Il figliolo del mercante

Poco prima che Francesco compia il suo quarto anno, sul finire della primavera, la famiglia del mercante si allarga: Angelo viene al mondo rubizzo e paffuto, un piglio da guerriero e un mare di riccioli da parere un cherubino. Tanto scoppiettante di salute quanto il fratello maggiore è fonte di ansie e preoccupazioni.

Gli occhi di Francesco diventano più grandi quando il bimbo si ammala. E si ammala assai spesso, con immensa angoscia di Pica. Occhioni grigi, della tonalità tempestosa d'un animo inquieto, in instancabile ricerca. Si sgranano, acquosi delle febbri che lo divorano, infossandosi nelle orbite. La pelle si fa trasparente e striata di azzurro e verdognolo, un labirinto di vene in rilievo. La scodella dei capelli si appiccica alla fronte e il bambino tossisce, ansima e soffia, annaspando nel lettino, invocando l'aria, fino ad assumere un allarmante colorito violaceo.

La crisi peggiore l'affronta in quest'estate precedente al suo quarto compleanno. Gli impacchi freddi, gli intrugli, i beveroni, i decotti e le preghiere non gli recano alcun giovamento. Le febbri lo tormentano.

Pica, ninnante Angelo con il braccio libero, lo imbocca, portandogli una cucchiaiata di minestra alle labbra scurite, screpolate. Lo sguardo di Francesco vaga sulla stanza, si sofferma sul mucchio di ampolle e mortai invadente il mobile vicino, osserva incantato le ombre apparire e sfumare sul soffitto, nate dal raggio di sole che s'insinua nella fessura delle imposte socchiuse e, infine, si pianta su di lei, seduta al suo fianco, che non l'ha mai abbandonato, curante il suo fratellino.

Uno sguardo vitreo, lontano.

«Mangia François.» si sforza d'invogliarlo Pica, malgrado il cuore le si stia disintegrando in mille frammenti, tendendogli il cucchiaio. «Fallo per me, pour moi.»

«N-Non ho fame.» Ha sempre spiluccato poche briciole.

«Allora pour Ange.» Va matto per il fratellino, per lui non rinuncerebbe a nulla.

La boccuccia ostinata si apre, cedendo, e Francesco deglutisce a fatica.

«Portalo via...» la prega lamentoso, con voce da agnellino, quando della minestra non ne sono rimasti che rimasugli brodosi. «Angelo... non voglio che si ammali...»

«Non si ammalerà mon tresor.» Pone il benessere altrui in primo piano. Pica trattiene la commozione. Quant'è generoso e altruista il suo François.

«M-Ma gli attaccherò la tosse...»

«Non succederà.»

Uno sbotto lo piega in due e a momenti il bimbo soffoca nel suo stesso respiro, mendicando aria, le guance arrossate. La febbre sfigura il suo visetto sorridente in una maschera funebre. Si accascia sui cuscini, stremato.

«P-Perché Maman?» la interroga con un filo roco, impercettibile, a tal punto che Pica si deve sporgere in avanti per udirlo. «Perché a me? Perché mi ammalo sempre?»

Pica venderebbe l'intero suo corredo e si priverebbe di tutti i suoi gioielli pur di saperlo.

«I ramoscelli più provati un jour si irrobustiranno in querce mastodontiche François

«Mmh... da g-grande sarò una quercia...» biascica sonnolento, rintanandosi tra i piumini. Pica gli rimbocca la coperta di lana, estratta fuori stagione dal cassone appositamente per lui. «... u-un chevalier..

«Oui.» N'è certa. Questo bambino diverrà un grande uomo nel mondo. Andate, lo troverete giù nella stalla. «Avec une belle dame ta épouse.»

«Une... d-dame blonde...»

Il silenzio piomba nella stanza e Francesco piomba nel sonno. Angelo, sazio, le ciondola satollo al braccio, un alone di latte gocciolante dalle labbra rubiconde come ciliegie. I suoi bambini dormono.

Perché a lui? Pica si scandaglia, ma non scova risposta. È una volontà del destino, un'incovenienza che, spera, non inciderà sulla vita di Francesco.

Non capisce come mai il bambino non riceva nutrimento dalla stagione in cui la frutta pende abbondante dai rami. Il raccolto delle mele, rosse e succose, spicca tra i migliori che si siano mai visti da queste parti e il profumo dolce e intenso dei frutteti si propaga oltre i muri e i cancelli. I campi sono un mare di grano dorato, i papaveri ravvivano le colline dominate da ulivi e vigneti. L'estate è stata buona, feconda, il tempo clemente, il cielo limpido e ogni spiga china il capo, accettando grata sole e pioggia. I semi sono solidi, densi, i chicchi corposi, gli steli lunghi e resistenti.

Suo marito commercia e incassa, le entrate in bottega raddoppiano.

Eppure Francesco è magro e spento, pallido e rantolante, confinato a letto quando alla sua età dovrebbe balzare dovunque, fiondarsi nella mischia dei giochi, galoppare sul suo cavallino giocattolo, duellare con spade di legno e far rotolare il cerchio.

Invece si abbevera delle magiche storie dei cavalieri.

Qualche anno dopo gli Scifi festeggiano la nascita di una seconda figlia dai lombi di Favarone di Offreduccio.

Suo fratello Monaldo non spiccherà salti di gioia, lui, che proprio non ci ravvede niente da celebrare in un'inutile, dispendiosa femmina che un giorno, tanto, come tutte, salasserà i forzieri di famiglia in doti e spese, ma imbastisce un sorriso tirato, artefatto, cercando di non esternare la delusione.

Al ricevimento successivo al battesimo viene invitata la famiglia del mercante e, naturalmente, l'invito è esteso anche ai suoi bambini. Francesco si è annoiato a morte durante la funzione e non ha proprio voglia di partecipare a un'altra boriosa, stupida cerimonia dei grandi, dove non si balla, canta o ci si diverte.

Preferirebbe di gran lunga ritornare a casa. Papa ha portato, dal suo ultimo viaggio, una pattuglia di soldatini intagliati in legni pregiati, con spade e cavalli di realistica fattura. Senza contare il romanzo sulle avventure di Rolando che deve ancora terminare di leggere! Un volume fantastico, vivificato da illustrazioni! Miniature non eccelse e caleidoscopiche quanto quelle dei codici, ma non sfigurano a confronto.

Invece... uffa, Maman ha ficcato lui e Angelo nei loro completi più appariscenti, giustacuore e calzamaglia colorata, e Papa intima loro di mostrarsi cordiali!

Cosa c'è da dimostrarsi cordiali verso una marmocchia in pannolino?

È un ragazzino spigoloso, Francesco, dinoccolato e scalpitante, con un ghigno sfacciato stampato in faccia e il taglio a scodella dei capelli corvini che gli circonfonde il viso in una ghirlanda scura e dritta. Contrapposto, Angelo vanta riccioli a profusione, biondi come oro zecchino. Non c'è da accampare dubbi sulla legittimità della loro nascita. In Provenza la famiglia di Pica è una sequela di toni diafani e dorati, la carnagione al massimo punteggiata di lentiggini in estate. I colori di Pietro e parenti, invece, sono stinti, cupi, reminescenti la terra italica.

Nel salone del palazzo degli Scifi, Madonna Ortolana e Messer Favarone intrattengono gli ospiti vicino alla culla dell'ultima nata.

A Francesco non sovviene il nome. Come l'hanno chiamata?

A sua discolpa non ha ascoltato molto la liturgia battesimale.

Ah sì!

Chiara.

Che nome... inusuale. Chiara. Se lo saggia tra i denti. Chiara. Chiara come l'alba? Come l'aria? La luce? Armonioso però, quasi musicale.

Non che ci voglia tanto a concepire un nome più aulico di Penenda.

La smorfiosetta, tre anni e uno sguardo altero, da vera, piccola nobile in fieri - stai a vedere che le inculcano che può legiferare sopra tutto e tutti fin dalla poppa - caracolla in giro, a briglia sciolta, per la disperazione della sua balia. Un'occhiata di Ortolana e si rimette in riga, non disdegnando però un'ultima marachella.

Strappa un giglio da uno dei tanti vasoni decoranti la sala, spiaccicando il fiore e sventolando il gambo moscio a mo' di scettro.

«Penenda!» l'apostrofa Ortolana, mortificata della figuraccia.

«Sono la regina! Comando tutti io!» cantarella l'altra, individuando Angelo e puntando dritta a lui, sfilando con lo scettro monco e ballonzolante. Il cavallino giocattolo che al suo fratellino è stato concesso di portarsi per ammazzare il tempo stimola la sua curiosità e frusta Angelo con il gambo. «Lo vojo. Dammelo.»

Angelo mantiene salda la presa sul balocco. «No. Perchè dovrei?»

«Pecchè lo vojo!» frigna Penenda.

«È mio!»

«No!»

«Lo vojo io!»

La balia Annetta la raggiunge, ansante dopo averla rincorsa, e la incenerisce con lo sguardo. «Penenda, una donzella non fa i capricci!»

Penenda pesta il piede, irata, e scoppia a piangere, confiscando il cavallino ad Angelo con uno strattone, una pernacchia vittoriosa. «È mio e l'ho oddenuto!»

«Ridammelo!»

«Lo regalo a Chiara.»

Francesco è certo che a Chiara interessi più ciucciarsi le dita al momento. Ma com'è? Non l'ha ancora degnata delle attenzioni che oggi si meriterebbe.

Si sporge sulla culla, ammaliato da chi ci si dimena al suo interno. Intabarrata in copertine guarnite d'oro e tra assi incrostate di pietre preziose, il tettuccio in legno velato da tendaggi rifiniti in merletti eterei e leggiadri, una bimba rubizza e cicciottella trilla una risatina appena lo intravede.

Ride. L'ha fatta ridere. Francesco ricambia il sorriso.

Un tocco gentile sulla spalla lo fa trasalire. Madonna Ortolana dei Fiumi, Contessa di Sterpeto e sposa del Conte di Sasso Rosso, in un fluttuare arioso di soggoli e veli.

«Ti andrebbe di prenderla in braccio?»

Lui? Ma è così piccola e preziosa, una perlina. Teme di frantumarla.

Prima che possa controbattere Ortolana gli accolla la figlioletta, boccoli biondi che s'arricciolano sotto la cuffietta trinata. Chiara spalanca la bocca in un sorrisone sdentato di rosee gengive, florida, epitome di salute e con le guanciotte pienotte come melograni maturi. Impietosisce un poco Ortolana l'antitesi tra il luminoso incarnato di sua figlia e quello malaticcio, scarno, del figliolo del mercante.

Tanto emana luce lei, quanto lui, quella luce, la beve.

Francesco, improvvisamente, perde la sua faccia tosta. Un formicolio inquieto gli spira lungo le braccia, risalendo e inaridendogli il palato. Sta tenendo in braccio una bambina... e quindi? Il mondo abbonda di bambine.

Chiara non è diversa o speciale.

Ma i suoi occhioni azzurri lo indagano, lo squadrano guardinghi e curiosi. Una manina cicciottela gli infligge colpetti sulle labbra. È adorabile.

«Ciao Chiara.» gli mormora. «Io sono Francesco.»

La neonata sbrodola saliva, si mordicchia i pugnetti.

E ride ancora. Sonore, grasse, risate.

«Quando sarai più grande potresti venire a giocare con me, mio fratello e i miei amici. Che te ne pare?» Si avvicina, un bisbiglio da complice. «Ma non invitiamo Penenda!»

Chiara è d'accordo e si profonde in gorgoglianti risatine.

«Giocare eh?»

Alle loro spalle, i rispettivi padri ridacchiano, intendendosi. Giocare, ovvio, il gioco coltiva l'amicizia e l'amicizia è il virgulto primigenio di sentimenti più viscerali e focosi. Monaldo sbianca alla prospettiva. Suo fratello, che sconsiderato! Abbassarsi a combinare alleanze e architettare piani con quello strozzino d'un mercante?!

Oltraggio al sangue, al casato, all'onore, al decoro!

«I nostri figli sembrano trovarsi in sintonia Messer Pietro.»

«Sembra una sintonia auspicabile Messer Favarone.»

Francesco non sa come reagire. Da Chiara trapela altrettanto spaesamento, se alla sua età si può parlare di spaesamento. Lui alza le spallucce, fregandosene delle fantasie dei loro genitori. Incomprensibili gli adulti.

«In fondo.» pontifica Favarone. «La differenza di età non rappresenta certo un problema!»

Anni più tardi Francesco sarà perseguitato dall'assillo: ma stavano scherzando o facevano sul serio?

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