cuore di Francesco è in comunione con il suo.
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