L'ultimo sigillo
Più s'avvicina la festa dell'Esaltazione della Croce, più Francesco si smarrisce dalla gioia, dall'ansia e dai dolori. Lo nasconde, ma è visibile quanto le sue mani, i suoi occhi e i piedi siano torturati dall'incessante marciare, afflitti e sanguinanti.
Alla Morte non potete celare nulla. Sono io che vi oscuro, sprofondando nell'abisso, ma voi, tenere all'oscuro me? Mai.
Con il suo debole ed esausto corpo si sforza di vivere e di soffrire le sovrumane passioni del Cristo, proseguendo nei suoi ritmi disumani, allucinanti.
Come può la carne umana sopportare un simile dolore?
Inquieta, mi trascino ogni giorno, di nascosto, sulla Verna, fino alla capanna di Francesco, dietro una roccia, e lo spio. Che c'è? Non guardatemi storto. Posso farlo! Detengo dei limiti io, certo, ma non in merito a cosa, quando e dove indugiare.
Non vive più nella spelonca, Francesco. Si arrampica sulla roccia, fuori dalla sua capanna di rami e fango, innalza le braccia e prega immobile, senza parlare, come impietrito, tutto il giorno, dall'alba al tramonto. Alle volte capita che gridi, invocando Dio, la sua manifestazione, il suo amore, il suo struggimento.
Grida dense d'angoscia.
«Signore! Parlami! Lascia che provi almeno un'oncia delle tue sofferenze, un grammo della tua Passione! Signore! Il tuo spregevole, infingardo, umile servo implora la tua voce! Parlami! Parlami Amato! Perché non mi parli?! Perché?! Cosa mi rimane se non la prova suprema Signore? Il tuo calvario ineffabile! Dammelo Signore! Parlami!»
Sul tramonto, un bagliore divampa sul suo volto e gli prendono fuoco i capelli.
Alla vigilia della Santa Croce tutta la notte sosta in orazione, inginocchiato, prostrato su quella roccia scabrosa, quella prominenza. Aleggia tutt'intorno al cielo un olezzo come di bruciato, d'elettrico, come se un fulmine sia precipitato sulla testa di Francesco.
Su di lui il cielo si sta sfaldando in incendio di proporzioni devastanti e le stelle come scintille tremolano, piombano sulla terra, rigando di lacrime le tenebre, incorniciando una luna enfiata, gravida, tondeggiante nella sua placidità. Il fiume nel bosco s'illanguidisce, uno sciabordio delicato alle orecchie. La sera è stata rosata, tenue, quasi scolorita, spennellante la Verna e le colline che si accavallano alle sue pendici in toni iridescenti, fatati. Una comune sera dei primi di settembre.
Le rocce sono sommerse di muschio, gli uccelli dei vespri volano silenziosamente e cinguettano di albero in albero, le fronde frusciano, un venticello spira leggero, fremendo tiepido. Le fiere riposano.
Francesco geme, urla, un urlo da sfondare il cielo.
Non riesco a capire da dove sorga tanta dolcezza e serenità. Mi fermo, mi guardo intorno. Il cielo sfavilla e giù, nella vallata, la terra altro non è che un'oasi di bontà e sottomissione come una donna pia.
Quando m'avvicino alla capanna di Francesco, palpita il mio cuore. Perché in simili notti, quando il cielo è infuriato e la terra addolcita e sospira un tale vento primaverile, si verificano puntualmente i miracoli. Credetemi, l'ho sperimentato.
Mi acquatto dietro la roccia. Morte spiona, lo so. Francesco, inginocchiato fuori della sua baracca, sul masso, il Sasso Spicco innevato - la Verna è un monte elevato, sulla sua cima il freddo è inclemente e penetra e imbeve le vesti - prega e un fuoco incandescente, accecante, si sprigiona sul suo volto e sulle sue mani.
Nel bagliore del lampo distinguo chiaramente le sue mani e i suoi piedi brillare.
No. Niente affatto. Devo correggermi.
Non brillare.
Bruciare.
Ardono come legna!
Il venticello non spira più, le foglie hanno smesso di muoversi. Tutto è sospeso, cristallizzato. In solenne riverenza. Verso oriente il cielo inizia a schiarirsi, la bruma a diradarsi. Le stelle più grandi luccicano e danzano in cielo. Un primo uccellino cinguetta dietro un albero. Sorella Notte raccoglie le sue stelle e la sua oscurità, in procinto di congedarsi. L'alba si profila prossima.
E, improvvisamente, una violenta luce rossa si scatena nel cielo.
Un serafino, come un rogo alato, levita, e, al centro, avvolto nelle ali, pistillo di quel fiore, il Cristo crocifisso, dalle fattezze sublimi e cesellate dalla sofferenza.
Due ali fiammeggianti abbracciano il suo capo, due il corpo e due, ai suoi lati, gli cingono le braccia. Ali incastonate d'occhi. Occhi vigili, sbarrati. Perforanti. Occhi che sondano l'immensità del Tutto e i peripli altalenanti della Storia. Occhi che comprimono il Tempo in un granello d'Eternità e infondono l'alito vitale nelle infinite combinazioni dell'Essere e nelle rotazioni delle orbite celesti.
Occhi puntati direttamente su Francesco
La Verna viene circondata di fiamme il cui riflesso scende a illuminare la sporgenza di rocce e massi, soffondendo la radura di bagliori. Quel messo divino, quell'emanazione d'Amore, quel crocifisso alato si catapulta sibilando sul frate e lo trapassa in un lampo. Francesco leva un urlo disperato, stridulo, come se lo inchiodassero. Apre le braccia e viene crocifisso nell'aria.
Lo sento biascicare in fretta alcune parole quasi cinguettando, simile a un uccellino. Non sento con chiarezza gli stralci, ma distinguo ancora il grido di Francesco, l'esortazione, la brama assetata: «Ancora! Ancora! Desidero ancora!»
E una voce sovrannaturale rimbomba sopra di lui, sopra tutti.
«Non chiedere oltre poiché qui ha termine la salita dell'uomo: nella Crocifissione!»
Francesco non è pago. «Voglio di più, voglio la Resurrezione!»
La voce di Cristo tuona con sollecitudine paterna, ripercuotendosi tra le ali del serafino come un eco. «Amato Francesco, apri i tuoi occhi e guarda: Crocifissione e Resurrezione sono una sola cosa.»
«Anche il Paradiso?» ansima Francesco, al limite della sopportazione.
«Crocifissione, Resurrezione e Paradiso costituiscono una sola cosa» decreta la Voce.
Implica la mia esistenza o no? O fungo da mero tramite? Entro in crisi. Sono un ponte o un'agente? Appena la Voce ha pronunciato quest'ultime parole un boato risuona nel cielo, quasi una voce che comanda affinché l'apparizione si ritiri nel seno di Dio. Il fuoco serafico, bruciante d'ardore, risale d'un tratto tra le nubi sibilando.
Francesco non regge. Sopraffatto dall'estasi, si riversa tramortito nel nevischio.
Un sorriso gli stira le labbra screpolate.
Frate Leone corre con agitazione stamattina. Gli abitanti dei villaggi a valle giurano d'aver avvistato fiamme sulla vetta della Verna. Fiamme! Sintomo d'un incendio! E Francesco? Leone si biasima per aver acconsentito, come suo solito, a lasciarlo solo nella preghiera e nelle meditazione. Ma che gli passava per la crapa?
Dissennato! Se Francesco non si dovesse scovare... oddio.
Se Francesco...
Recita il salmo consueto, scandendo bene le parole. La natura intorno a lui è un verdeggiante paradiso, scintillante qua e là da brina e macchie di nevischio. Non c'è un singolo ramoscello annerito dal fuoco o incenerito.
I popolani sono stati traditi dai loro stessi occhi?
Francesco non risponde. Leone ritenta. Silenzio. Riprova ancora. Silenzio.
«Francesco?»
Con il cuore martellante dalla tensione Leone accantona la colazione di pane e latte su un tronco divelto al bordo della radura dove Francesco s'è piantonato con la sua rudimentale capannina. È riverso sul Masso Spicco, nella neve, privo di sensi.
Balza sulla roccia, annaspando nella neve, lo alza da terra.
Che cavolo gli è successo? È colpa delle penitenze troppo aspre? Dei digiuni? Delle veglie? Dei suoi cicli interminabili castiganti Fratello Corpo? Adesso ci porrà un freno, decide Leone. Suonerà come una balia assillante, ma ne va del declino fisico dell'amico e confratello. Francesco deve riguardarsi. Imperativo.
«L-Leone...»
«T-Tranquillo Francesco!» balbetta disorientato. Non sa neanche lui da che parte girarsi. «È tutto a posto. Adesso ti porto dentro, al calduccio, e potrai riposare.»
La debole presa dell'altro s'avventa sul suo saio. Gli occhi di Francesco, contornati da ombre scure nel viso emaciato, s'ingigantiscono di colpo, esagitati.
«Lui m-mi ha p-parlato Leone!»
Lui? Lui chi? Un brigante, un malintenzionato, colui che l'ha...
... ferito?
Dai palmi e dai piedi di Francesco il sangue sgorga copioso, gocciola tra le dita, solca in rivoli e imbibisce il candore. Leone ispeziona quelle lesioni di origine ignota, gira e rigira le mani. Sui dorsi, di mani e piedi, affiorano escrescenze crostose, come punte di chiodo piegate e ribattute. Con uno strappo lacerante gli squarcia la tonaca sul petto e vede che sul costato s'apre una larga ferita, una inferta da lancia.
L'altro, frattanto, è scivolato nell'incoscienza, un corpo molle in braccio a Leone. Lui è ammutolito. Non può essere. Impossibile. Inaudito. E al contempo sensazionale e prodigioso. Un miracolo. Un onore. Un evento senza precedenti.
Le stimmate di Nostro Signore impresse nel corpo estenuato di Francesco.
Leone reprime un singhiozzo, rapito da quella visione di cui è primo e privilegiato testimone. Ma non può starsene qui in mezzo alla neve! Francesco ha bisogno urgente di lui, delle sue cure. Va medicato e fasciato, riparato al caldo.
«Padre...» Francesco predilige madre, la dolcezza della madre, il miele insito nel richiamo alla madre. «Padre Francesco mio...»
Lo trascina alla capanna, colorando di rosso la neve e il terriccio. Lo spruzza con dell'acqua per farlo rinvenire. Ora non può più chiamarlo fratello, non osa. Sta ormai una lunghezza al di sopra dei fratelli, al di sopra degli uomini mortali.
Immerso in un profondo svenimento, Francesco non sente. Solo il suo volto è ancora trasfigurato dalla paura.
Leone lava le ferite, ricava strisce di tessuto dal suo stesso saio con cui bendare quei segni, ma questi di continuo si riaprono e il sangue ricomincia a scorrere, zampillando dal costato e sporcando la stoffa grezza. Ferite che non si rimarginano.
Ferite perenni.
Leone piange pensando al dolore che, da adesso in poi, convivrà con Francesco.
«Le sue vene si asciugheranno, non gli resterà più sangue, ne morirà...»
Riacquistando conoscenza, Francesco sbatte le palpebre.
«Frate Leone...» geme rauco. «H-Hai v-visto qualcosa?»
Solo le piaghe. Leone assente.
«Sì, Francesco, quei segni.»
«L-La grazia divina L-Leone! L-Lui si è palesato a-a... me...»
Non riesce a immaginare l'emozione che deve averlo invaso.
«L'Amante è divenuto riflesso dell'Amato.»
Debolmente, con voce ora pastosa e strascicata, stanchissima, Francesco si puntella sul gomito, accorciando la distanza tra loro due. La necessità di riposare gliela si legge scritta in faccia, stravolto come appare.
«Tieni il segreto, Leone, g-giuramelo.»
Occultare il più grande dono che l'Altissimo abbia mai dispensato a un essere umano? Leone tentenna. Andrebbe declamato nelle piazze, nelle strade, sui tetti d'ogni palazzo! Ma conosce Francesco e lo ama. Sa che non desidera attirare malelingue, suscitare scalpore e venire osannato da santo.
Per suo amore, Leone custodirà il segreto.
«Lo giuro.»
Io, la Morte, ero basita.
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